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Pamuk Elif Shafak, incinta, rischia la prigione in Turchia

di redazione - 20/07/2006


Elif Shafak, 34 anni, è un’apprezzata accademica e una brillante scrittrice turca. Bella, appassionata, sensibile, anticonformista. È sposata con un giornalista, dal quale è spesso costretta a vivere lontana. Lei sta negli Stati Uniti, dove insegna storia mediorientale all’Università di Tucson, in Arizona; lui lavora a Istanbul, come caporedattore del quotidiano economico Referens . Elif, incinta di sei mesi, è una donna coraggiosa e ottimista, ma ora è assai turbata. Non tanto dalla prospettiva di dover subire una condanna a tre anni di prigione per aver «offeso il buon nome della Turchia», minaccia giudiziaria che accomuna ormai decine di intellettuali, a cominciare dal celebre Orhan Pamuk, ma dalla possibilità che il processo avviato sia lungo, estenuante, doloroso, e soprattutto assediato dalle minacce degli estremisti. Anche nel caso il tribunale decida di soprassedere e evitare la sentenza. Che cosa ha fatto di tanto grave Elif Shafak? Ha scritto un romanzo, Il bastardo di Istanbul , che dalla scorsa primavera è ai primi posti delle classifiche. È la storia struggente di famiglie parallele. Da una parte i nipoti di sopravvissuti al genocidio degli armeni, che gli ottomani compirono nel 1915; dall’altra il lavaggio del cervello, fra le mura domestiche, subito da chi in Turchia nega quel massacro, considerando criminale anche un semplice dubbio. Nell’inarrestabile infarto emotivo, si fa strada il desiderio di conoscere la verità, qualunque essa sia.

Amica di Pamuk, Elif era in prima fila durante i dibattiti organizzati per manifestare la volontà di interrogarsi sul proprio passato, e per difendere lo scrittore sotto processo. Che ora le restituisce il sostegno, guidando il gruppo di intellettuali che chiedono di abolire una legge iniqua, la numero 301: iniqua per l’interpretazione restrittiva imposta dai fanatici. I quali, con il pretesto di difendere «il buon nome della Turchia», la utilizzano come strumento di repressione generalizzata. La campagna è guidata da un minuscolo drappello di avvocati ultra-nazionalisti, legati ai lupi grigi, sì proprio a quelli dalle cui file uscì Mehmet Alì Agca, l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II. Uno dei legali, Kemal Kerincsiz, che pilota la sedicente Unione dei giuristi, è il capofila di questa guerra oscurantista che ha lo scopo di intimidire scrittori, editori, giornalisti, e tutti i difensori della libertà di pensiero.

Pamuk rischiava la galera per una coraggiosa dichiarazione politica. «Io invece la rischio per un romanzo, una novella, pura fiction, nulla di autobiografico. Io sono turca al cento per cento e sono fiera di esserlo», dice Elif al Corriere . «Nel reprimere le libertà artistiche noto un inquietante salto di qualità».

Il problema è assai grave per almeno quattro ragioni: l’intransigenza e la repressione sono rivendicate da una minoranza di estremisti, che Elif descrive come «marginali», ma con un’aggressività assai pericolosa. L’anno scorso si limitarono a lanciare uova e ortaggi contro chi si riuniva per interrogarsi sul genocidio degli armeni, però potrebbero compiere atti ben peggiori. È già accaduto; perché i nazionalisti puntano a boicottare gli sforzi della Turchia nel suo faticoso viaggio verso l'integrazione europea; perché la società civile è assai avanzata, e mal sopporta la nociva invadenza di un gruppo di fanatici. Il libro della Shafak, elogiato dalla stampa e dagli altri mass media del Paese, circola liberamente e ha venduto in pochi mesi cinquantamila copie.

Ma l’ultima e più preoccupante ragione del disappunto è il silenzio del governo islamico moderato di Recep Tayyip Erdogan.

Il premier sa molto bene che l’articolo 301 è uno degli ostacoli più seri lungo il cammino europeo del Paese. Ma non dice, e soprattutto non fa nulla. Le ambiguità dimostrate quando si trattava di riconoscere che esiste un «terrorismo islamico», di cui Istanbul ha pagato recentemente un pesante prezzo di sangue, si riproducono anche con la minoranza ultra-nazionalista, che un tempo è servita (e serve ancora) nelle regioni del Sud-est per reprimere l’irredentismo curdo. Elif non ha dubbi: «È proprio questo silenzio del governo a preoccuparmi. Non riflette la volontà di un Paese che subisce attacchi alla libertà proprio perché sta cambiando. Anzi, è cambiato».