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La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita

di Mauro Bonaiuti - 20/05/2013

Fonte: filosofiatv


Uno spettro si aggira per il pianeta. È lo
spettro della decrescita reale. Dopo la crisi
iniziata nel 2008, con i milioni di nuovi
disoccupati, la mancata ripresa
dell'economia, il senso di precarietà e
insicurezza sempre più diffusi, il sospetto
che ci troviamo di fronte a qualcosa di più
di una semplice crisi congiunturale sta
cominciando a farsi strada. Qualche voce
fuori dal coro parla esplicitamente di una
"grande stagnazione" che starebbe
colpendo Europa e Stati Uniti. Eppure i media continuano a diffondere messaggi
rassicuranti : "i mercati finanziari sono sotto controllo", "la crescita ritornerà", "il
motore del capitalismo è sano". Tutte le principali istituzioni economiche, per non
parlare delle maggiori forze politiche, sia di destra che di sinistra, non riescono – e
vogliono - infatti a pensarsi al di fuori dell'orizzonte della crescita. Ogni programma
politico e ogni proposta di governo sono finalizzati a stimolare, o comunque
presuppongono, un ritorno della crescita.
Ma se non fosse così? È possibile che l'età della crescita sia definitivamente conclusa?
Il libro affronta questa ipotesi vagliando un insieme articolato di evidenze provenienti
da contesti disciplinari diversi e conclude che, effettivamente, le economie
capitalistiche avanzate sono entrate in una fase di declino (o più propriamente di
rendimenti decrescenti) iniziato attorno alla metà degli anni Settanta e che non
esistono, al momento, ragioni per far pensare a una inversione di tendenza. Questo
non significa che non sia possibile ritornare, nel breve periodo, agli esangui tassi di
crescita degli anni precedenti la crisi (per le maggiori economie europee, in media,
meno del 2% nel periodo 2000-2010). Vuol dire piuttosto che la fase espansiva che
l'Occidente ha conosciuto dagli albori della rivoluzione industriale - e che è durata,
seppur con andamenti alterni, grossomodo fino alla metà degli anni Settanta - si è
conclusa e che ci troviamo in una nuova fase, caratterizzata da una riduzione dei tassi
di crescita e sopratutto da una riduzione del benessere sociale.
Ma se le cose stanno così perché questo fondamentale cambiamento di prospettiva non
emerge nel dibattito economico e politico? Le ragioni possono essere diverse: da un
lato l'occultamento operato della statistica ufficiale, dall'altro il fatto che la più parte
degli studiosi e analisti - in primis gli economisti – sono privi di una prospettiva di
complessità e ignorano, o sottostimano, i segnali provenienti da sistemi (come quelli
biofisici e sociali) i cui andamenti non sono traducibili in termini di prezzi. Secondo le
scienze della complessità, infatti, è il progressivo differenziarsi delle organizzazioni
sociali (grandi imprese, burocrazie, istituzioni internazionali) che, oltre una certa
soglia, determina una riduzione dei benefici inizialmente apportati dalla
complessificazione stessa, cui si affianca un progressivo incremento dei costi non solo
economici, ma anche sociali e ambientali. I dati ci dicono che sono aumentati, per
esempio, i costi dell'energia e delle materie prime, contemporaneamente si è ridotto -
da circa 100 all'inizio del XX secolo a circa 30 oggi - il rendimento energetico delle
fonti fossili (cioè il rapporto tra l'energia utilizzabile e l'energia investita per ottenerla,
EROI). Lo stesso vale per la produttività dell'agricoltura, della ricerca scientifica,
dell'istruzione e del sistema sanitario, mentre in tutte le principali economie,
indipendentemente dall’orientamento politico dominante, sono saliti i costi della
burocrazia (con l’ipernormazione tanto diffusa nelle nostre società) e il debito
pubblico. E questo non era mai avvenuto prima nella storia del capitalismo.
Dunque, mentre la decrescita (come progetto di società) è spesso ancora relegata da
molti nel limbo delle utopie, la decrescita "reale" - cioè il declino delle società
capitalistiche avanzate - si prospetta ormai come un fatto, con tutta la durezza e la
sofferenza sociale inevitabilmente legate a questo questo processo. E' proprio questo
declino, più degli imperativi morali e degli ammonimenti degli ambientalisti, che
spingerà la società occidentale verso la “grande transizione”.