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Kerry, il nuovo falco

di Michele Paris - 06/03/2013



Il neo-segretario di Stato americano, John Kerry, sta per ultimare in questi giorni il suo primo viaggio all’estero da successore di Hillary Clinton alla guida della diplomazia a stelle e strisce con visite in paesi strategicamente fondamentali per gli interessi del suo paese in Africa settentrionale e in Medio Oriente. Dopo le soste in Europa, le più importanti tappe della trasferta dell’ex senatore del Massachusetts sono state in Egitto e in Arabia Saudita, durante le quali i toni adottati nelle sue apparizioni pubbliche non hanno lasciato intravedere alcun sostanziale cambiamento nella politica estera di Washington nel secondo mandato di Obama alla Casa Bianca.
Anche se appare del tutto scontato che gli interessi strategici dell’imperialismo statunitense continueranno a caratterizzare le scelte del Dipartimento di Stato, in molti, soprattutto tra i sostenitori “liberal” del presidente, si aspettavano da Kerry almeno un ammorbidimento dei toni e, ad esempio, una maggiore predisposizione da parte del nuovo segretario a ricercare una soluzione negoziata e pacifica per le crisi di Siria e Iran.
In merito al conflitto che mette di fronte le forze del regime di Bashar al-Assad ai “ribelli” sunniti armati dall’Occidente e dalle dittature del Golfo Persico, alla vigilia del vertice dei cosiddetti “Amici della Siria” di Roma, John Kerry settimana scorsa aveva invece annunciato che gli Stati Uniti avrebbero aumentato il loro impegno a favore delle opposizioni, facendo perciò intravedere un nuovo intensificarsi del sanguinoso scontro settario in atto. Da Kerry, dunque, non è giunto finora alcun segnale che l’amministrazione Obama sia disposta ad impegnarsi nell’apertura di un dialogo tra le due parti per gettare le basi di una soluzione negoziata della crisi.
La linea dura di Washington anche sul nucleare iraniano è stata poi sostanzialmente ribadita per bocca dello stesso segretario di Stato nella giornata di lunedì a Riyadh, in Arabia Saudita. Infatti, nella conferenza stampa seguita al loro incontro, Kerry e il suo omologo saudita, Saud al-Faisal, hanno fatto ampio ricorso alla consueta retorica intimidatoria utilizzata dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel discutere del legittimo programma energetico di Teheran.
Le dichiarazioni di Kerry, in particolare, hanno talvolta ricalcato parola per parola quelle pronunciate nel recente passato dalla Clinton, da Obama e da altri esponenti del governo o del Congresso di Washington. Così, ad esempio, il candidato democratico alla Casa Bianca nel 2004 ha ribadito che “la finestra per trovare una soluzione diplomatica non può rimanere aperta indefinitamente” e che gli iraniani stanno mostrando “una serietà insufficiente” nella discussione in corso.
Inoltre, su un altro aspetto attorno al quale ci si poteva aspettare una sia pur timida svolta da parte del nuovo responsabile della diplomazia americana le aspettative sono andate deluse. Kerry ha infatti escluso categoricamente che i negoziati sul nucleare possano essere estesi fino a comprendere altre questioni relative alla sicurezza della regione e alle aspirazione dell’Iran in questo ambito. Tale allargamento della discussione, al contrario, è fortemente auspicato dalle autorità di Teheran, ben consapevoli che le pressioni occidentali relativamente al loro programma nucleare sono in gran parte un pretesto per contenere l’influenza iraniana in Medio Oriente a tutto vantaggio degli alleati americani nella regione.
Durante la visita a Riyadh, Kerry è tornato poi a parlare della crisi in Siria, cercando di spiegare nuovamente la decisione di non fornire direttamente armi ai ribelli anti-Assad per evitare che esse possano finire nelle mani dei gruppi integralisti che stanno combattendo per rovesciare il regime di Damasco. Questa pretesa viene avanzata quotidianamente ad uso e consumo dei media ufficiali, dal momento che non solo gli USA da tempo coordinano le spedizioni di armi letali a favore dell’opposizione siriana e finanziate da Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e Turchia, ma che gli stessi ribelli descritti come moderati e perciò presentabili all’opinione pubblica internazionale operano a stretto contatto con jihadisti sanguinari che hanno già compiuto innumerevoli attentati nei quali sono morti centinaia di civili innocenti.
A fianco di Kerry, in ogni caso, Saud al-Faisal - fin dal 1975 ministro degli Esteri di un paese tra i più repressivi e autoritari del pianeta - ha elargito una lezione di democrazia al presidente Assad e ai suoi alleati, rivendicando il ruolo di Riyadh nel mettere a disposizione del “popolo siriano” gli strumenti per “esercitare il loro legittimo diritto di autodifesa” contro le forze del regime.
La visita di Kerry a Riyadh, che sarà seguita dalle ultime tappe del suo tour di 11 giorni ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, e a Doha, in Qatar, non ha previsto un incontro con il quasi 90enne sovrano saudita, Abdullah, mentre ha incluso un pranzo con il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), in vista del prossimo viaggio di Obama in Israele per cercare di rianimare un sempre più moribondo processo di pace.
Prima della sosta in Arabia Saudita, John Kerry aveva incontrato nel fine settimana al Cairo il presidente egiziano, Mohamed Mursi, assieme al ministro della Difesa, generale Abdul Fatah al-Sisi, e ad altri esponenti di spicco dei Fratelli Musulmani al potere. In particolare, ai vertici di un paese che rappresenta un pilastro della strategia americana nel mondo arabo, il successore di Hillary Clinton ha annunciato lo stanziamento di 250 milioni di dollari in aiuti immediati.
Questa promessa è stata accompagnata da forti pressioni su Mursi per chiudere finalmente i negoziati con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), così da ottenere un prestito da 4,8 miliardi di dollari, teoricamente per salvare un’economia in grave affanno fin dall’esplosione della rivolta che ha deposto Hosni Mubarak più di due anni fa.
Il prestito del FMI è allo studio da tempo ma il governo islamista del Cairo lo ha più volte rimandato per evitare un intensificarsi delle proteste popolari che continuano a caratterizzare la quotidianità egiziana. Anche se non sono stati ancora ufficializzati i dettagli del prestito, è infatti pressoché certo che il FMI chiederà come al solito in cambio le consuete impopolari misure che si tradurranno in nuovi assalti alle condizioni di vita delle classi più disagiate, come la fine dei sussidi sui prodotti di prima necessità, da cui dipendono decine di milioni di persone, nonché, più in generale, l’ulteriore apertura del mercato interno al capitale internazionale.
Ciò che Kerry ha chiesto alle élite politiche egiziane, comprese le opposizioni guidate dall’ex direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Mohamed ElBaradei, è stato in definitiva uno sforzo per mettere da parte le divisioni e serrare i ranghi per fare cessare le proteste popolari e gli scioperi che ostacolano il ritorno allo sfruttamento del paese nord-africano da parte degli investitori internazionali. Per il momento, il cosiddetto Fronte di Salvezza Nazionale che si oppone al governo Mursi continua invece a sostenere il boicottaggio delle elezioni generali programmate per il mese di aprile.
La manipolazione degli eventi che hanno seguito la caduta di Mubarak, sostenuto da Washington fino a quando è stato possibile, e la doppiezza della politica estera USA sono risultate evidenti dalle parole di John Kerry al Cairo. Il segretario di Stato ha cinicamente affermato di voler portare un messaggio ai “coraggiosi egiziani” che hanno rischiato le loro vite a Piazza Tahrir per un futuro migliore, sostenendo poi che le loro legittime aspirazioni potrebbero essere soddisfatte solo con l’implementazione di “riforme” che assicurino l’approvazione del prestito del Fondo Monetario Internazionale, unico in grado di generare una ripresa dell’economia.
Nel paese in fermento, la totale incapacità di Kerry e del governo di Washington di interpretare le aspettative di un popolo egiziano sempre più ostile al governo di Mursi e dei Fratelli Musulmani è apparso però evidente dalle proteste pacifiche andate in scena al Cairo contro la politica americana prima e durante la sua visita. Le manifestazioni hanno avuto più di un eco in altre località del paese e nella serata di domenica hanno anche bloccato a lungo il traffico diretto all’aeroporto della capitale, ritardando di alcune ore la partenza di Kerry per l’Arabia Saudita.