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Di come le colonne d’Ercole del politically correct limitano il pensiero degli intellettuali

di Marco Tarchi - 27/11/2012

Fonte: meridianionline




La figura dell’intellettuale e il suo rapporto con la politica si sono modificati nel corso dell’ultimo secolo. Ora i
nuovi media, la struttura del sistema internazionale sempre più fluido e un sistema economico asfissiante hanno messo ai margini il libero pensiero e hanno spinto gli intellettuali a corteggiare il potere per un posto sotto i riflettori. Ne parliamo con il politologo Marco Tarchi.

Qual è secondo lei il ruolo principale che
un intellettuale deve ricoprire, in relazione
al potere politico e di governo, nelle
democrazie liberali allo stato attuale?

Le dirò cosa che a mio avviso non dovrebbe
fare: appiattirsi nel ruolo di consigliere del
Principe, adeguarsi alle convenienze, rinunciare
ad esercitare senso critico, confondere
il proprio ruolo con quello dei politici di
professione. Ed è invece quel che di regola
accade. Gli “uomini di idee” dovrebbero far
sentire la loro voce senza condizionamenti
e sforzarsi di apportare un contributo al dibattito
sulle soluzioni ai tanti problemi oggi
in atto, in quelle condizioni di pluralismo
che una democrazia dovrebbe garantire.
Il ruolo dell’intellettuale classico viene a
volte fatto coincidere con una struttura
della società e della cultura particolarmente
gerarchica e olistica, nel migliore
dei casi aristocratica. In una società individualista,
il ruolo dell’intellettuale rischia
di essere confuso tra le tante voci del
mondo della comunicazione. Che rapporto
vede tra il ruolo dell’intellettuale e il
rischio del dogmatismo culturale?

Un rapporto molto stretto, non di rado
soffocante. Il mondo intellettuale è oggi
dominato da rigidi criteri di legittimazione
e discriminazione. Le voci che si collocano
fuori dal coro (un coro che può, in una
limitata misura, essere dissonante dagli
spartiti che regolano il concerto propriamente
politico, ma non deve emettere note
stridule) sono messe al bando dai circuiti
che contano, coincidenti con i canali della
comunicazione di massa. E se un tempo un
libro o un manifesto poteva creare scalpore
e controbilanciare i silenzi della stampa e
persino della televisione, nell’epoca attuale
non apparire su uno schermo e non poter
contare su una cospicua audience equivale
a non esistere. Lo aveva capito e denunciato
Solzenycin già trenta e più anni orsono:
se ti tagliano i fili del microfono, è come se
ti avessero tappato la bocca. È stato buon
profeta, e ha sperimentato personalmente
quel destino. Poi è venuto il turno degli altri
“malpensanti”. Mentre allignano in tutte le
sedi massmediali i parlatori, i tuttologi, i
moralisti che seguono sempre la corrente.
Quale spazio può ritagliarsi un intellettuale
che si occupa di politica nel mondo
dei nuovi media, sempre più istantanei e
meno riflessivi?

Uno spazio esiguo, un piccolo interstizio in
cui ha perlomeno il gusto di dire o scrivere
quel che vuole, sapendo però di offrire una
versione aggiornata della metafora del naufrago
che lancia il suo messaggio in bottiglia
nell’oceano: ci sono scarsissime possibilità
che qualcuno lo raccolga. Internet rilancia
soprattutto le voci e le opinioni dei già noti,
di coloro che si sono precostituiti un ampio
pubblico altrove. Le mode che si connettono
alla popolarità spingono ad andare a
cercare i “famosi” anche in rete. Un’alternativa
è lanciare uno scandalo, per far colpo.
Ma così ci si trasforma in personaggi dello
spettacolo, e della riflessione vanno perse
anche le tracce.
Il ruolo dell’intellettuale è passato dall’indicare
possibili vie ad interpretare clinicamente
la realtà. Questo ha però lasciato
la politica orfana di chi potesse aiutarla
a immaginare futuri percorribili. Questo
pensa possa essere legato ad una situazione
strutturale del sistema internazionale?
In altre parole, la rinuncia dell’intellettuale
ad indicare una via è anche la rinuncia della politica a plasmare e guidare
una collettività davanti a sfide troppo
complesse?

Se gli intellettuali interpretassero “clinicamente”
la realtà, sarebbe già un dato positivo.
Il guaio è che molti di essi si limitano
a commentarla faziosamente, secondo la
logica del wishful thinking. Ci sono problemi
che promettono di produrre conseguenze
di estrema gravità – il primo che mi viene in
mente è l’immigrazione, ma se ne potrebbero
enumerare vari altri – ma sui quali un
libero confronto di opinioni è impossibile,
per non dire impensabile: o ci si allinea ai
parametri del “retto pensiero” dominante, o
è meglio tacere per evitare di essere messi
al bando. La situazione del sistema internazionale
è certamente una variabile significativa
per comprendere i motivi di questa
censura, anche se non so se si possa considerarla
quella principale. A dettare i criteri di
ammissibilità di un’opinione è lo spirito del
tempo dell’epoca in cui viviamo, e su di esso
incidono molteplici fattori: il peso dell’egemonia
statunitense, senza dubbio, ma
anche gli effetti di medio e di lungo periodo
dei grandi traumi del XX secolo. A scoraggiare
gli intellettuali dall’indicare alla politica vie
diverse da quella su cui il nostro tempo si è
incamminato è l’anatema scagliato contro
tutte le ideologie alternative al liberalismo
dai maestri pensatori incoronati dai media,
che non perdono occasione per descriverci
gli scenari apocalittici ai quali andremmo
incontro se osassimo anche solo pensare un
mondo migliore di quello in cui viviamo. Un
uso sistematico del ricatto della memoria
pretende di vincolarci all’eternità dello stato
di cose presente. In queste condizioni, il destino
dei “cani sciolti” è di restarsene in qualche
nicchia poco frequentata, al riparo dai
luoghi che contano nel dibattito pubblico, a
meno di non correre il rischio di imbattersi
negli accalappiacani…
La crisi economica ha rimescolato le carte.
Crisi è anche e soprattutto un momento
di valutazione e scelta. Quale spazio
pensa ci sia nel futuro prossimo per gli
intellettuali, quali consiglieri indipendenti
della politica?

Come avrà capito, sono tutt’altro che ottimista.
Il sistema di potere attuale ha imparato
e messo in pratica a proprio profitto la
lezione gramsciana: sa che per stabilizzare
l’egemonia politica deve garantirsi il consenso
della società civile, e per questo ne
satura i canali comunicativi, esercitando un
attento controllo su tutte le fonti di possibile
dissidenza. Le parrà una visione estremizzata,
che acutizza gli schemi analitici della
Scuola di Francoforte (la scuola filosofica e
sociologica neomarxista rappresentata nel
mondo da Horkheimer, Adorno, Marcuse
e Habermas, ndr), ma è solo una fotografia
della realtà che stiamo vivendo. La sofisticazione
tecnologica delle forme comunicative
consente ormai a chi dispone delle maggiori
risorse di far rimbalzare ovunque, in tempo
reale, i messaggi che intende diffondere.
In occidente, il samizdat, la circolazione di
mano in mano di testi e opinioni “proibiti”
che a suo tempo mise in crisi le basi del
sistema sovietico, non ha efficacia. Ovviamente,
agli intellettuali è consentito esprimersi,
e anche di proporsi come consiglieri
dei politici, purché però il loro pensiero non
varchi le colonne d’Ercole del politically
correct. Esibire il sostegno di qualche nome
noto dell’accademia o del mondo letterario
e artistico fa sempre piacere; vedersi criticare
o porre quesiti scomodi, no. Non mi
pare che la crisi economica abbia sinora
aperto spiragli significativi in questo panorama
blindato. Anche se qualche guastafeste
comincia a farsi sentire, attirandosi subito
l’attenzione malevola dei guardiani dello
status quo e le cannonate della loro artiglieria
pesante.