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Rallentiamo il mondo

di Giorgio Ruffolo - 17/07/2006

 
Il capitalismo è un treno in corsa verso un abisso. Fermarlo? Si può. Ma solo con una rivoluzione antropologica. Che realizzi l'utopia di un'economia sostenibile e solidale. Dé-penser l'economie. È il titolo del saggio di un sociologo francese, Alain Caillé, direttore della "Rivista del Mauss", che significa Mouvement antiutilitariste en sciences sociales, ma è anche il nome di un famoso antropologo e sociologo francese cui quella rivista si ispira. Titolo barocco e provocatorio ma significativo, perché annuncia con qualche baldanza il tramonto del paradigma dominante che occupa il nostro spazio e scandisce il nostro tempo; e che, tuttavia, mostra sempre più vistose incrinature [di Giorgio Ruffolo da "L'Espresso"].


L'egemonia ancora indiscussa del paradigma economico si spiega con l'avvento storico dell'economia capitalistica di mercato: processo di progressiva emancipazione dell'economia dalla società nella quale per millenni è stata incastrata (embedded) in una spirale di sviluppo accelerato che, generata in Europa, ha investito con la sua potenza esplosiva l'Occidente e, oggi, il mondo intero. Dopo il crollo dell'alternativa comunista, dissolta come un grattacielo che crolla sullo schermo di un video silenzioso, il capitalismo, domina incontrastato, non solo come sistema economico dell'economia, ma come struttura della società e come forma del suo immaginario. Definitivamente? Ovviamente, non c'è nulla di definitivo nella storia. Ma non si vedono proprio alternative credibili al capitalismo, all'orizzonte.

Fallita clamorosamente e tragicamente quella comunista (presente oggi solo come nostalgia inoffensiva o come logo pubblicitario scaduto) le alternative si sono ritirate nello spazio della contestazione o dell'utopia. Al primo tipo appartengono i movimenti no global, efficaci, talvolta molto efficaci, nel denunciare le iniquità, le devastazioni, i rischi ecologici e sociali del capitalismo, ma del tutto incapaci e disinteressati a offrire progetti alternativi. Le pretese a una ispirazione marxista che talvolta questi movimenti esibiscono sono del tutto improprie. La denuncia degli "orrori" ("Sangue, lacrime, fango") connessi soprattutto con le origini del capitalismo era del tutto estranea a un tipo di retorica che Marx bollava come «pathos dimostrativo». Quegli orrori erano considerati infatti come il costo "necessario" di una evoluzione che avrebbe provocato l'autodistruzione del capitalismo e la sua trasfigurazione in una società socialista generata dalle sue stesse contraddizioni. Non solo: Marx non si limitava a denunciare gli orrori, ma descriveva con autentica ammirazione, nel "Manifesto", l'avventura rivoluzionaria di una borghesia che aveva trasformato il mondo, strappandolo al torpore delle civiltà contadine e sottraendola al dispotismo delle aristocrazie. Era un convinto sostenitore della crescita e della globalizzazione. Nel secondo tipo, quello delle utopie, si inscrivono le proposte di nuove forme di organizzazione economica non capitalistica. E queste a loro volta si distinguono in utopie radicali alla Illich, del ritorno alla semplicità conviviale attraverso la destrutturazione delle istituzioni, che Marx avrebbe certamente considerato reazionarie; e in utopie solidaristiche, di una economia avanzata, ma fondata sulla cooperazionea anziché sulla competitivita. Delle prime non mette conto parlare seriamente, anche se nella critica delle istituzioni (la sanità, la scuola) si trovano analisi illuminanti. Le lltre, non eversive ma riformiste, colgono invece un aspetto concreto: la distruttività della crescita capitalistica, la necessità di trovare altre vie possibili e "sostenibili" a una economia capitalistica altrimenti votata al disastro. La domanda che esse pongono è questa: è possibile un'altra economia, non capitalistica, ma altrettanto efficace? La risposta di Caillé, che sottoscrivo, è no. A meno che non si esca dal paradigma egemonico dell'economia. Vediamo.

Qualunque riflessione seria sul capitalismo deve riconoscere il suo enorme contributo allo sviluppo della specie umana: della sua potenza, della sua ricchezza, del suo benessere. Quali che siano stati i suoi orrori - e sono stati immensi - non sono certo superiori a quelli delle civiltà che l'hanno preceduto, fondate sulla schiavitù, sull'oppressione, sulla violenza; mentre altrettanto immensamente superiori sono i suoi meriti: l'incomparabile promozione delle forze produttive, la diffusione prodigiosa delle innovazioni tecnologiche e, nei tempi più recenti, il compromesso politico con l'altra grande forza della modernità: la democrazia.

Una riflessione seria non può, d'altra parte, non riconoscere il rovescio della medaglia: non solo l'esaltazione di Faust, ma anche la sua dannazione. Il capitalismo ha scatenato poderose forze distruttive dell'ambiente naturale e della coesione sociale, fino a minacciare la sopravvivenza stessa della specie. Il suo è come quel treno di un film famoso, lanciato verso l'abisso di Charing Cross. La sua "dannazione" sta nell'assurdità della sua logica della crescita illimitata. In natura non esistono processi di crescita sterminati, che non siano votati allo sterminio. I bambini non crescono come giganti, gli alberi non crescono fino al cielo. Solo gli interessi composti crescono indefinitamente, ma distruggendo il capitale su cui si fondano. A un tasso di sconto del 5 per cento l'equivalente della ricchezza mondiale dei prossimi 200 anni è il prezzo attuale di un buon appartamento; al tasso del 10 percento, di una auto usata. L'illusione della ricchezza finanziaria si dissolve nel tempo.

Le alternative alla minaccia di Charing Cross sono: scendere dal treno, e cioè la decrescita, suggerita dall'ecologia estremista; tapparsi dentro il treno oscurando i finestrini; cambiare direzione. La prima, a parte la sua desiderabilità, appare impossibile. La seconda è quella che stiamo praticando, e non sembra molto saggia. In che cosa può consistere la terza? Anzitutto, nell'arrestare la crescita globale più o meno al livello attuale, realizzando lo "stato stazionario": una prospettiva che gli economisti classici consideravano non solo realistica, ma inevitabile (stazionario non significa statico, ma dinamico; e però, solo nella composizione e nella qualità del prodotto: un lago aperto, non uno stagno). Questa deviazione, dalla crescita all'equilibrio, comporterebbe una formidabile redistribuzione delle risorse tra i ricchi e i poveri del mondo, non essendo concepibile che la crescita possa essere stoppata per entrambi all'attuale livello di disuguaglianza, comporterebbe inoltre, all'interno di ogni paese, la fissazione di qualche limite del reddito, minimo e massimo. E, comunque, la sterilizzazione delle possibilità di accumulazione della moneta.

Un eccentrico bavarese, Silvio Gesell, immaginò nel secolo scorso un sistema ingegnoso, il denaro bollato, che consisteva nel gravare il possesso di moneta di una tassa progressiva nel tempo, conservandola come mezzo di scambio, ma rendendola inefficace come strumento di accumulazione. La proposta, che in pratica significherebbe la fine dell'economia finanziaria, suscitò scandalo, ma anche attenzione, in particolare da parte di Keynes: un'altra ragione dei benpensanti per detestarlo!

Infine, la deviazione da Charing Cross richiederebbe un rovesciamento delle priorità tra beni collettivi e beni privati. Oggi il finanziamento dei beni collettivi è ottenuto prelevandolo dai redditi primari: insomma, direbbe elegantemente Beriusconi, mettendo le mani in tasca ai cittadini, i quali non gradiscono affatto. Il che spiega la « resistenza fiscale e la netta prevalenza nella soddisfazione dei desideri privati rispetto ai bisogni pubblici. Un "mercato dei beni pubblici" forniti da imprese sociali direttamente a cooperative di cittadini autogovernate darebbe a questi ultimi il controllo delle scelte e della spesa relativa eliminando i costi della burocrazia e l'iniquità dell'evasione fiscale.

Siamo certo, non ai margini, ma nel pieno di un'utopia concreta. Siamo dentro a un'economia solidale, come la definiscono i sostenitori del Mauss. Al punto che c'è da chiedersi se quella così sommariamente tracciata sia ancora economia nel senso in cui noi la intendiamo, e cioè di una produzione e distribuzione delle risorse fondata sugli interessi degli individui e non su quelli della società: i quali, con buona pace del pensiero unico, non coincidono affatto "automaticamente" con i primi attraverso il meccanismo del libero mercato. Quel che è certo, è che un radicale riorientamento della specie umana dall'attuale corsa letteralmente insensata verso una condizione di equilibrio, dalla competizione alla cooperazione, non richiede soltanto una riforma dell'economia, ma una rivoluzione culturale, o addirittura antropologica. Uno sviluppo della coscienza, anziché una crescita della potenza. Dell'essere, rispetto all'avere. La fine del paradigma economico; e cioè dell'autonomizzazione dell'economia e il suo "rientro" (reembeddment) nell'ambito di una società che abbia riacquistato la consapevolezza dei limiti naturali e dei bisogni di solidarietà sociale. Prima di domandarsi se una tale rivoluzione è possibile bisognerebbe chiedersi se l'attuale tendenza alla crescita insensata è sostenibile. In altri termini, se sia possibile un suo indefinito percorso in un futuro privo di storia. Se la risposta è negativa, se il capitalismo, come altre precedenti grandi formazioni economiche e sociali, ha i secoli contati, bisogna pure immaginare un percorso nuovo, per quanto improbabile. Di rivoluzioni culturali che hanno mutato il suo senso, la storia ne ha conosciute: il cristianesimo, l'illuminismo… La fonte da cui sgorgano non è, come Marx pensava, la lotta di classe, ma la fertilità del cervello, l'arma segreta della specie umana: insomma, la produzione intellettuale. Il senso di una rivoluzione culturale che deviasse lo sviluppo umano dall'avere all'essere comporterebbe, secondo la famosa sentenza marxiana, che gli intellettuali (Marx diceva i filosofi) smettessero di spiegare il mondo e s'impegnassero a cambiarlo. Che gli economisti progettassero un'economia orientata all'equilibrio. Che i sociologi disegnassero le sue istituzioni, i filosofi, socraticamente, le forme della buona vita, gli psicanalisti, realizzando un auspicio di Freud, i modi di guarire una società malata. Purtroppo, l'intelligenza critica del divenire sociale è spesa oggi, per lo più, o nella apologia, o nella contestazione dell'esistente: due forme sterili. Per non parlare poi di quella letteratura pseudo filosofica che si è impadronita del discorso sul tardo capitalismo per sommergerlo in elucubrazioni enigmatiche ed autoerotiche che, nello sforzo di mimare Heidegger, finiscono per parodiare Totò.