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La classe operaia ha ancora un suo paradiso (nelle nostre teste)

di Pierluigi Battista - 17/07/2006

E ravamo ancora tutti marxisti, e non ce ne eravamo nemmeno accorti. Assegnavamo mentalmente alla classe operaia uno statuto speciale nel divenire della storia, un ruolo morale unico e incomparabile, una tipologia storica del tutto peculiare, e invece volevamo immaginarci a tutti costi post-qualcosa, postmoderni più che moderni, postideologici anziché ideologici. No, la «classe», la mitologia, il lessico, gli automatismi culturali della «classe» permangono in qualche segreta nicchia del nostro pensare sociale e culturale. Ce ne accorgiamo solo quando entrano in scena altre «classi», i tassisti, gli avvocati, i commercianti, i piccoli imprenditori, i medici e così via, che però non essendo «classi» come la classe operaia non sappiamo più come definirle. Ceti? Corpi? Gruppi sociali? Lobbies ? Ogni definizione è buona. Purché contenga una sfumatura negativa e attiri su di sé un robusto venticello di deplorazione sociale. Certo, nessuno qualificherebbe la classe operaia di «rude razza pagana», come fece Mario Tronti una quarantina d'anni fa. Nessun gruppo dissidente ed estremista si chiamerebbe più «Potere Operaio», nelle strade non si dice più che «la classe operaia deve dirigere tutto» e nessun film manda con amara ironia la classe operaia in Paradiso. Ma resta la percezione che mai un corteo operaio potrebbe essere sospettato di ottuso corporativismo, di bieca difesa di interessi particolari, di meschina e occhiuta tutela di minoranze sorde al bene di tutti. Se un corteo operaio fa impazzire il traffico, non diventerà mai oggetto di veemente riprovazione sociale come il blocco del traffico provocato da un manipolo di tassisti esacerbati. Il blocco dei binari da parte dei ferrovieri in lotta è sgradevole e fonte di risentiti borbottii sociali, ma una pattuglia di celerini che sgomberasse le stazioni con la forza verrebbe considerata brutale e ingiustificabile. I conducenti di taxi che paralizzano il traffico sembrano invece meritevoli della più severa sanzione repressiva. Lo sciopero operaio contiene in sé qualcosa di un fascino antico e trattiene i riflessi di una storia nobile e grandiosa come quella della lotta di classe. Lo sciopero dei ceti, dei corpi, delle lobbies è, senza possibilità di redenzione, serrata, jacquerie dei ceti medi, disordine. Reazione.
La classe operaia è stata immaginata come titolare di una funzione salvifica, la classe universale che liberando se stessa avrebbe liberato tutta la società. Può sbagliare, ma sempre nel nome di un torto subìto e di una ragione che è sempre dalla sua. La sociologia può decretarne il ridimensionamento numerico, ma non il valore simbolico. Il disagio del ceto medio è invece per sempre e per definizione ribellismo corporativo, visceralità dimentica dell'interesse, difesa gretta di interessi inconfessabili. Marx aveva pronosticato l'estinzione di tutto ciò che si collocava nel mezzo del conflitto irriducibile tra capitale e proletariato. Una previsione clamorosamente smentita dai fatti, la piccola borghesia si è storicamente vendicata, le società mature sono diventate il terreno fertile di un immenso ceto medio. Ma sul piano simbolico e dei valori, il ceto medio resta pur sempre condannato a un ruolo negativo. Se se ne sta ordinato e nei ranghi, il piccolo borghese è il filisteo senza luce, il portabandiera dell'ordine, del conformismo, della piccineria culturale destinato a morire di vergogna, seppellito dal sarcasmo di tonnellate di letteratura. Se si ribella diventa feroce, sordidamente attaccato alla sua «roba», incivile, pericoloso, persino eversivo. Ragioniamo ancora tutti così, in modo trasversale, in modo quasi inavvertito. Non si sa perché, ma deve essere una questione di classe.