Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Vorrei chiederle scusa

Vorrei chiederle scusa

di Francesco Lamendola - 24/11/2012


 


 

Nemmeno Dio, afferma audacemente San Tommaso, potrebbe fare sì che una cosa, una volta accaduta, non sia stata; nemmeno lui potrebbe modificare il passato.

Eppure ci sono delle volte in cui non si può fare a meno di rammaricarsi per qualcosa che si è fatto o che si è detto, e ciò accade anche a chi non è particolarmente portato verso simili ripensamenti; accade soprattutto quando ci si rende conto di aver causato del male a qualcuno, ma senza averne avuto affatto l’intenzione.

Quando si è agito in un certo modo in maniera lucida e deliberata, ci si può pentire, si può provare rimorso, senso di colpa, angoscia, desiderio di rimediare, se possibile, al mal fatto, e, se non lo è, di espiare in qualche modo la propria colpa; ma quando tale intenzione non vi è stata, quando non vi è stata nemmeno la consapevolezza di aver fatto del male, non si può parlare di un vero e proprio senso di colpa e neppure di un rimorso, nondimeno un sottile disagio si insinua nell’anima e sembra non volersene più andare.

Ci si rimprovera e ci si chiede: perché non si è riflettuto meglio, perché non si è stati più attenti; perché ci è lasciati scappare quel gesto, quella frase, invece di pensare alle loro possibili conseguenze? E si vorrebbe poter tornare indietro, poter cancellare quel momento della propria vita; ma, ovviamente, ciò non è possibile, e allora non resta che fantasticare, che immaginare le parole o le azioni che si vorrebbero dire e compiere per riparare, per medicare quella ferita, sia pure inferta inconsapevolmente.

È una delicata questione etica, e perciò filosofica, quella di stabilire fino a dove si spinge l’eco della nostra responsabilità per quel che facciamo o che diciamo, allorché non pensiamo affatto di poter causare un dolore o un trauma spirituale al nostro prossimo; è una questione delicata e, forse, insolubile, perché la risonanza di una parola o di un gesto non può mai essere stabilita oggettivamente, ma la si può solo registrare a posteriori, soggettivamente.

Per esempio: una parola o un gesto oggettivamente gravi, possono scivolare via senza fare troppo danno al prossimo, se le circostanze complessive valgono a smorzarne l’impatto o se colui che ne è il destinatario, o anche solo un semplice testimone, possiede in se stesso le risorse per reagire in maniera efficace e per superare positivamente la prova. È come quando si dà una involontaria gomitata, per la strada, a una persona anziana o malata, che magari cade a terra e patisce grosse conseguenze: ma noi non volevamo minimamente farle del male, stavamo solo correndo per non perdere l’autobus.

Se, poi, è stata proprio quella persona a tagliarci la strada; se è stata proprio lei a inciampare nei nostri passi, la nostra responsabilità oggettiva diventa ancora minore, fino quasi a scomparire del tutto: ma, appunto, “quasi”. Perché un disagio inspiegabile, o meglio razionalmente inspiegabile, ormai è penetrato in noi e non se ne vuole andare; nessun ragionamento serve a scacciarlo: continuiamo a dirci che avremmo dovuto fare comunque più attenzione, che avremmo dovuto fare caso a quella persona e prevederne i possibili movimenti. Infatti non avevamo alcuna intenzione di farle del male; però gliene abbiamo fatto, questo è innegabile.

Noi abbiamo una responsabilità costante, vuoi oggettiva, vuoi soggettiva: tutto quel che diciamo e che facciamo, e persino quel che sentiamo e che pensiamo, può avere una ricaduta sull’altro; perfino il non dire o il non fare assolutamente niente può avere una ricaduta - per esempio, se l’altro si aspetta un gesto o una parola da parte nostra, se ci spera, se ne ha bisogno. Non esistono gesti o parole neutri, non esistono vite neutre: il nostro vivere è sempre significativo per qualcuno; e non solo per i nostri cari, per i nostri colleghi, per i nostri compagni occasionali di strada, ma perfino per quei perfetti estranei che il caso o il destino - ciascuno la pensi come preferisce - pone sulla nostra strada e che ci fa incontrare o anche soltanto, magari, sfiorare. Una parola, un gesto possono avere conseguenze significative, sia in bene che in male, non solo se diretti a qualcuno, ma anche se recepiti da un terzo che non c’entrava affatto, che era lì per una mera coincidenza e che non conosciamo, verso il quale non avremmo mai immaginato di poter esercitare un influsso, né buono né cattivo.

I moralisti cristiani di un tempo (moralisti nel senso di “studiosi di morale” e non in quello di cultori ipocriti della bontà) dicevano, proprio per questa ragione, che il non fare del bene è già un fare il male; che l’anima dovrebbe essere sempre pronta e preparata come per affrontare la prova suprema, come se dovesse presentarsi a Dio da un momento all’altro; che, non potendo prevedere ogni circostanza della vita, magari la più impensabile, la cosa migliore è quella di considerare ogni istante come se fosse il più importante, ogni pensiero e ogni azione come se fossero gli ultimi, dopo di che dovremo rendere conto a Dio di ogni cosa.

Certo era una strategia severa, ma efficace.

Di fatto, oggi si è scivolati nell’eccesso opposto: si vive alla giornata, si parla e si agisce senza riflessione, senza un profondo senso di responsabilità; si gettano parole e gesti con disinvoltura, con leggerezza, anche quando il loro peso specifico è notevole; non ci si cura di chi può vedere o udire, quel che conta è sfogarsi, soddisfare un capriccio, levarsi una soddisfazione; non si fa un bilancio della propria vita interiore, non si interroga la propria coscienza, si riparte sempre da zero, come se si dimenticasse quel che si è appena detto o fatto, come se a dire o fare quelle cose fosse stato un altro, un altro che porta il nostro stesso nome e che ha la nostra stessa figura, ma del quale non siamo per nulla responsabili, anzi forse non siamo neppure parenti: lui è lui e noi siamo noi; e non ci corre l’obbligo di garantire per lui o di rispondere per lui. «Cogli l’attimo» viene interpretato come una totale negazione della responsabilità individuale, perché ieri era ieri e quel che è stato è stato, bisogna vivere badando solamente all’oggi.

 

* * *

Era una triste giornata di novembre, col cielo coperto da nuvole dense e una luce grigia che posava su ogni cosa un velo di invincibile malinconia. Era piovuto, e le pozzanghere riflettevano quel cielo basso, quelle nuvole pesanti, quegli alberi mezzi spogli.

Fuori dal cimitero una venditrice di fiori aveva posato le sue cassette di legno con i mazzi di crisantemi e le piantine in vaso di sempreverdi: era una signora di mezza età, dall’aria affaticata, con uno scialle scuro a proteggerla dall’umidità autunnale, il volto segnato dalla stanchezza e dalle pene di una vita certo non facile.

Mi fermai a comperare una piantina da porre sulla tomba di una persona cara che da poco se n’era andata; avevo il cuore gonfio di dolore e questa, suppongo, era la mia unica scusante. La donna stava finendo una conversazione con un’altra persona; l’argomento, come dedussi dalle loro ultime parole, era la vita dopo la morte. Quando ebbi pagato e stavo per allontanarmi, la fioraia mi chiese: «E lei, signore, che cosa pensa: c’è qualcosa, dopo la morte?»; e nei suoi occhi, che mi scrutavano intensamente, vidi una pena profonda, insieme ad un segreto anelito di speranza.

Capivo che la donna, per chi sa quale ragione, sembrava attribuire uno speciale valore alla mia risposta; lo capivo, ma avevo il cuore gonfio e, per giunta, stavo attraversando una profonda crisi interiore; perciò le dissi con tono reciso, come chi non ha alcun dubbio: «No, dopo la morte non c’è nulla». Lei mi guardò, come se avesse visto confermati i suoi timori, e ripeté, quasi a se stessa: «Nulla, eh? Quando si è morti, tutto finisce». «Nulla», confermai; e aggiunsi, credo, o forse lo pensai soltanto: «Che ci sia qualcosa, è soltanto una favola bella».

Poi me ne andai e la lasciai lì, con il suo scialle di lana avvolto sulle spalle, i capelli umidi di pioggia, e i suoi piccoli vasi ed i mazzi di crisantemi che rappresentavano, forse, la sua unica fonte di sostentamento. Non aveva una baracca fissa, era una fioraia ambulante; era lì per la ricorrenza dei morti: non l’avevo mai vista prima e non la rividi più.

Credevo di aver dimenticato quell’episodio, di per sé quasi insignificante; non ebbi occasione di ripensarci per molto tempo, per molti anni.

Poi, a partire da un certo giorno, non saprei dire esattamente quando, né perché, mi è tornato in mente; fra mille altri episodi di vita quotidiana, tutti apparentemente così piccoli da non meritare di essere trattenuti dalla coscienza, proprio quello era tornato alla ribalta, né voleva più andarsene. E non se n’è più andato, nemmeno adesso che son passati tanti, tanti anni.

Chissà che fine ha fatto quella fioraia; chissà se é ancora viva. Doveva essere sulla cinquantina, mentre io ero giovane, allora; forse ha già varcato quella soglia, oltre la quale si trova la risposta alla sua domanda. Io, però, mi vergogno. Mi vergogno di averle detto quelle parole; vorrei non averle dette: non avevo il diritto di dirle. Nessuno di noi ha il diritto di strappare a un altro essere umano la speranza, specialmente se non è sicuro di come stiano in realtà le cose. E nessuno può dirsi sicuro, onestamente, di sapere che dopo la morte non c’è niente.

Anche quella donna, forse, rimpiangeva una persona cara; anche lei, forse, si domandava se avrebbe più rivisto un genitore, un marito, un figlio. Forse aveva intuito in me uno studioso o, comunque, una persona riflessiva; per questi mi aveva interrogato e per questo mi aveva scrutato con tanta intensità, mentre formulavo la risposta. Ed io avevo dato il mio colpo di martello sulla tomba della sua speranza, avevo contribuito a distruggerle quella speranza che la teneva ancora attaccata alla vita, chissà con quanta fatica, chissà con quanta pena.

Non c’è quasi giorno, da molto tempo ormai, che quella conversazione non mi torni alla memoria, che non me ne faccia un amaro rimprovero. Il fatto che parlassi con convinzione, che credessi alle mie parole, non vale ad attenuare il mio rimorso: maledico cento volte, mille volte, l’arroganza intellettuale che ci spinge a diventare disumani, a farci giudici d’una sentenza che non avremmo il diritto di emettere, sprofondati nell’ignoranza come siamo.

Nessuno dovrebbe permettersi di strappare la pianticella della speranza altrui; nessuno dovrebbe assumersi una responsabilità così grande. È come dire a un naufrago che si rassegni ad annegare, che non si provi nemmeno a raggiungere la terraferma; che ogni suo sforzo sarà comunque inutile, che deve solo prepararsi a morire. Che diritto abbiamo di farlo? Sappiamo così poco: di noi stessi, degli altri, del mondo, della vita, di Dio. Siamo così piccoli, e vogliamo essere grandi; siamo così ignoranti, e vogliamo recitare la parte dei sapienti.

Un’altra attenuante, se proprio me la si vuol concedere, è che ero piuttosto giovane: e i giovani parlano impulsivamente, pensano impulsivamente, agiscono impulsivamente. È nella loro natura. Nemmeno questa attenuante, però, serve a lenire il mio rammarico; sento di aver parlato male, in quel lontano mattino di novembre saturo di pioggia; di aver agito in maniera irresponsabile, poco riguardosa verso il prossimo.

Del resto, se volessimo andare in cerca di scusanti per i nostri errori, potremmo trovarne chissà quante, un vero prontuario: c’è una intera scienza, la psicologia, che potrebbe offrircene a sufficienza per spiegare qualunque sbaglio madornale, per attenuare anche le responsabilità più pesanti e disdicevoli. Tutta la cultura moderna è pronta a volare in nostro soccorso per scusare, attenuare, giustificare: in nome di questo o quel principio, di scusanti ce n’è una batteria in attesa, basta scegliere quella che fa più al caso nostro.

Ma noi sappiamo che la coscienza non si lascia zittire tanto facilmente, non si lascia addomesticare e abbindolare con tanta disinvoltura; la coscienza è una creatura diffidente ed esigentissima, che sta sempre sul chi vive, che fiuta sempre qualche imbroglio, magari a suo favore - ma sa bene, con istinto infallibile, che gli imbrogli a suo favore sono poi quelli che più amaramente le tocca di rimpiangere, sono proprio quelli che aggravano il suo disagio esistenziale.

E allora non resta che fare un sincero “mea culpa”, non resta che domandare scusa: non importa se quella persona non è qui presente, non importa se non la rivedremo più in questo mondo di apparenze. Forse la rivedremo, invece, dopo tutto: non si sa come, non si sa quando. Forse lei ci sta già ascoltando; forse ci ha già letto nel cuore e perdonati. Ma non potrebbe perdonarci, se noi non le chiedessimo scusa. Perciò dobbiamo chiedere scusa, anche se quella persona non è qui, anche se forse ha già varcato la porta dell’aldilà.

Chi lo sa, forse sarà proprio lei ad aprirci quella porta, quando sarà la nostra ora. E ci sorriderà, lieta di poterci porgere la risposta che allora attendeva da noi, e che noi non abbiamo saputo darle.