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La sinistra rivelata (1)

di Marino Badiale - Massimo Bontempelli - 29/05/2013

Fonte: il-main-stream.blogspot

Inizio con questo post la pubblicazione di alcuni brani tratti da "La sinistra rivelata", scritto assieme a Massimo Bontempelli e pubblicato dalle edizioni Massari nel 2007.
(M.B.)



La logica del capitalismo assoluto.

(...) Abbiamo fin qui descritto i postulati comuni a tutte le forze politiche abilitate a governare un paese occidentale nell’attuale contesto storico. Descrivere qualcosa così come i fatti univocamente ce lo mostrano non significa tuttavia spiegarlo. Per spiegare qualcosa, infatti, non basta comprovarne l’esistenza, ma occorre chiarire il perché della sua esistenza, ovvero il processo reale che l’ha resa necessaria. Nel nostro caso si tratta di trovare un perché al fatto che la sinistra, soltanto alcuni decenni fa forza di emancipazione delle classi lavoratrici e di riduzione delle ingiustizie sociali, agisca oggi a partire da postulati che ha in comune con la destra e che comportano l’approfondimento delle diseguaglianze, dello sfruttamento, dell’insicurezza e dell’irrazionalità.

L’analisi sociale mostra come quei postulati siano richiesti da quel contesto storico che viene comunemente chiamato globalizzazione, talvolta neoliberismo, oppure, più raramente, postmodernità.
Riguardo a questi termini c’è una babele di definizioni e interpretazioni. Leggiamo questo resoconto: “Per molti studiosi la globalizzazione è un fenomeno che ha origine negli anni Settanta, precisamente nell’agosto 1971, quando il governo degli Stati Uniti decretò la fine della convertibilità aurea del dollaro (…). Per altri essa si è sprigionata dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine del mondo bipolare, come universalizzazione di un modello economico, quello capitalista (…). Ma non mancano studiosi che vedono la globalizzazione come un fenomeno niente affatto nuovo, che nasce con il capitalismo e con la sua concezione di estensione illimitata del mercato. L’economista argentino Aldo Ferrer ed il professore dell’Università di Washington David Felix ritengono che la globalizzazione abbia avuto inizio con l’espansione coloniale del XV secolo(…).
Per alcuni la globalizzazione è l’omologazione dei modelli di consumo e degli stili di vita attraverso la circolazione universale di comunicazioni e immagini (…). Per altri l’unica globalizzazione realmente esistente è quella finanziaria” [1]
La stessa confusione si ha riguardo al cosiddetto neoliberismo, che per alcuni altro non è che la politica economica conforme alle esigenze del mondo globalizzato, per altri la causa della globalizzazione, per altri ancora il suo effetto. C’è chi lo intende come riedizione del liberismo ottocentesco, vale  a dire come libero scambio e non intervento dello Stato nell’economia,  e chi fa notare che mai come nell’epoca cosiddetta neoliberista lo Sato è intervenuto così massicciamente a sostegno delle imprese private.
Il contesto economico attuale è talvolta inquadrato nella nozione di postmodernità, intesa, in questo ambito, ora come flessibilità del lavoro, ora come mobilità degli investimenti, ora come fine dell’economia regolata dallo Stato. Scrive U.Beck: “La cosiddetta globalizzazione non fa che portare economicamente a compimento quanto è stato annunciato intellettualmente dal postmoderno: il crollo del moderno”[2].
Per capirci qualcosa dobbiamo mettere da parte la disputa sui termini, e individuare che cosa sia essenziale del contesto storico attuale. Poi chiamiamolo come ci pare. Ed usiamo pure, data la sua universale diffusione, il termine globalizzazione. Lo studioso che a nostro avviso ha meglio capito il fenomeno, quando ancora non era dispiegato ma aurorale, è stato I.Wallerstein con la sua nozione di “sistema-mondo”[3].
Wallerstein ci parla del capitalismo come sistema storico di organizzazione economica della società, sistema conforme ad un modello astratto di separazione del mezzo di produzione dal lavoratore e di sua utilizzazione esclusiva in funzione dell’accumulazione senza un fine e senza fine di valore di scambio. Egli mostra come questo capitalismo storico sia nato in alcune zone d’Europa alla fine del XV secolo, si sia sempre più diffuso nello spazio e allargato nella società nei secoli successivi, fino a raggiungere una diffusione mondiale alla fine del XIX secolo e una penetrazione globale alla fine del XX. Ecco dunque in cosa consiste l’elemento essenziale del contesto storico in cui oggi viviamo. Si tratta della completa pervasività sociale del capitalismo storico, vale a dire della raggiunta coincidenza tra il modello astratto di modo di produzione capitalistico e la formazione sociale concreta. In altre parole, ogni aspetto della società umana, compresi i  corpi biologici degli individui e i caratteri della loro personalità, viene sussunto sotto il capitale come materia della produzione capitalistica.
Le implicazioni antropologiche e politiche si questa inedita situazione storica sono di enorme portata, e costituiscono gli elementi esplicativi della progressiva involuzione della sinistra. Chiamiamo capitalismo assoluto il capitalismo storico che è penetrato in ogni poro e in ogni profondità della vita umana associata. Esso è assoluto perché la sua logica di funzionamento regge completamente ogni ambito della vita, senza più lasciare alcuna autonomia di scopi e di regole ad altre istituzioni.
L’azienda, cioè l’istituzione che promuove la produzione e la circolazione delle merci in funzione del profitto, diventa allora non più soltanto la cellula del sistema economico, ma l’alfa  e l’omega della società, perché la società è diventata una società di mercato, in cui ogni bene pubblico è stato convertito in bene privato, e ogni bene privato in merce. Di  conseguenza ogni istituzione viene concepita come azienda, persino l’ospedale, persino la scuola, e persino l’intero paese, che non è più nazione, ma azienda, l’ “azienda-Italia”. La logica puramente contabile dei ricavi monetari da massimizzare e dei costi monetari da minimizzare, propria dell’azienda, diventa così il criterio regolatore di ogni ambito della vita associata, generando un inedito totalitarismo, non della politica ma dell’economia, dell’economia autoreferenziale del plusvalore.
Questo totalitarismo comporta che tutto ciò la cui produzione non è in grado di generare un utile aziendale non viene prodotto, quand’anche la sua  produzione risponda ad un diffuso bisogno sociale e non presenti grandi difficoltà. Tutto ciò che, invece, promette buoni utili aziendali, deve venire prodotto, quand’anche la collettività non ne senta il bisogno, e si veda anzi sottrarre, per produrlo, importanti risorse.
La capacità di un’azienda di vendere ciò che produce traendone profitto si chiama competitività, perché può realizzarsi soltanto in un confronto vincente con altre aziende che le contendono gli  acquirenti. Dato che nella società di mercato lavoro e redditi derivano soltanto dalla produzione di merci, la produzione di merci deriva soltanto da aziende che ne traggono profitto, e ne traggono profitto soltanto quelle competitive, la competitività è l’unica via di accesso alle risorse, ed è condizione addirittura di sopravvivenza. Coloro che lavorano nel settore pubblico e ne sono retribuiti, vengono stigmatizzati come parassiti qualora i loro redditi non corrispondano ai parametri di competitività. In una società di mercato ciò è ragionevole, perché le risorse di cui vivere hanno tutte la forma sociale del reddito monetario privato spendibile, ed il reddito totale di un paese deriva dalla sua competitività complessiva, per cui ogni reddito individuale, per quello che non è correlato alla competitività del luogo di lavoro che lo distribuisce, è in ultima analisi drenato dai frutti della competitività dell’insieme degli altri luoghi di lavoro. Non è ragionevole, però, una società di mercato che funziona così, perché costringe i servizi più essenziali ad una vita degna di essere vissuta, come la sanità, lo svago, l’istruzione, la mobilità sul territorio, la mobilità abitativa, ad assumere la forma incongrua della produzione di merci. Pensiamo ad una scuola: per essere competitiva deve richiamare il maggior numero di studenti paganti (non a caso chiamati sempre più spesso “utenti”), deve vendere sempre più vantaggiosamente il suo prodotto (che non a caso nel nuovo linguaggio burocratico si chiama “offerta formativa”), e deve abbassare sempre più il rapporto numerico tra insegnanti e allievi (una lezione fatta a quaranta allievi invece che a venti rende più competitiva la scuola, così come una valutazione fatta sbrigativamente con test somministrati a tutta una classe invece che con dialoghi individuali). In questo modo, però, l’impegno di marketing soppianta quello culturale, l’apparenza che serve ad attrarre “utenti” soppianta la sostanza culturale trasmessa, il sapere puramente strumentale e superficiale soppianta quello fondato e critico. La conseguenza è che la scuola “competitiva” è distrutta come scuola, ed il livello culturale di un intero paese si abbassa.
La competitività distrugge ogni bene collettivo. Essa si basa, infatti, sul calcolo puramente contabile e monetario di ricavi e costi. Ma il ricavo monetario tratto da una merce non contabilizza gli svantaggi sociali del condizionamento e della corruzione con cui si ottengono le commesse, o del rimbecillimento collettivo prodotto dalla pubblicità con cui si promuovono le vendite. Il costo aziendale non contabilizza l’inquinamento ambientale e i danni personali generati dalla produzione della merce, e così via. Inoltre, vero paradosso del cosiddetto neoliberismo, la promozione della competitività delle aziende diventa il primo compito dello Stato, senza il cui impegno le aziende di un paese sarebbero meno competitive di quelle di altri paesi. Ciò comporta un continuo drenaggio delle risorse pubbliche verso le imprese private. Di questo abbiamo parlato a lungo nel capitolo precedente, mostrando gli effetti di depressione della domanda che tale meccanismo comporta. Aggiungiamo ora che questo drenaggio di risorse pubbliche ha, come ulteriore risultato, il fatto che i servizi pubblici diventano sempre più scadenti, quando non addirittura inesistenti, e lo stesso sentimento di una cosa pubblica da rispettare come bene di tutti si spegne sempre più nei cittadini.
Questo totalitarismo dell’economia distrugge la politica, perché proibisce la progettazione e il dibattito attorno agli assetti e alle scelte della polis, di cui la vera politica consiste. Ora infatti la polis non deve più fare scelte, perché la vita dei suoi vari ambiti, diventati meri aggregati di individui atomizzati, e non più comunità, è continuamente plasmata e riplasmata dall’economia, e solo da essa. Alla politica è chiesto di non essere più tale, ma di declassarsi a semplice amministrazione delle situazioni prodotte dall’economia.
Qui sta la radice dei postulati comuni a destra e sinistra, che non esprimono altro se non la comune accettazione di questo nuovo rapporto tra economia e politica. Questo nuovo rapporto spiega perché la sinistra è così cambiata negli ultimi decenni: è cambiato per accettarlo, e lo ha accettato per non essere esclusa dal potere. Ma esso costituisce anche una nuova antropologia, di cui ci andiamo ad occupare, perché l’essere umano, per collocarsi dentro ad una politica del tutto ancillare all’economia, non deve essere più interiormente legato a scopi e speranze non negoziabili, perché deve essere appunto pronto ad accettare, senza neanche esserne cosciente, qualsiasi contenuto creato dall’economia.

[1] A. Cuevas, La globalizzazione asimmetrica,  Edizioni Lavoro 2000, pagg.39-44.
[2] U. Beck, Che cos'è la globalizzazione, Carocci 1999, pag. 29.
[3] I.Wallerstein, Il Capitalismo storico, Einaudi 1985.