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Un dogma culturale (sulla critica alla politica israeliana)

di Andrea Inglese - 25/07/2006

Fonte: nazioneindiana

Di fronte ai commenti che l’attacco di Israele al Libano ha suscitato nei nostri canali d’informazione l’impressione è quella di concorrere al rafforzamento di un dogma culturale che è tanto ottuso quanto nocivo. Un simile dogma culturale è già emerso negli ultimi anni a proposito della politica del governo statunitense. Ogni critica risoluta alle opzioni di politica estera o interna del governo statunitense avanzate in un dibattito pubblico in Italia, e spesso anche in altri paesi europei, è immediatamente definito da qualcuno come una manifestazione di “antiamericanismo”, ossia come una forma di pregiudizio idiosincratico e ingiustificabile. Ciò accade o rischia di accadere anche oggi, quando qualcuno critica risolutamente la politica estera israeliana.

Un saggio di come si costruisce e rafforza tale dogma ce lo fornisce Magdi Allam sul Corriere della sera del 19 luglio. La catena argomentativa è in fondo semplice: chi critica Israele, anche prudentemente, legittima l’azione terroristica di Hezbollah a cui Israele risponde. Chi legittima Hezbollah, di conseguenza, legittima la volontà di cancellare il diritto ad esistere dello stato israeliano. Ciò significa, quindi, che una critica nei confronti del governo israeliano è sempre una critica al diritto di Israele di esistere. È quindi chiaro, in quest’ottica, come ogni risoluta critica alla politica israeliana cada sotto il sospetto di antisemitismo. E sappiamo anche come tale accusa sia ben più infamante di quella di “semplice” antiamericanismo.

Il presupposto di fondo di questa costruzione dogmatica è poi solo uno: ogni altra risposta che non sia di pura e schiacciante potenza militare nei confronti dei propri nemici, siano essi i militanti palestinesi di Hamas o quelli libanesi di Hezbollah, non può che manifestare un atteggiamento di debolezza, e la debolezza non può che condurre ad un nuovo e terribile sterminio. Non sono un analista politico, ma non credo alla bontà di quest’ipotesi. Questa ipotesi non può reggere nel corso tempo. Innanzitutto, usare come unica arma politica il terrore contro il terrore, come Israele sta facendo in Libano, non può portare alla pace. Ma come i molti governi israeliani nel corso di ormai sessant’anni hanno dimostrato nei confronti della questione palestinese, non è la pace il vero obiettivo, ma quel grado accettabile di “sicurezza” che una potenza occupante può garantirsi nei confronti di un paese occupato.

Ciò che comunque non si può ignorare, essendo sotto gli occhi di tutti, è che l’azione terroristica per scopi politici è legittimata tanto da Hezbollah quanto da Israele. Ma non è su questo punto che mi voglio soffermare, bensì sull’idea che sembra indiscussa nelle classi dirigenti israeliane. Queste ultime pensano che se il loro stato non sarà in grado di “pestare molto più duro dell’aggressore”, allora esso dovrà soccombere. Ma nei confronti delle reazioni di Israele alle aggressioni terroristiche si percepisce una costitutiva ambiguità: da un lato, il carattere simmetrico, ma sempre di potenza distruttrice ben maggiore, della reazione militare israeliana, che non risparmia bambini, donne e anziani innocenti, è giustificato in nome della “sicurezza”; dall’altro, emerge, spesso persino dichiarata, la pura e cieca volontà di rappresaglia: “per ognuno dei nostri che muore almeno dieci dei vostri”. La rappresaglia, però, come la storia insegna, non ha mai garantito duratura sicurezza nelle file degli eserciti o delle organizzazioni che la praticavano. Chi la esercita, invece, sprofonda inevitabilmente nella barbarie, mentre in chi la subisce non fa che alimentare l’odio e il sogno di una sanguinaria rivalsa.

L’azione terroristica esercitata da organizzazioni come Hezbollah non ha minimamente la pretesa di distruggere lo stato israeliano, di vincerlo, di cancellare Israele dalla carta del Medio Oriente. Essa vuole minare, in una contesa idealmente infinita, ogni pretesa israeliana di aver vinto stabilmente una guerra, di aver garantito militarmente la sicurezza nei confronti dei suoi cittadini. Da parte israeliana, l’azione terroristica è vista come l’unica soluzione per garantire la sicurezza dei propri soldati o dei propri cittadini dalle minacce dei suoi nemici politici. Ma l’obiettivo di Israele non dovrebbe essere la realizzazione di un’eterna contesa con le organizzazioni terroristiche che la minacciano. Accettare l’eterna contesa significa infatti rinunciare proprio a quella “sicurezza” che rappresenta il motivo principale di una politica di rappresaglia militare. (A meno che i vertici dello stato israeliano ragionino in un’ottica di politica esclusivamente bellica, dove è del tutto legittimo aspettarsi un costante, seppure ridotto al minimo, sacrificio di vite umane da parte dei propri cittadini.)

Non riesco a credere che la salvezza dello stato di Israele sia affidata alle stragi di civili in Libano né ad un’ennesima occupazione territoriale. Le guerre che Israele doveva vincere per assicurarsi di fatto la propria esistenza di stato sovrano in Medio Oriente sono già state vinte. Ora non rimane ad Israele che l’opzione di un’eterna contesa con organizzazioni terroristiche che mai avranno la potenza militare di uno stato sovrano, e mai quindi potranno subire una definitiva sconfitta e firmare una pace duratura, oppure la possibilità di ridiscutere criticamente e non dogmaticamente quegli assunti di politica estera che paiono fino ad ora indiscutibili. Il primo passo per aprire nuove possibilità reali, soluzioni politiche per ora impensabili, passa per l’esercizio dell’autocritica. Israele, come dimostra nuovamente, è uno stato sufficientemente potente, solido e coeso per potersi consentire l’autocritica senza assimilarla all’autodistruzione. Allo stesso modo, la critica diretta alla dirigenza israeliana non è una distruzione invocata nei confronti della società israeliana.

Per una minoranza di israeliani questo discorso è del tutto pacifico. Ma non per questo è facile da fare. In il manifesto del 20 luglio leggo un’intervista a Itzik Shabbat, produttore televisivo di 28 anni, che è stato chiamato come riservista dall’esercito israeliano. Shabbat è un obiettore di coscienza, un caporale che ha già rifiutato nel 2002 di servire nei Territori Occupati. Un cosiddetto refuseniks. E oggi, dopo aver ricevuto la convocazione dell’esercito impegnato nelle operazioni contro in Libano, fa sapere che si rifiuterà nuovamente di entrare in servizio, a costo di rischiare l’incarcerazione.

A conclusione dell’intervista, a Shabbat viene chiesto:“Non pensi di andare contro al tua paese rifiutando di servire nell’esercito?”. Riporto per intero la sua risposta.
“Il patriottismo è un’arma molto sofisticata qui in Israele.Ma in questo non c’è niente di sano in una società patriottica. La gente crede che essere patriottici ci renda cittadini migliori ed in questo cadiamo nello stesso tranello degli americani che credono si debba sempre servire il paese. Ma è il paese che deve servirci, che deve mantenere una società sana. Non si può adorarlo, idealizzarlo. Non si può pensare di morire per il paese.Dovreste vedere cos’è la stampa qui in Israele. Non c’è mai modo di avere un’opinione diversa, non c’è accesso a quella che è la versione del nemico. E si rischia di venir accusati di tradimento per una semplice intervista alla stampa estera, come questa.”

Importanti intellettuali israeliani come Oz, Grossman, Yehoshua, si sono pronunciati in favore di questa nuova “guerra giusta” da parte di Israele. Ma altre notizie ci dicono che esistono israeliani che manifestano contro questa guerra e che non condividono la politica di Olmert. In un sondaggio apparso lunedì 17 sul quotidiano Yediot Aharanot, l’86% delle persone intervistate pensano che l’offensiva nei confronti del Libano sia giustificata, ma il 14% si dichiara contraria ad essa (Le monde, 20 luglio 2006).

È nell’interesse stesso di Israele che si apra la possibilità di rimettere radicalmente in discussione quello che oggi appare un consensuale avvallo dell’azione terroristica come legittimo strumento dello stato. È evidente che tutti gli stati sovrani che si proclamano campioni nella lotta al terrorismo, siano essi gli USA o la Russia, dovrebbero per prima cosa riconoscere apertamente e discutere la propria opzione di un terrorismo al servizio dello stato, di un terrorismo al servizio della democrazia.

Nel caso specifico di Israele, poi, la questione è anche più urgente. Trovare una linea politica incentrata sul negoziato e il compromesso, e non sulla semplice riposta militare, è lungimirante per un altro importante motivo. Gli Stati Uniti non saranno in eterno la superpotenza egemone del pianeta. Il loro declino è già agli occhi di molti inequivocabile. Ma ciò vale anche per Israele. Nessuno potrà garantire in eterno ad Israele la superiorità schiacciante in termini militari che ora può vantare nei confronti delle altre nazioni mediorientali. La pace duratura con i palestinesi comporterà per gli israeliani dei sacrifici ben più importanti di quelli realizzati finora da una piccola minoranza di coloni estremisti. Ma tale pace, in quanto veramente tale, andrà a sostituire quella “accettabile sicurezza” che ha già messo in conto, assieme alle rappresaglie, anche il sacrificio dei propri civili innocenti. E sopratutto garantirà Israele nell’imprevedibile futuro, a cui l’attuale dirigenza, certa oggi della propria potenza bellica, crede non valga la pena neppure pensare.

Uscire dal terrorismo significa, infatti, uscire da quella logica dell’“eterna contesa” che non può giustificarsi che da un punto di vista fideistico e religioso. L’estremismo religioso, infatti, non è interessato ad una “laica” vittoria sul campo, ma alla possibilità di guadagnarsi, attraverso il martirio, una singolare salvezza nell’al di là. Uno stato laico che accetti questa logica non può che essere perdente, in quanto esso non combatte per la salvezza delle anime ma per la sicurezza dei corpi. È bene dunque che esso porti i “martiri” a lottare su un terreno propriamente politico, fatto di scambi e negoziati, di compromessi e risarcimenti. Non sarà insomma il terrore militare, fatto di bombardamenti che annientano i corpi, a sconfiggere la logica della guerriglia religiosa, che accresce cupamente la sua gloria nell’elenco delle vittime, le proprie innanzitutto. Ogni successo dell’esercito israeliano nell’esercizio dell’omicidio politico, è nel contempo un successo dei nemici sopravvissuti, che hanno conquistato un nuovo martire, un onore ulteriore di fronte all’immutabile incoraggiamento che viene dall’al di là.

A questa “eterna contesa”, Israele non può che sfuggire accettando l’idea di un “negoziato ininterrotto”, finché non si giunga al punto di compromesso politico accettabile per entrambe le parti coinvolte. (E ciò ovviamente inficia come meramente “fittizia” ogni soluzione come quella di Sharon, basata su ritiri o concessioni “unilaterali”. Non ci sarà nessuna soluzione politica unilaterale.) Tale compromesso, ovviamente, non potrà avere altro scopo che la nascita di uno stato palestinese realmente sovrano e non mutilato. Perché è ancora di questo che si tratta, ed è ancora di questo che si deve parlare.