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Rimpiazzati dall'outsourcing alimentare

di Jason Mark - 11/10/2005

Fonte: Nuovi Mondi Media

Rimpiazzati dall'outsourcing alimentare
di Jason Mark
Gli agricoltori degli Stati Uniti stanno lottando contro una nuova forma di pestilenza: le importazioni da manodopera a basso costo dei rivali internazionali, che favoriscono i grandi gruppi e i mediatori dell'industria alimentare
Ronny Sloan proviene da una famiglia di agricoltori. Il padre di Sloan era agricoltore e lo era anche suo nonno. Tutti coloro che conoscono la storia della famiglia si ricordano quando gli Sloan si trasferirono dal Kentucky all'Illinois, all'inizio del XIX secolo. Oggi Sloan e i suoi quattro figli dirigono un'azienda agricola vicino alla cittadina di Pana, nell'Illinois, dove coltivano grano, germogli di soia e avena.

Gli Sloan sono agricoltori di successo. I loro 6,000 acri di terreno messi a coltura rappresentano un'alta produttività per gli standard locali. Tuttavia, negli ultimi anni, si sono scontrati con un problema mai incontrato prima: la concorrenza straniera.
"La situazione è critica, l'economia dell'azienda scricchiola", afferma Sloan. Il suo accento rurale sembra più simile a quello del Mississippi che a quello del Missouri. "Eravano i maggiori coltivatori e controllavamo il 75 per cento del mercato della coltivazione di soia. Ma non è più così. Adesso siamo al secondo posto, dopo il Brasile. Questo ci danneggia moltissimo".

Gli Sloan non sono soli. Dai frutteti di meli del Washington occidentale ai campi di pomodoro della Florida e all'Idaho, il centro della coltivazione della patata, gli agricoltori americani stanno combattendo contro un nuovo tipo di peste: le importazioni dai rivali internazionali in grado di produrre prodotti alimentari essenziali a prezzi molto più bassi.

Secondo i dati del Dipartimento Usa dell'agricoltura, dopo esser stati per decenni i principali produttori di prodotti alimentari, gli Stati Uniti sono destinati ora a diventare un importatore netto di prodotti agricoli. Entro la fine del decennio, si prevede che il Brasile eclisserà gli Usa per il posto numero uno di coltivatori di prodotti alimentari.

Chiamiamolo “outsourcing dei prodotti alimentari”. Seguendo il cammino degli operai e, più di recente, degli impiegati, anche i due milioni di agricoltori Usa si trovano davanti alla prospettiva di essere presto rimpiazzati. La predominanza della produzione straniera costituisce un duro colpo per i coltivatori che per anni hanno lottato per far sì che i prezzi di vendita coprissero i costi di produzione.

L'outsourcing dei prodotti alimentari risulta dannoso per il debito interno Usa – sempre crescente – dato che i prodotti agricoli costituiscono uno dei pochi punti forti della bilancia commerciale del paese. Per il momento dai prezzi più bassi i consumatori traggono beneficio. Ma, secondo alcuni analisti, a lungo termine gli Usa potrebbero trovarsi ad affrontare una seria minaccia.

Gli Usa sono sempre stati importatori di quei prodotti che non potevano essere coltivati a livello nazionale – caffè e cacao, banane e mango. Ma adesso i mercati statunitensi si stanno riempiendo proprio di quegli alimentari che gli americani erano abituati a produrre da sé. Una percentuale crescente di prodotti acquistati nei supermercati Usa proviene da campi e frutteti lontani migliaia di chilometri. Se si acquista oggi un succo di mela negli Usa, è più che probabile che il concentrato utilizzato per la sua produzione provenga dalla Cina. I lamponi che vi piacciono tanto potrebbero essere stati coltivati in Cile, i pomodori in Messico e gli avocado nell'America centrale.

Persino i prodotti tradizionalmente Usa, la vecchia buona carne e le patate, spesso sono importati. La Scandinavia, ad esempio, esporta negli Usa una enorme quantità di costolette, mentre una parte delle patate americane proviene dall'estero. Uno dei giganti dell'industria dei derivati della patata, la J.R. Simplot, recentemente ha lasciato a casa 625 dipendenti da uno dei propri stabilimenti dell'Oregon e sta pianificando di far produrre i propri prodotti totalmente all'estero.

Reggie Brown, vice presidente della Florida Tomato Exchange – un gruppo commerciale che rappresenta l'intero settore nazionale della produzione di pomodoro del valore di 500 milioni di dollari e che ha subito ingenti perdite nello scorso decennio – riassume in breve il problema. "La domanda fondamentale è questa: 'È nell'interesse degli Usa produrre i propri prodotti internamente oppure è più conveniente farli produrre all'estero e poi importarli?' Noi crediamo che sia più vantaggioso a lungo termine che l'America produca da sé le proprie scorte di prodotti alimentari. Ma non sembra che ci sia un programma nazionale a riguardo. Sembra che nell'agenda nazionale ci sia proprio l'opposto".


Chiusura delle aziende agricole

Molti agricoltori e diversi accademici sostengono la causa della situazione attuale degli Usa stia in un decennio di accordi di libero commercio. Durante i bollenti dibattiti sull’istituzione del NAFTA (North American Free Trade Agreement) e quella del WTO (World Trade Organization, Organizzazione mondiale del commercio), i politici di Washington avevano promesso agli agricoltori statunitensi che i nuovi accordi commerciali avrebbero favorito i coltivatori. Con il senno di poi, appare fin troppo ovvio che i politici avevano promesso ciò che non potevano mantenere.

"Molti coltivatori rimangono scettici riguardo agli accordi commerciali", sostiene Desmond O'Rourke, un ex professore della Washington State University e redattore di un magazine per l'industria di prodotti vegetali e fruttiferi. "Direbbero: 'Cosa hanno fatto per me? Proprio niente'".

Il problema, secondo Phillip Abbot, professore di economia agricola alla Purdue University, è che altri paesi si sono impossessati dei mercati Usa sui quali contavano gli agricoltori statunitensi. Le esportazioni dei principali prodotti Usa – materie prime poco costose, quali il grano, i germogli di soia e il frumento – sono rimaste scarse per un decennio mentre altri paesi avanzavano. Allo stesso tempo, le importazioni dei prodotti più costosi – la frutta, le verdure, alcuni tipi di carne – stanno aumentando. La minaccia maggiore per i coltivatori statunitensi è che i generi alimentari, proprio come le televisioni e le T-shirt, possono essere prodotti a prezzi più bassi nei paesi a salari più bassi. Semplicemente, è molto meno costoso coltivare arance o germogli di soia in Brasile che in Florida o nell'Illinois.

Mentre i nuovi accordi commerciali hanno abbassato le barriere politiche per le importazioni di alimenti , le innovazioni tecnologiche hanno abbassato le barriere fisiche che impedivano le spedizioni di alimenti a grandi distanze. Tutti questi fattori lasciano i coltivatori in una situazione di forte incertezza: si tenta in tutti i modi di mantenere i costi dei propri prodotti più bassi possibile in un mercato nel quale il prezzo degli stessi non aumenta. Migliaia di agricoltori non ce l’hanno fatta e hanno dovuto chiudere l'attività.

"Ho visto fallire molti agricoltori a causa del NAFTA", afferma un imprenditore agricolo di una multinazionale della California che ha chiesto di rimanere anonimo per timore dei suoi superiori. "Non possiamo competere con la manodopera straniera. In Messico pagano 5 dollari al giorno. Noi paghiamo dagli 8 ai 10 dollari all'ora. È un dramma, ci sono serre in vendita in tutte le parti del paese".

L'asparago è uno dei prodotti più duramente colpiti dalle ondate di importazione degli alimenti. Dal 1930, lo stato di Washington è stato il principale produttore Usa di asparago. Nello scorso decennio, l'asparago d'oltreoceano, per la maggior parte proveniente dal Perù, ha colpito i coltivatori nazionali. Secondo un funzionario della Washington Asparagus Commission, che sostiene lo "stato di collasso" del settore, dal 1990 due terzi dei campi di asparago dello stato di Washington sono stati abbandonati e nel 2004, per la prima volta da oltre sessant’anni, non è stato coltivato asparago sul territorio nazionale.

Jim Middleton, uno dei pochi coltivatori di asparagi rimasti a Washington, afferma che il collasso dell'industria ha causato un'insostituibile perdita di capitale finanziario. Poiché l'asparago è una pianta perenne – impiega diversi anni per maturare e poi dura dai 15 ai 20 anni – estirpare un campo di asparagi non è così semplice come estirpare una fila di broccoli. "Non è una cosa semplice", continua Middleton, la cui famiglia coltiva asparagi dal 1966. "È dura metterti a estirpare i tuoi raccolti. Ma se non guadagni, che altra scelta hai?" Middleton sostiene che il recente crollo dell'industria dell'asparago, che ha una manodopera intensiva sia per la raccolta che per la lavorazione, è costata a milioni di persone il posto di lavoro. "Questa coltivazione è sempre stata il simbolo dell'economia agricola", ha affermato. "E adesso questi posti di lavoro sono persi. Spero che lo stato e il nostro governo federale faccia di tutto per mantenere in vita il settore. I posti di lavoro che esso fornisce sono la nostra vita".


Gli interessi delle importazioni

Se l'aumento delle importazioni è un pessimo affare per i coltivatori, chi è che ci guadagna? Gli analisti sostengono che tutto quello che bisogna fare è “seguire il denaro”: ciò porta direttamente alle principali aziende di produzione e ai mediatori di generi alimentari come la Cargill and Archer Daniel Midland (ADM), multinazionali che continuano a fatturare profitti esorbitanti.

"A chi giova tutto questo? È un sistema a vantaggio delle multinazionali alimentari", sostiene Ben Lilliston, portavoce dell'Institute for Agriculture and Trade Policy (Istituto per le politiche commerciali e agricole), un gruppo di esperti con sede a Minneapolis. "Stanno sostituendo gli agricoltori statunitensi con gli agricoltori del Brasile, dell'India, dell'Australia e persino della Cina. A queste aziende non interessa da dove provengono i prodotti alimentari. Vogliono solo i prezzi più bassi possibili".

Incoraggiando l'aumento delle importazioni di generi alimentari, le multinazionali quali la Cargill and ADM, insieme alle principali catene di supermercati come Wal-Mart e ad altre aziende come la Philip Morris's Nabisco, mantengono bassi i costi e alti i margini di guadagno. La priorità principale di queste aziende è che i prodotti alimentari siano poco costosi, indipendentemente dalla loro provenienza. Sembra che le regole siano state scritte per favorire i grandi gruppi che commerciano nel mercato internazionale. Ad esempio, è stato un ex vice presidente della Cargill, Dan Amstutz, che ha redatto il testo originale delle leggi agricole del WTO.

Le grandi aziende agro-alimentari hanno cercato di proteggere i propri interessi anche cessando di porre sulla merce l'etichetta che indica il "paese d'origine". La legge agraria Usa del 2002 ha richiesto all'USDA di identificare la provenienza dei prodotti alimentari importati. Ma gli alleati delle aziende nella Camera dei Rappresentanti, presieduta dal rappresentante del Texas Tom Delay, hanno ritardato l'obbligo di etichettatura e stanno tentando di rendere la misura facoltativa.

Gli adesivi e le etichette che indicano i paesi d'origine possono anche essere di misure ridotte. È il problema ad essere grande. Ecco perché i sondaggi tra i consumatori mostrano che la maggior parte degli acquirenti statunitensi preferirebbe acquistare prodotti alimentari che provengono dal loro paese. Se l'obbligo di etichettatura diventasse generalizzato, ciò potrebbe paralizzare il modello commerciale delle principali industrie alimentari.

"Le aziende alimentari hanno paura", sostiene Lilliston dello IATP (Institute for Agriculture and Trade Policy ). "Le multinazionali hanno creato una catena alimentare globale. Ma sanno che gli americani preferiscono cibi locali quando hanno la possibilità di scegliere. La maggior parte delle persone, se al supermercato può scegliere tra il manzo americano e il manzo australiano, sceglierà quello americano anche se costa un po' di più".

Per i 270 milioni di americani che mangiano fuori tre volte al giorno, l'amento di prodotti alimentari importati risulta molto vantaggioso, per i prezzi più bassi e per una maggiore possibilità di scelta nei supermercati. Alcuni analisti, tuttavia, avvertono che dipendere da altre nazioni per una grossa porzione dei nostri prodotti alimentari mette in pericolo la sicurezza degli Usa in un mondo instabile. Certo, il rischio di una scarsità nazionale di alimentari in tempi breve è basso; quando si tratta di calorie totali prodotte o di tonnellate di alimenti raccolte, gli Stati Uniti restano i principali coltivatori al mondo. Tuttavia, se gli Usa diventano sempre più dipendenti dalle importazioni straniere, la vulnerabilità del paese aumenta.

Phil Howard, un ricercatore del Center for Agroecology and Sustainable Food Systems presso la University of California-Santa Cruz, sostiene che gli Stati Uniti sanno perdendo un elemento chiave della propria autosufficienza. "Non è come per i chip elettronici cinesi, possiamo sopravvivere", afferma Howard. "Se continuiamo ad importare, diventeremo completamente dipendenti da altri paesi. Manderemo i nostri militari in giro per il mondo a proteggere le nostre importazioni alimentari come stiamo facendo adesso per proteggere le nostre importazioni di petrolio?"



Jason Mark è coautore, insieme a Kevin Danaher, di "Insurrection: Citizen Challenges to Corporate Power". Sta facendo ricerche per un libro sul futuro dei prodotti alimentari



Fonte: http://www.alternet.org/story/26031/%22
Tradotto da Tanja Tion per Nuovi Mondi Media