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Democrazia a mano armata

di Marco Tarchi - 24/07/2006

 

 

“In casi come questi, quali che siano le responsabilità israeliane nelle continue convulsioni della regione, non si può stare che dalla parte di Israele”. In questa apodittica sentenza, messa nero su bianco da Sandro Viola, giornalista di punta de “La Repubblica”[i], si riassume l’impostazione con cui la quasi totalità dei mezzi d’informazione italiani, pur con le prevedibili sfumature (l’altro quotidiano a diffusione nazionale, il “Corriere della Sera”, si è come sempre spinto ancora più in là nell’abbracciare le scelte dello Stato ebraico) ha affrontato il nuovo incendio mediorientale causato dall’attacco armato di Israele al Libano. Preso atto della posizione, resta da spiegarne i motivi. Scartati i suggerimenti cari agli adepti del complottismo – anche se, come hanno di recente scritto, con grave rischio per le loro pur affermate carriere due accademici statunitensi versati nello studio delle relazioni internazionali, una “lobby israeliana” esiste eccome, e si fa sentire non solo nei centri in cui si assumono decisioni essenziali di politica estera, ma anche (se non soprattutto) nei media –, vediamo come rispondono i diretti interessati alle ipotesi che si possono avanzare in merito ai moventi del loro comportamento.

Si tratta di una condivisione delle argomentazioni dei governanti di Tel Aviv sulla legittimità della occupazione dei territori palestinesi? Se il riferimento è a quelli su cui Israele ha esteso il suo dominio nel 1967, si direbbe di no. Per convinzione o per ipocrisia, gran parte degli opinion makers italiani e più in generale europei accettano l’idea che quei territori, magari ridotti a un colabrodo dai numerosissimi insediamenti di coloni ebrei (perlopiù fondamentalisti) in Cisgiordania, debbano essere affidati prima o poi a una formale sovranità della popolazione araba, che è rimasta largamente maggioritaria malgrado tutti i tentativi di scacciarla e infiltrarla. Certo, di quelli acquisiti prima della “guerra dei sei giorni” guai anche solo a parlare, perché sostenere le ragioni di coloro che vorrebbero rientrare nelle città e nei villaggi da cui loro stessi o i loro genitori sono stati espulsi con la violenza negli anni Quaranta viene considerato un crimine (“mettere in dubbio l’esistenza dello Stato di Israele o il suo diritto alla sicurezza”) e fa scattare la mannaia dell’accusa di antisemitismo, contro la quale – per innocenti che si sia – non c’è riparo o giudizio d’appello. Ma se si tratta di affermare che “Israele ha sempre ragione”, come di fatto molti osservatori della stampa e dei circuiti radiotelevisivi che contano sostengono, scordandosi perfino la clausola “in casi come questi”, non è alla questione dell’occupazione dei Territori palestinesi che ci si riferisce, anche se il fatto che le innumerevoli risoluzioni dell’Onu che ne intimavano la cessazione sono state trattate come carta straccia dai governi israeliani, di qualunque colore politico, viene regolarmente taciuto.

I “casi come questi” che obbligherebbero a stare comunque dalla parte di Israele si riferiscono allora agli specifici atti ostili che hanno condotto all’escalation di cui Beirut e dintorni stanno subendo le conseguenze? C’è ovviamente chi lo sostiene, ma si tratta solo dei (non pochi, a dire il vero) commentatori segnati dall’appartenenza al campo che difendono, la cui obiettività, malgrado gli sporadici tentativi di accreditarsi come pensosi critici in occasione di qualcuna delle molte scelte oltranziste dell’era-Sharon, è vicina al grado zero. E in ogni caso è una tesi razionalmente fallace: il duplice casus belli rivendicato da Olmert e Peretz si riferisce infatti ad attacchi a postazioni militari, sia nella striscia di Gaza che al confine libanese, e non a civili; e solo poche settimane prima che avvenissero, perfino il ministro degli Esteri israeliano Livni aveva sottolineato, per fustigare altre azioni di guerra palestinesi, come le uniche ammissibili come tali fossero quelle commesse contro soldati in divisa. Farle passare adesso per atti terroristici significa dunque sostituire, per l’ennesima volta, la realtà con la sua distorsione propagandistica; e va notato che praticamente l’intero apparato massmediale “occidentale” ha denominato “rapimenti” quelle che sono pure e semplici prese di prigionieri, compiute da forze armate che combattono un conflitto straordinariamente asimmetrico e perciò non certo conducibile con i tradizionali strumenti dell’incarcerazione dei combattenti catturati in prigioni o campi d’internamento visibili. Israele detiene migliaia di nemici e di loro presunti fiancheggiatori nelle proprie prigioni, nella massima parte dei casi senza alcuna pronuncia giuridica legittima, ma nessun organismo internazionale se ne è mai lamentato, se non di sfuggita e per pura forma.

La dinamica stessa degli avvenimenti che sono sfociati nella nuova aggressione al Libano, anche limitandoci alle settimane più recenti, è del resto quantomai esplicita. Lo scorso 9 giugno, dopo una giornata in cui un’offensiva di Tsahal ha prodotto quattordici vittime, dalle navi israeliane che tengono costantemente sotto tiro le coste palestinesi viene esploso un colpo di cannone che uccide sette persone che trascorrevano una pacifica giornata sulla spiaggia di Al Sadunyah, fra le quali un’intera famiglia: padre, madre e tre bambini di età compresa fra un anno e mezzo e dieci anni. Il motivo della strage, che le fonti ufficiali cercano di attribuire all’esplosione di un deposito segreto di esplosivi collocato sotto i piedi dei bagnanti (!), è una “reazione” al lancio su Sderot e altre città o kibbutz israeliani situati ai margini della striscia di Gaza di razzi Qassam. Si noti che in cinque anni, di questi “ordigni rudimentali e imprecisi, composti da un miscuglio di zucchero e nitrato di potassio”, ne sono stati lanciati migliaia, per un totale di cinque vittime, nessuna delle quali nel periodo immediatamente precedente al cannoneggiamento[ii]. Il 13 giugno, mentre i giornali riferiscono di una “consegna della moderazione imposta da Peretz alle Forze armate impegnate nella guerra contro i Qassam”, un elicottero israeliano, per colpire un furgone in cui viene trasportato uno di questi razzi, spara prima un missile aria-terra e poi un altro, questa volta sui soccorritori dei feriti nel primo attacco, giunti a bordo di un’ambulanza. Bilancio: undici assassinati, fra cui due bambini e tre infermieri. Il 22 giugno, un trafiletto informa che in un raid a Khan Yunis, un razzo sparato da un aereo israeliano senza pilota contro un’automobile su cui viaggiavano miliziani palestinesi, “ha improvvisamente cambiato direzione e ha colpito una casa nella quale si trovava una famiglia che era pranzo”, uccidendo una donna incinta e il fratello medico, “a meno di 24 ore da un altro raid nella Striscia, in cui erano rimasti uccisi due bimbi palestinesi e un adolescente”. Nell’occasione, l’Onu chiede invano – quante volte già lo avrà fatto? – che “cessino gli assassinii mirati, che continuano a reclamare vite di civili”[iii].

Tre giorni più tardi, un gruppo armato palestinese attacca un presidio israeliano attorno a Gaza, uccidendo due soldati e catturandone un terzo. Come prima risposta, il 28 giugno, i caccia con la stella di David invadono lo spazio aereo siriano sorvolando la residenza del presidente Assad, accusato di proteggere i capi di Hamas in esilio. La “comunità internazionale” tace, preoccupata unicamente della sorte del caporale Shalit. Fedele al principio (democratico?) per cui la vita di uno dei suoi cittadini ne vale un numero enorme di quelle di non-israeliani, l’esecutivo di Tel Aviv schiaccia l’acceleratore. Cattura 8 ministri, 26 parlamentari e 32 fra sindaci e dirigenti locali delle legittime istituzioni palestinesi, rei di appartenere ad Hamas. Si sa, perché i giornali lo riportano[iv], che questo atto di forza provocherà “attacchi o lanci di razzi katyuscia contro postazioni militari e insediamenti civili a ridosso del confine” da parte dei guerriglieri di Hezbollah, alleati di Hamas, ma nonostante ciò (o perciò?) lo si compie. Per poi far avanzare i carri armati nella striscia di Gaza, provocare altre decine di morti, devastare campi coltivati, costringere all’esodo gli abitanti di vari villaggi, distruggere a cannonate la sede del ministero degli Interni dell’Autorità nazionale palestinese. È a questo punto – solo a questo punto – che Hezbollah attacca la postazione militare in territorio israeliano, uccidendo otto soldati e catturandone due. Il seguito è noto: l’assalto contro uno Stato sovrano, che ha già fatto, al momento in cui scriviamo, oltre centocinquanta morti fra i civili libanesi, con distruzione di ponti, strutture portuali, centrali elettriche, depositi di acqua, piste di aeroporto, strade di comunicazione in tutto il paese. Una delle notizie più recenti che abbiamo sott’occhio riferisce di ventuno cittadini libanesi uccisi, fra cui nove bambini, “bruciati vivi o dilaniati da un missile israeliano”; stavano fuggendo su un minibus e un altro veicolo dal villaggio di Marwahin, rispettando l’intimazione ad evacuarlo data dai militari invasori[v]. “Danni collaterali”, di cui certamente qualche portavoce di Gerusalemme si scuserà prima o poi.

Come si faccia a giudicare “atti terroristici” le reazioni militari a questa strategia di occupazione, assalti e stragi, è un mistero che soltanto la logica della faziosità può spiegare. Ma si tratta di una logica assai diffusa, se è vero che otto morti israeliani ad Haifa per razzi hezbollah “pesano”, in termini di spazio giornalistico, molto più delle decine e decine libanesi massacrate dalle bombe e dalle mitragliatrici degli aerei di Israele. Uno squilibrio che tocca apici inverosimili, come quando l’inviato dei giornali radio Rai, la sera del 14 luglio, commentando il bombardamento degli uffici centrali del movimento sciita e della casa dello sceicco Nasrallah, si lascia sfuggire in diretta che “gli israeliani hanno centrato l’obiettivo, ma purtroppo non sono riusciti a decapitare Hezbollah perché Nasrallah era assente”. Quando si dice un’informazione corretta… E basta sfogliare le pagine dei quotidiani per comparare lo spazio dato ad interviste a sostenitori di Israele e quello concesso al parere dei critici: siamo vicini al cento per cento contro zero.

Torniamo al quesito da cui siamo partiti. Dunque, per giustificare la convinzione che “quali che siano le responsabilità israeliane nelle continue convulsioni della regione, non si può stare che dalla parte di Israele”, anche l’argomento dell’“attacco terroristico” che potrebbe far scattare la clausola “in casi come questi” è, in un’ottica razionale, di valore nullo. A prescindere dalla controversa questione delle motivazioni prossime o remote di atti del genere, non siamo di fronte né ad un attacco in stile Pentagono e Twin Towers né alle autobomba nei mercati. Che cosa resta dunque ai sostenitori di questa tesi, per non dare l’impressione di star facendo esclusivamente propaganda? L’argomento principe di ogni retorica occidentalista, soprattutto dopo l’11 settembre 2001: bisogna stare dalla parte di Israele perché incarna la democrazia insidiata dalla brutalità dell’intollerante islamismo, di cui Hamas e l’Iran, raffigurato come il mandante di Hezbollah, sono due punte di diamante.

Per pretestuosa che sia, questa affermazione va presa sul serio, perché concorre in misura determinante alla percezione che molti “uomini della strada” in Europa hanno dell’attuale fase del conflitto mediorientale, scenari bellici dell’Afghanistan e dell’Iraq inclusi, e – quel che più conta, ai nostri occhi – della dinamica che l’intero sistema delle relazioni internazionali sta attraversando nell’epoca presente. L’immagine che si intende dare ai cittadini della parte più ricca del pianeta è infatti quella di un conflitto fra i difensori dello status quo di benessere e (relativa) sicurezza, incarnati in primis dagli Usa e da Israele, e subordinatamente dagli alleati minori, Gran Bretagna in testa, le cui scelte sarebbero sempre e comunque guidate dagli ideali democratici e filantropici della difesa dei diritti umani, e gli infidi oppositori, che tali ideali e diritti avversano e, venendo da paesi incolti, incivili e scarsamente sviluppati sotto il profilo economico, sarebbero mossi da una mistura micidiale di invidia e volontà distruttiva. È una caricatura rozza ma efficace, perché tocca i punti più sensibili dell’odierna emotività di massa, molto legata alla difesa dei benefici materiali di cui il modello della società dei consumi gratifica settori consistenti della popolazione, che può essere almeno in parte corretta solo contrapponendole adeguate riflessioni, che non hanno – purtroppo – quasi alcuna eco nei circuiti comunicativi di ampia diffusione e devono contare sull’unica forza del passaparola.

La prima di queste riflessioni riguarda il concetto stesso di democrazia, che dai sostenitori acritici della “superiorità occidentale” è ormai stato, come tante volte abbiamo fatto notare, svuotato del suo significato autentico, che rimanda all’autogoverno dei popoli, sostituito dal richiamo ad un modello ideologico di società dominata da alcuni valori liberali (individualismo, materialismo, utilitarismo, indifferenza religiosa) a scapito di altri (la tolleranza del dissenso e il pluralismo delle fonti informative; per non parlare dell’equità delle condizioni di vita, che non è mai stata inclusa nelle tavole della legge di questo filone di pensiero). Quale caso evidenzia in modo più clamoroso questa distorsione se non l’atteggiamento delle potenze sedicenti democratiche verso la Palestina e l’Iran (ma si potrebbe aggiungere il Venezuela, e la lista è in via di allungamento)? In entrambi questi paesi, la democraticità dei governi – impeccabile dal punto di vista della procedura di selezione dei governanti – è negata in nome di interessi e principi esterni a quelle delle comunità che l’hanno sancita. L’opinione degli elettori iraniani e palestinesi non conta niente di fronte alle convenienze dei governi “occidentali” succubi o complici dell’egemonia statunitense, mentre le prospettive di colpi di Stato che tale opinione contraddicano sono promosse ad orizzonti di una democrazia “restaurata”. Siamo già nel puro nonsenso. Ma non basta.

Un altro dei presupposti della strumentale agiografia democratica occidentalista è che, laddove regna la democrazia, s’instaura la pace. Il meno citato rovescio di questa medaglia, da alcuni lustri a questa parte, è che dove la democrazia non regna bisogna imporla anche con la guerra. Il dato ha di che stupire, dal momento che una vulgata progressista a lungo celebrata aveva convinto i più che i governi democratici sarebbero germogliati spontaneamente in ogni parte del mondo, seguendo l’onda dell’alfabetizzazione e della crescita economica, ma è in netta crescita, a tal punto che oggi l’ampliamento della democrazia sul pianeta non appare più possibile se non imponendolo a mano armata, e per giunta selettivamente (se un governante autoritario si allea con gli Usa, non c’è alcun bisogno di imporgli un cambiamento di regime: dall’Egitto al Pakistan all’Arabia Saudita, va bene così, e non c’è neppure più il bisogno di spendere il denaro e le energie che le azioni dei contras in America Latina richiedevano). Che non vi siano mai stati tanti diversi conflitti sanguinosi aperti simultaneamente, tanta celebrazione della forza militare e tante corse al miglioramento qualitativo e quantitativo degli arsenali bellici quanti se ne vedono oggi nell’epoca del trionfo della democrazia, è un altro paradosso su cui occorre riflettere, tanto più se si pensa che ad acquistare, produrre ed impiegare armi sono soprattutto paesi democratici.

Si dirà che questi paesi si difendono, non attaccano. È una menzogna, che governi e media coprono con una dose straordinaria di ipocrisia. Una volta venute a capo, a distanza di oltre quarant’anni l’una dall’altra, delle sfide ad un tempo ideologiche, geopolitiche ed economiche del fascismo e del comunismo, sono state le democrazie liberali, sotto l’egida della più potente fra di esse, a lanciare l’ennesima crociata per l’egemonia planetaria e ad ispirare il dispiegamento di un impressionante progetto imperialistico, che vorrebbe azzerare ogni ipotesi di effettivo multipolarismo. Questa, e  non altre, è la molla che ispira l’attuale fase di democratizzazione a mano armata del Medio Oriente e probabilmente, domani, di altre aree, dietro il velo mistificante delle “missioni di pace” ormai dispiegate a mappa di leopardo per ogni dove. È un piano irto di difficoltà, delle quali non fatica a rendersi conto chi osserva su una carta geografica la quantità di contingenti militari che arginano, con spesa e fatica in costante aumento, ribellioni, turbolenze e conflitti locali nei cinque continenti, ma il cui successo è essenziale per chi aspira a dominare il mondo.

Per questo, non si può ne si deve “stare comunque dalla parte di Israele”, né degli Stati Uniti d’America, né degli alleati e servitori che a questo progetto si sono accodati, solo perché i governi e i mezzi di informazione che li spalleggiano garantiscono l’inesistente democraticità delle loro intenzioni. Le democrazie che soffocano l’espressione delle volontà popolari di altri paesi, e che usano la violenza delle armi contro la sovranità nazionale di altri Stati e i diritti di altre popolazioni, tradiscono e infangano l’etichetta a cui si richiamano. Non lo dicono solo gli avversari dichiarati dell’egemonia occidentalista; lo dicono e lo sanno anche gli esponenti del dissenso dalle linee dei governi dei propri paesi. Basta, ad illustrarlo, l’articolo che segue, comparso sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 9 luglio a firma Gideon Lévy, sotto il titolo Chi ha cominciato?:

““Noi siamo usciti da Gaza e loro tirano dei razzi Qassam”: niente esprime più esattamente l’opinione generale a proposito dell’attuale ciclo di scontri; “loro hanno cominciato”: questa sarà la risposta lanciata a chi tentasse comunque di sostenere che, ad esempio, alcune ore prima del primo Qassam caduto, senza fare danni, su una scuola a Ashkelon, Israele aveva seminato la distruzione nell’Università Islamica di Gaza. Israele immerge Gaza nell’oscurità, le impone un assedio, bombarda, liquida e imprigiona, uccide e ferisce civili, fra cui bambini e neonati in numero terrificante, ma “loro hanno cominciato”. E poi, loro “violano le regole” fissate da Israele: a noi è consentito bombardare come ci piace, ma a loro è proibito lanciare un Qassam. Quando loro tirano un Qassam su Ashkelon, siamo subito a “un grado più in alto”, mentre quando noi bombardiamo un’università o una scuola, è nell’ordine delle cose. Perché? Perché sono stati loro a cominciare. E di conseguenza la giustizia è tutta dalla nostra parte, pensa la maggioranza. Come in un litigio al giardino d’infanzia, “chi ha cominciato?” è diventata la carta morale vincente di Israele per qualunque crimine commesso.

Ma allora, chi ha davvero “cominciato”? Siamo veramente “usciti da Gaza”? Israele è uscito da Gaza solo parzialmente e in maniera distorta. Il piano di disimpegno, che si era autodefinito sentenziosamente – “spartizione del paese”, “fine dell’occupazione” – ha in effetti condotto allo smantellamento delle colonie e alla partenza dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza, ma non ha cambiato quasi niente nelle condizioni di vita dei suoi abitanti. Gaza è ancora una prigione e i suoi abitanti sono sempre condannati a vivere nella povertà e nell’oppressione. Israele li rinchiude da ogni lato – mare, aria e terraferma – ad eccezione della valvola di sicurezza limitata di Rafah. Non possono visitare i parenti che vivono in Cisgiordania né cercare lavoro in Israele, da cui l’economia di Gaza è stata completamente dipendente per circa quarant’anni. Far passare merci è a volte consentito, a volte proibito. In simili condizioni, Gaza non ha alcuna possibilità di sfuggire alla povertà. Nessuno vi investirà denaro, nessuno potrà sviluppare Gaza. Nessuno può sentirvisi libero. Israele è uscito dalla gabbia, ha buttato le chiavi e abbandonato gli abitanti all’amarezza della loro sorte. Adesso, meno di un anno dopo il disimpegno, Israele compie, nella violenza e nella forza, il cammino del ritorno.

Che cosa si poteva sperare? Che Israele si ritirasse unilateralmente, ignorando apertamente e oltraggiosamente l’esistenza e i bisogni dei palestinesi, e che costoro sopportassero in silenzio tutta l’amarezza della loro sorte e non proseguissero la lotta per la loro libertà, il loro onore e un mezzo di sussistenza? Avevamo promesso un accesso sicuro verso la Cisgiordania e non abbiamo mantenuto la promessa. Avevamo promesso di liberare dei prigionieri e non abbiamo mantenuto la promessa. Abbiamo appoggiato l’effettuazione di elezioni democratiche per poi boicottare i dirigenti legalmente eletti, confiscare il denaro che spetta all’Autorità Palestinese e dichiarare guerra a quest’ultima. Avremmo potuto ritirarci da Gaza nel quadro di negoziati e di un coordinamento, e rafforzando la direzione palestinese esistente, ma abbiamo rifiutato ed eccoci adesso, di nuovo, a lamentarci della “assenza di dirigenti”. Abbiamo fatto tutto ciò che era possibile per schiacciare la società e la direzione palestinese, abbiamo vigilato quanto meglio potevamo affinché il disimpegno non annunciasse l’apertura di un nuovo capitolo nelle relazioni con il popolo vicino, e ora siamo sorpresi dalla violenza e dall’odio che noi stessi abbiamo seminato.

Che cosa succederebbe se i palestinesi non lanciassero razzi Qassam? Israele cesserebbe in quel caso il boicottaggio economico imposto a Gaza? Aprirebbe la sua frontiera al lavoro palestinese? Libererebbe dei prigionieri? Incontrerebbe la dirigenza eletta e condurrebbe negoziati con essa? Incoraggerebbe gli investimenti a Gazza? Sciocchezze. Se gli abitanti di Gaza rimanessero tranquilli, come Israele si aspetta da loro, la questione sparirebbe dall’ordine del giorno, da noi e nel mondo. Israele continuerebbe la “convergenza” destinata esclusivamente a servire ai suoi scopi ignorando i bisogni dei palestinesi. Nessuno presterebbe attenzione alla sorte degli abitanti di Gaza se non ricorressero alla violenza. È una verità terribilmente amara, ma i primi vent’anni dell’occupazione sono passati per noi nella calma, e non abbiamo sollevato il dito mignolo per mettere fine a quella occupazione. Invece di fare ciò, approfittando della calma, abbiamo elaborato l’enorme e criminosa impresa delle colonie. E adesso spingiamo, ancora una volta, i palestinesi a ricorrere alla povera arma di cui dispongono e a cui noi rispondiamo mettendo in azione quasi tutto il formidabile arsenale in nostro possesso, pur continuando a gridare: sono stati loro a cominciare.

Siamo stati noi a cominciare. Noi, che abbiamo cominciato con l’occupazione. A noi incombe il compito di metterle un termine, un termine nel contempo vero e assoluto. Per quanto riguarda la violenza, siamo stati anche in questo caso noi a cominciare: non c’è peggiore violenza della violenza di un’occupazione che si impone con la forza a un intero popolo, e il problema di sapere chi abbia sparato per primo è, di conseguenza, una divagazione destinata a distorcere il quadro. Anche dopo Oslo c’è stato chi ha dichiarato “siamo usciti dai Territori”, in una equa mistura di accecamento e menzogna.

Gaza si trova in un terribile stato di disperazione in cui regnano la morte, la paura, le difficoltà di sussistenza, lontano dagli occhi degli israeliani e dal loro cuore. Da noi non si mostrano che i Qassam. Da noi, non si vedono che i Qassam. La Cisgiordania continua a vivere sotto lo stivale dell’occupazione, l’impresa delle colonie è florida e ogni mano tesa in direzione di una soluzione, inclusa la mano di Ismail Haniyeh, viene immediatamente respinta. Se dopo ciò qualcuno avesse ancora una qualche esitazione, allora piomberebbe subito la frase decisiva: sono stati loro a cominciare. Sono stati loro a cominciare e la giustizia è con noi. Mentre invece non sono stati loro a cominciare e la giustizia non è con noi”.

Queste sono parole logiche e sensate, che fanno piazza pulita delle contrapposizioni manichee e dei pregiudizi antisemiti e antiarabi, che fanno sperare nella possibilità che un paese come Israele passi un giorno dalla condizione di democrazia a mano armata a quella di democrazia pacifica e rispettosa degli altrui diritti. Sono parole che sulla grande stampa italiana e di molti paesi d’Europa non avrebbero diritto di cittadinanza. Fino a che questa sarà la situazione, occorrerà tenere vive e alte tutte le piccole voci del dissenso, da qualunque formazione provengano, e farle convergere in una indispensabile opera di controinformazione e di difesa della libertà di pensiero.

Marco Tarchi



[i] Sandro Viola, Nel paese accerchiato, in “La Repubblica”, 16 luglio 2006, pag. 4.

[ii] Cfr. a.s., Sderot, una città fantasma nella “guerra dei missili”, in “La Repubblica”, 12 giugno 2006, pag. 7.

[iii] Missile israeliano su Gaza, uccisa una donna incinta, in “La Repubblica”, 22 giugno 2006, pag. 27.

[iv] Cfr. Fabio Scuto, Israele arresta i ministri di Hamas, in “La Repubblica”, 30 giugno 2006, pag. 10.

[v] Cfr. Daniele Mastrogiacomo, Bombardati i porti del Libano. Beirut invoca il cessate il fuoco, in “La Repubblica”, 16 luglio 2006, pag. 2.