«OGNUNO DI NOI FAREBBE QUELLA SCELTA SE VIVESSE DA 50 ANNI IN UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO»
Eterno Andreotti. È sceso il silenzio, ieri, nell’aula di Palazzo Madama quando il senatore a vita è intervenuto nel dibattito sulla guerra in Libano. «Credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista».
Non è una novità, naturalmente, e non è la prima volta che il divo Giulio espone limpido una posizione che ha ispirato quasi mezzo secolo di politica estera «realista» all’italiana. Eppure, i colleghi l’ascoltavano muti quasi come a una lezione di diplomazia democristiana. La linea italiana di politica estera, ha detto Andreotti, «prescinde dal carattere strutturale del governo, perché è nata nel ‘70 a Venezia, quando per la prima volta si parlò della necessità di dialogo tra israeliani e palestinesi». E pazienza se certe posizioni espressamente filoarabe non esistono più neanche nell’odierno centrosinistra (quello riformista, ovviamente), Andreotti ha ricordato che nel ‘48 l’Onu ha creato lo stato di Israele e lo stato palestinese, ma «lo stato di Israele esiste, lo stato arabo no». Chiosa finale, non lontanissima da certa odierna terminologia diplomatica ulivista: «Nel nostro vocabolario abbiamo la parola equidistanza ma non esiste la parola equivicinanza». Di qui l’auspicio a «riattivare, attraverso il nostro stimolo, un intervento dell’Unione europea perché questa è una situazione che moralmente dovrebbe impegnarci di più».
Non sono molte, oggi, le posizioni di leader politici sensibili alla causa palestinese, se non proprio filoarabi o apertamente critici nei confronti di Israele. Certo, ieri il vecchio Pino Rauti ripeteva al telefono che «ufficialmente una critica a Israele ormai è scomparsa anche dentro An, anche se ufficiosamente una vocazione anti-israeliana resiste alla base, o tra i giovani, anche quelli di Azione giovani»; e assicurava che lui resta «della stessa idea di trent’anni fa: finché Israele viola il diritto internazionale, non ci sarà mai pace duratura». Ovviamente la critica a Israele del padre della destra radicale italiana non ha nulla a che fare con le riflessioni in Senato di Andreotti. Ciononostante c’è chi se n’è indignato, come il senatore forzista Alfredo Biondi, «l’affermazione è stata molto grave, non era proprio in giornata». Eppure in quell’affermazione risuonava come un riverbero di antiche diplomazie, aperte o celate, con più di un episodio di «legami paralleli» con governi e organizzazioni politiche arabe, presentabili e no. Con il Libano, anche.
L’82 è un caso esemplare. È l’anno in cui l’Italia vince i mondiali spagnoli, Al Bano e Romina Power arrivano secondi a Sanremo con Felicità, l’esercito argentino occupa le Falklands. A giugno l’esercito israeliano invade il Libano meridionale, a settembre spalleggia le milizie maronite responsabili del massacro di Sabra e Chatila. L’Italia invia i bersaglieri - specialisti in peacekeeping - nella Beirut in fiamme, città nella totale instabilità, flagellata dalle autobombe Hezbollah che colpiscono indistintamente americani, inglesi, francesi. Gli italiani però no, sono tra i pochi a esser risparmiati: si seppe poi che molto era dovuto al lavorìo di un uomo dei servizi, il colonnello Giovannone. Proprio il divo Giulio, un giorno, lo presentò come «un pacioccone molto esperto e capace»; un uomo, affermò, in grado di tessere qualunque tela in quella Beirut. Magari, ma questo non lo disse, facendo qualche passetto oltre l’andreottiana «equivicinanza».
Oggi quella stagione non c’è più; nonostante l’equivicinanza abbia un che di ciclico, come le terribili guerre mediorientali.
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