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La campagna di Cesare in Gallia fu proprio necessaria?

di Francesco Lamendola - 30/05/2012


L’attacco contro gli Elvezi era giustificato, sia dal punto di vista militare che dal punto di vista giuridico e politico?
Si trattò, in somma, di un “bellum iustum”, di una guerra lecita, oppure essa fu originata unicamente dall’ambizione di un singolo uomo, Cesare, che aveva bisogno di crearsi una fama militare e, soprattutto, di legare a sé un esercito, divenendone il capo carismatico, in modo da poter affrontare la partita decisiva per il supremo potere a Roma contro gli altri due triumviri, Crasso e soprattutto Pompeo?
Il fatto che le legioni di Cesare, proconsole per cinque anni, dal 59 a. C., della Gallia Transalpina, della Cisalpina e dell’Illirico, si trovassero, inizialmente, dislocate verso il Danubio, pronte ad affrontare la minaccia rappresentata dall’espansionismo di Burebista, re dei Daci, farebbe pensare che egli non si preoccupasse affatto della Gallia “chiomata”, ma della frontiera danubiana.
Cesare aveva bisogno di una guerra, di una vittoria, di un esercito a lui personalmente devoto: e tutte queste cose gli andavano bene ovunque si fossero verificate le condizioni necessarie, meglio se in una guerra difensiva, in modo da far risaltare non la sua ambizione personale, ma il servigio prezioso da lui reso alla Repubblica. E, in questo senso, una campagna contro i Daci di Burebista, che ultimamente si erano fatti aggressivi, avrebbe rappresentato la soluzione ideale per i piani del giovane neo-console.
Ma, improvvisamente, Burebista cambiò strategia e rivolse altrove il suo esercito, lasciando inaspettatamente tranquilla la frontiera del Danubio. A Cesare era venuto a mancare il “casus belli”: situazione paradossale, per cui la scomparsa di un grave pericolo per lo Stato veniva a disturbare gli ambiziosi disegni di Cesare, che di una guerra aveva, comunque, bisogno. Dunque, se non poteva essere una guerra difensiva, sarebbe stata una guerra offensiva: l’importante era che apparisse come lecita e, almeno implicitamente, come difensiva, agli occhi del Senato e del popolo romano: insomma, una guerra preventiva.
La Gallia Transalpina offriva anche un altro vantaggio, per i piani di Cesare, rispetto alla regione del basso Danubio: la maggior vicinanza all’Italia. Dal momento che egli voleva guadagnarsi la fedeltà incondizionata di un esercito, e la guerra era il mezzo a ciò necessario, era meglio che tale esercito si trovasse in posizione strategica rispetto all’Italia, vale a dire in condizione di poter varcare le Alpi in un tempo relativamente breve, qualora si fosse giunti allo scontro risolutivo per il potere a Roma.
Certo, nessun console era autorizzato ad entrare con il proprio esercito in Italia (il cui confine, ricordiamolo, era segnato ancora dal fiume Rubicone e non dalla catena alpina); ma, in caso di guerra civile, ciò non avrebbe rappresentato un ostacolo, come poi effettivamente si vide: l’importante era assicurarsi il vantaggio della prima mossa, arrivare a Roma per primo, e, da lì, acquisire una sorta di capitale psicologico e morale: chi controlla la capitale, anche se con metodi illegali, parte comunque favorito rispetto agli altri competitori.
Del resto, tutti, a Roma, avevano compreso che il primo triumvirato, formatosi nel 60 con l’appoggio che Pompeo e Crasso avevamo assicurato a Cesare affinché questi venisse eletto console, non era che una soluzione temporanea, foriera di gravi conseguenze: qualcosa di molto simile alla quiete prima della tempesta. Oltre al fatto che si trattava di un accordo extra-legale, stretto fra privati cittadini al di fuori del normale quadro istituzionale, si capiva benissimo che quei tre uomini non erano fatti per coesistere al potere; e che le loro ambizioni li avrebbero portati fatalmente, presto o tardi, ad affrontarsi a viso aperto, non appena uno di essi si fosse sentito abbastanza forte da poter affrontare il cimento.
In tale contesto, la richiesta degli Elvezi, rivolta al proconsole Cesare, di poter attraversare la provincia della Gallia Narbonese per lasciare le loro sedi fra le montagne del Giura e trasferirsi nel territorio dei Sàntoni, sulle rive dell’Oceano Atlantico, non poté non apparire a costui come il tanto desiderato “casus belli”, suscettibile di assicurargli la vittoria, e, con essa, il potere e la fama di cui aveva bisogno per eguagliare, davanti all’opinione pubblica romana, i meriti di Pompeo, il più temibile dei suoi colleghi-rivali.
Quella degli Elvezi si configurava come una migrazione simile a tante altre, nel cuore dell’Europa continentale: una popolazione celtica che decideva di lasciare le proprie terre, povere e continuamente minacciate da vicini assai pericolosi, i Germani, per stabilirsi all’altro capo della Gallia, d’accordo con gli abitanti della regione che rappresentava la sua destinazione finale; un movimento sostanzialmente pacifico, o, almeno, non caratterizzato da eccessive violenze, in cui non era minacciata la sopravvivenza fisica di alcun gruppo: nessuno sterminio, nessuna deportazione forzata. Una faccenda interna al mondo celtico, ad ogni modo; che sarebbe avvenuta, cosa notevole, con il consenso dei diretti interessati.
Vi era un aspetto, peraltro, che coinvolgeva, volente o nolente, la Repubblica romana: il fatto che gli Elvezi avrebbero dovuto passare attraverso un territorio romano. Chiedendo il consenso di Cesare, essi mostravano delle intenzioni pacifiche e, comunque, rispettose nei confronti dell’autorità di Roma: assicuravano che non avrebbero recato danni e che non avrebbero indugiato, ma che si sarebbero spostate nel tempo più breve possibile. Tutto a posto, dunque? Non proprio.
Un po’ meno di mezzo secolo prima, al seguito dei Cimbri e dei Teutoni, anche gli Elvezi, o almeno una parte di essi, i Tigurini, avevano preso le armi contro i Romani, allorché questi ultimi lottavano, letteralmente, per la propria sopravvivenza; e avevano inflitto loro una cocente disfatta, in cui aveva trovato la morte lo stesso console, Lucio Cassio. C’era un vecchio conto da regolare, dunque, fra Elvezi e Romani; e questo è un primo aspetto da tener presente.
Un altro aspetto è quello politico-strategico. Nella loro marcia di trasferimento, gli Elvezi avrebbero dovuto non solo attraversare il territorio romano, ma anche quello degli Edui, popolo alleato dei Romani; e questi ultimi, o meglio una parte di essi, non vedeva affatto di buon occhio l’arrivo degli Elvezi, anzi si affrettò a chiedere la protezione di Cesare.
Situazione confusa, ingarbugliata: una parte degli Edui era amica degli Elvezi, una parte era loro avversa: i primi temevano Roma e desideravano riacquistare la piena indipendenza, in una prospettiva di solidarietà celtica; i secondi ritenevano preferibile schierarsi dalla parte dei Romani, dei quali conoscevano la potenza. Chi, dunque, aveva il diritto di decidere i destini della nazione e chi ne rappresentava il sentimento prevalente: quelli che si erano rivolti per aiuto a Cesare, o quelli che vi si erano opposti?
In ogni caso, è lecito immaginare che il trasferimento degli Elvezi da un capo all’altro della Gallia avrebbe avuto qualche effetto sulle altre “nationes” celtiche; avrebbe potuto fungere da catalizzatore del patriottismo celtico contro Roma, tanto più che i Sèquani, altra potente popolazione, erano coinvolti dal movimento migratorio. Ciò, verosimilmente, avrebbe innescato un meccanismo a catena, per cui le “nationes” più forti e bellicose sarebbero state indotte a porre la propria candidatura per l’egemonia sull’intera Gallia. E questo avrebbe rotto gli equilibri interni della Gallia “chiomata”, con evidenti conseguenze negative per la Repubblica romana.
Fino a quel momento, i Romani non avevano considerato i Galli transalpini come una concreta minaccia per il loro impero, proprio perché divisi e discordi; ma cosa sarebbe accaduto se gli Elvezi, o magari i Séquani o gli stessi Edui, si fossero messi alla testa di un movimento di riunificazione, sottomettendo le altre popolazioni o alleandosi con alcune di esse?
Ora, la domanda che lo storico moderno deve porsi, a tale proposito, è se esistessero le condizioni perché una tale eventualità si concretizzasse. La risposta non può essere che affermativa, dal momento che due potenze straniere gravavano ai confini della Gallia e spingevano naturalmente le sue popolazioni a cercare di raggiungere una unità che, sola, avrebbe potuto rendere loro possibile una efficace difesa; e queste due potenze erano i Germani e i Romani.
La presenza incombente dei Germani, sul Reno, era un fattore obiettivo di minaccia: più audaci, più guerrieri dei Galli, i Germani non avevano alcun complesso di inferiorità nei confronti di qualunque altro popolo, Romani compresi; e Ariovisto, dalla Foresta Nera, si accingeva, effettivamente, a occupare l’Alsazia; anzi, varcò il Reno proprio mentre Cesare decideva di affrontare gli Elvezi con una campagna militare in piena regola. In pratica, si ingaggiò una gara di velocità fra i Romani e i Germani per la conquista della Gallia nord-orientale; e Cesare, subito dopo aver sconfitto gli Elvezi a Bibracte e averli costretti a rientrare, decimati, nelle loro sedi montuose, dovette accorrere in Alsazia e affrontare Ariovisto prima che fosse troppo tardi, riuscendo ad infliggergli una sconfitta memorabile. Poi si diede a conquistare le regioni galliche del basso Reno, abitate dai Belgi, proprio per tener lontani i Germani e impedir loro di passare il fiume più a valle: e questo, mentre il cuore della Gallia “chiomata” era ancora, di fatto, indipendente.
Tutto ciò autorizza a pensare che, se Cesare non avesse agito verso gli Elevezi così come agì, i Germani avrebbero avuto il tempo di insediarsi saldamente in Gallia e, da lì, avrebbero costituito una gravissima minaccia per Roma, così come era avvenuto al tempo dell’invasione dei Cimbri e dei Teutoni nella stessa Pianura Padana, a stento respinta da Caio Mario. Questo, almeno, è quanto verosimilmente sarebbe accaduto; ma è chiaro che ci troviamo, in sostanza, nel campo delle ipotesi, e che lo storico non deve ma basarsi su di esse, bensì sui fatti.
I fatti sono che gli Elvezi puntavano a stabilirsi nel territorio dei Sàntoni, in riva all’Atlantico; e che Cesare sostenne di averli dovuti attaccare perché, se avessero portato a termine la loro migrazione, sarebbero venuti a trovarsi “non longe” (sono le sue testuali parole) dai Tolosati, altri amici e alleati dei Romani. Ma questo non è vero: sarebbero venuti a trovarsi a non meno di trecento chilometri da essi; questa è la realtà dei fatti, la realtà della geografia. È confermato, dunque che Cesare cercava un pretesto, non solo per rifiutare il passaggio degli Elvezi attraverso la provincia romana, ma per assalirli e per affrontarli in una guerra aperta, una guerra di aggressione.
Una guerra “giusta”, nel senso di necessaria? Qui c’è spazio per diverse e contrastanti opinioni, e tutte lecite. Certo si trattò di una guerra preventiva, perché il pericolo, per i Romani, non era immediato; anzi, è tutto da vedere se si trattava di un pericolo reale. Molto più reale, anche se ancora lontano, come abbiamo detto, quello rappresentato dai minacciosi movimenti di Ariovisto: così minacciosi da indurre gli stessi Galli a richiedere il suo tempestivo intervento.
L’imperialismo romano non può essere paragonato agli imperialismi moderni, quelli del XIX e XX secolo: se non si tiene conto di questa sostanziale differenza, si rischia di emettere dei giudizi storici errati. Perfino tra l’imperialismo classico dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, e quello odierno, corrispondente alla cosiddetta globalizzazione, vi è una differenza enorme: quello era un imperialismo politico, economico e militare insieme; questo è un imperialismo finanziario, che non si serve principalmente dello strumento militare e raramente di quello politico, perché non ne ha bisogno, se non in casi estremi. L’imperialismo romano era più di tipo strategico; il fatto che le regioni conquistate fornissero anche vantaggi economici, nonché una massa di schiavi come forza lavoro per i latifondisti italici, era, per così dire, un effetto collaterale dell’obiettivo primario, che era quello strategico: assicurarsi delle frontiere sicure.
È chiaro che tali frontiere si spostavano continuamente, mano a mano che le conquiste aumentavano; ma, come ha osservato Spengler, la partita decisiva era stata quella contro Cartagine, per il controllo del Mediterraneo; una volta vinta quella, i Romani avevano arraffato, come un frutto maturo, ciò che era alla mercé di chiunque. Ma è altrettanto chiaro che l’economia romana non aveva bisogno della conquista militare per prosperare, mediante gli scambi con i popoli vicini: e proprio il caso della Gallia Transalpina, percorsa in lungo e in largo da mercanti romani che vi facevano degli ottimi affari, ne è una prova.
Certo, poteva accadere che quei mercanti, fatti un po’ troppo avidi, finissero per entrare nel mirino di qualche capo nazionalista: così era accaduto che migliaia di cittadini romani e italici venissero massacrati per ordine di Mitridate, re del Ponto, allorché questi aveva invaso la Bitinia e la provincia d’Asia. E ciò aveva insegnato ai Romani che, per la sicurezza dei loro commerci e dei loro commercianti, il protettorato sui popoli vicini era meglio della loro indipendenza; e che il dominio diretto di Roma era ancor meglio del protettorato. Ma ciò non significa che essi ambissero alle conquiste territoriali prima di ogni altra cosa; un imperialismo territoriale, come quello dispiegato dagli Inglesi in Africa, nel XIX secolo, con la marcia “dal Cairo al Capo”, sarebbe parso loro una autentica stravaganza.
I Romani erano gente pratica, non romantica; e non avevano bisogno di tanti, ipocriti pretesti morali per muovere guerra contro qualcuno; semmai, di ineccepibili giustificazioni giuridiche.
Se puntavano ad annettersi delle nuove province, era prima di tutto per motivi di sicurezza strategica: per questo, al tempo di Augusto, cercheranno di portare la frontiera nord-occidentale dal Reno all’Elba (e sarà li disastro di Teutoburgo): per accorciare la frontiera e renderla meglio difendibile, con un minor numero di legioni. È vero che l’imperialismo romano, dopo la conquista del Mediterraneo, si vide costretto ad allargare sempre più la sfera dei suoi interessi strategici; ma, per paradossale che ciò possa apparire, tale espansione fu dovuta principalmente a ragioni di carattere difensivo, non offensivo.
A un certo punto l’impero divenne troppo grande per poter essere difeso efficacemente: la necessità di guarnire le sue lunghissime frontiere lo costringeva a tenere schierati eserciti sempre più numerosi, impoverendo la sua economia e sottraendo all’agricoltura braccia preziose; da ciò la necessità di procurarsi sempre nuovi schiavi e, quindi, di intraprendere nuove campagne militari, sempre più lontano. Da ciò, anche, un crescente aumento delle spese, un inarrestabile depauperamento delle finanze, una incessante emorragia di metalli preziosi: l’impero romano è morto di esaurimento, ma tale esaurimento era stato causato dalla impossibilità di digerire il gigantesco banchetto.
E adesso torniamo alla campagna di Cesare contro gli Elvezi.
Ha scritto Beniamino Proto in «Alle fonti della storia» (Milano, Mursia, 1992, vol. 2, pp. 368-70):
«È evidente che se già nell’anno del consolato (59 a. C.), Cesare avesse programmato un’azione in Gallia, Cesare avrebbe preso misure adeguate. Notate che il concentramento d tre legioni ad Aquileia, dove vengono lasciate a svernare (Cesare avrebbe potuto spostarle in Provenza o in Piemonte), era in funzione del pericolo creato a nord-est dai daci di Burebistas. Si deve concludere che effettivamente Cesare scelse come campo d’azione la Gallia con una decisione improvvisa, suggerita dalla situazione (se non proprio imposta dalla necessità) del momento. […]
[Per Cesare] il lettore romano doveva convincersi che gli Elvezi erano ben diversi dagli altri Galli - pacifici, civili e semi-romanizzati - che era abituato ad incontrare. Tenete presente, inoltre, che le ripetizioni concettuali in Cesare sono rare: egli di norma scrive i suoi periodi costruendoli con rigorosa economia. Perciò l’insistenza sul valore guerriero degli Elvezi […] attesta un interesse particolare, e un po’ sospetto, dell’autore per l’argomento.
E noi ci domandiamo: gli Elvezi erano proprio tanto diversi dagli altri Galli e tanto terribili? […]
[Nei capitoli 7 e 12] Cesare si rifà a un precedente storico: : gli Elvezi (nel cap. 7 son citati così, genericamente, ma in effetti si trattava solo di una loro componente, i Tigurini, come viene precisato nel cap. 12) erano da tempo nemici di Roma, e nemici temibili: avevano addirittura inferto un’umiliante sconfitta alle legioni di un console [Lucio Cassio],  perito in battaglia. Ciò era accaduto nel 107 a. C. (quarantacinque anni prima!) nel quadro delle incursioni dei Cimbri e dei Teutoni, genti germaniche, cui i Tigurini si erano aggregati.  Era stato un evento drammatico, che aveva portato la guerra fin sul suolo dell’Italia, e solo il genio militare di Gaio Mario aveva ristabilito la situazione. Cesare, con questo richiamo alla storia, certo non falsifica i fatti, ma ci si chiede in che misura la connessione tra gli Elvezi del 59 a. C. e i Tigurini del 107 sia pertinente, . In realtà il fine dell’autore è solo quello di caricare le tinte e di imprimere con maggiore incisività nella mente del lettore l’immagine del pericolo rappresentato dagli Elvezi. […]
[Nei capitoli 2, 3 e 4] l’allusione a una grave minaccia incombente su Roma è esplicita e, a prima vista, convincente.  La Gallia “Chiomata” non costituiva un pericolo finché era divisa in mole “civitates”, ma la situazione sarebbe radicalmente mutata se il paese fosse stato unificato sotto la guida di una bellicosa “civica” egemone (o di un gruppo di “civitates” coalizzate: Elvezi, Sèquani, Edui). C’era di che impressionare il pubblico romano.
Senonché, a legger attentamente il teso, si rileva che si trattò del progetto di un singolo nobile elvetico, Orgetorìge, il quale poi esce dalla scena. La massa degli Elvezi, da parte sua, emigrava perché era minacciata dai Germani confinanti e perché la terra era scarsa e povera, senza alcun programma di egemonia sull’intera Gallia, come è lecito supporre. In sostanza i capp. 2-4, a parte l’informazione sulla decisione degli Elvezi di emigrare, sono poco pertinenti. Però L’AUTORE HA RAGGIUNTO LO SCOPO DI LANCIARE L’IDEA DEL PERICOLO DI UN GRANDE STATO GALLICO UNIFICATO, e questa idea rimane nel lettore (predisposto così a compiacersi che Cesare abbia sventato per sempre la minaccia). […]
[Nella prima metà del cap. 10] apprendiamo dove erano gli Elvezi (prima potevamo supporre che intendessero non solo attraversare il paese degli Allobrogi, ma stabilirsi lì o l’ì vicino): la loro meta è la costa atlantica, nel territorio dei Sàntoni, con cui evidentemente avevano concordato la trasmigrazione(c’erano ancora in Gallia molte plaghe deserte o scarsamente abitate).
Cesare trae spunto dall’informazione per ribadire il concetto del pericolo che gli Elvezi rappresentavano per lo “statu quo” della Gallia nel suo assieme e, in particolare, per la sicurezza della “provincia” romana. Egli afferma che, una volta raggiunta la meta, gli Elvezi si sarebbero trovati, incombenti e minacciosi, “non lontano” dai Tolosati (una gente gallica compresa nella provincia); qui gioca un po’sul fatto che solo con difficoltà il lettore romano solo con difficoltà avrebbe trovato una mappa della Gallia (lui, Cesare, invece, ne aveva, e abbastanza precise). Ora noi, che possiamo aprire un atlante, verifichiamo subito che tra il territorio dei Sàntoni (attuale dipartimento della Charente-Maritime, con capitale Saintes) e Tolosa corrono, in linea d’aria, sui 300 km. L’espressione “non lontano”, “non longe”, è dunque alquanto azzardata! […]
Con le argomentazioni esaminate fin qui Cesare ha insinuato nella mente del lettore una somma di motivi che lo fanno propendere a considerare giustificato il suo intervento in Gallia: il “bellum iustum” può essere anche un’azione preventiva, diretta a stornare una grave minaccia ai danni della Repubblica. Ma c’è di più: si è verificato un “casus belli”, anzi più di uno. […]
Nel cap. 8 Cesare riferisce come, dopo il suo rifiuto di concedere agli Elvezi il passaggio attraverso la provincia,  essi tentino ugualmente di attraversare il Rodano. Gravissimo: una popolazione barbarica non si attiene a un preciso ordine del proconsole e viola il territorio della Repubblica. Ce n’era abbastanza per una formale dichiarazione di guerra anche da parte di un senato non proclive alle avventure. Senonché Cesare non insiste sulle conseguenze dell’episodio, che qualche storico moderno considera del tutto inventato. Ma parlare di falsificazione è forse eccessivo. Certyo non si trattò di un attacco preordinato e in massa (gli Elvezi non erano così dissennati da sfidare apertamente la potenza romana), ma piuttosto di INIZIATIVE ISOLATE e di scarso rilievo, che Cesare enfatizza al solito fine di dimostrare quanto gli Elvezi  fossero pericolosi e malfidi. [..]
Il vero e, per Cesare, decisivo “casus belli”è quello illustrato nel cap. 11: gli Elvezi, nella loro marcia di spostamento, recano grave danno agli Edui, alleati del popolo romano. Tra gli altri suoi compiti, il proconsole aveva quello di tutelare le persone, i beni e i diritti degli alleati  e di rispondere alle loro richieste di soccorso.  L’intervento di Cesare è quindi non solo legittimo, ma doveroso. […]
Si è detto: intervento legittimo e doveroso. Sì, ma per valutare esattamente la situazione, bisognerebbe avere anche altre fonti(non solo il “De Bello Gallico”). Di quali entità erano i danni recati agli Edui? Noi sappiamo (dallo steso Cesare) che tra gli Edui esistevano un partito filoromano e uno indipendentista, favorevole agli Elvezi. In che misura giocò questo dissidio nella richiesta, da parte di alcuni degli Edui, di aiuto a Cesare? Non si trattò per caso di un piano accuratamente predisposto tra Cesare e gli Edui filoromani? Siamo nel campo delle ipotesi. […]
L’intervento di Cesare in Gallia fu motivato da un pericolo reale per la Repubblica, o la trasmigrazione degli Elvezi rappresentò semplicemente un pretesto? L’analisi del libro 1 del “De Bello Gallico” consente di concludere senza molte esitazioni che si trattò di un pretesto.
L’analisi andrebbe condotta però anche sulla seconda parte del libro 1, in cui Cesare espone la campagna condotta contro il re germanico Ariovisto. Anche qui egli è costretto a dare molte spiegazioni, perché Ariovisto era stato ufficialmente dal senato come legittimo re e come amico di Roma; ma in questo caso le motivazioni di un intervento romano appaiono meglio fondate, perché la pressione dei Germani sulla Gallia rappresentava effettivamente una minaccia sia per la nazione celtica, sia, indirettamente, per la Repubblica romana.»
In conclusione, si può dire che Cesare fu lo strumento dell’imperialismo romano in Gallia, in concorrenza, e quasi simultaneamente, all’espansionismo dei Germani; e che la sua campagna di conquista, benché non premeditata, trovò nella migrazione degli Elvezi il “casus belli” necessario per intraprendere una “giusta” guerra preventiva.
In questa prospettiva, il nemico dei Romani non erano tanto le discordi “nationes” celtiche, ma gli agguerriti Germani di Ariovisto: per poter fronteggiare questi ultimi in posizione di vantaggio, bisognava attestarsi sul Reno e attenderli sulle Alpi: la terribile esperienza dell’invasione dei Cimbri e dei Teutoni aveva pur insegnato qualcosa.
Da ciò, la necessità di assicurarsi il controllo di tutte le regioni galliche prospicienti la riva sinistra del Reno (e, se possibile, anche di una parte della Britannia); la conquista dell’intera Gallia, del cuore di essa rappresentato dall’Alvernia, non fu che una logica e necessaria conseguenza di tale impostazione strategica.