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M5S: tentazione scissione?

di Federico Zamboni - 02/09/2013

   
   

I media mainstream soffiano sul fuoco, e parlano già di una possibile secessione all’interno del MoVimento 5 Stelle, ma non è che l’ipotesi sia completamente sballata. Strumentalizzata sì, eccome. Infondata no, per niente.

A renderla credibile, infatti, sono non soltanto le continue tensioni (il fiele millefiori delle minuscole api catapultate a Montecitorio o a Palazzo Madama) che si vanno manifestando da quando c’è stato l’exploit elettorale del febbraio scorso, ma le contraddizioni che affliggono l’intera iniziativa. Quelle stesse contraddizioni che sul Ribelle stiamo denunciando/analizzando da anni e che costituiscono dei veri e propri vizi genetici, a cominciare dalla tara fondamentale dello slogan-boomerang “Uno vale uno”.

Moltissime delle diatribe che si sono accese negli ultimi sei mesi – a seguito dell’improvviso avvento sulla scena nazionale dei neo parlamentari del M5S, proiettati di colpo su una ribalta di quel rilievo senza alcuna verifica delle loro capacità e della loro effettiva identificazione in certe tesi anti sistema – poggiano appunto su questo dogma suicida. Che nell’ansia di delegittimare i partiti preesistenti e riaffermare il principio della democrazia popolare si è andato a rinchiudere in una palese assurdità: l’equivalenza non solo ideale, ma anche operativa, di qualsiasi individuo, cittadino, elettore. Abbiamo scritto “operativa”, intendendo tutto ciò che porta a delle decisioni concrete, ma potremmo optare per altri termini. Per limitarci a un paio, diciamo “cognitiva” e “politica”. Cognitiva nel senso (nel non-senso) che tutti possiederebbero le stesse identiche capacità di comprensione della realtà. Politica con specifico riferimento alle scelte collettive. Le quali, peraltro, rinviano a un’ampia gamma di competenze e comunque non cancellano affatto, a parità di conoscenze teoriche, le differenze connesse alle diverse concezioni dell’Uomo cui si fa riferimento.

Mai dimenticarlo, se non si vuole finire risucchiati nella retorica delle tecnocrazie: in ambiti come l’economia, e l’organizzazione sociale che vi si collega, di oggettivo c’è poco o nulla. E quel poco, in ogni caso, si colloca a valle dei valori di partenza. Un conto, per esempio, è accettare l’assioma liberista dell’utilitarismo, che o prima o dopo spinge verso il massimo profitto; tutt’altro è capire che l’economia è nulla più di uno strumento con cui risolvere alcune (alcune!) esigenze pratiche, che vanno affrontate allo scopo di affrancarsene il più possibile e dedicarsi, invece, a sviluppare le proprie potenzialità migliori.

Il discorso, come si vede, porta lontano. Ma è proprio questo – questa complessità, questa profondità – che deve costituire le fondamenta di un progetto politico che ambisca a risultare alternativo a quello oggi dominante. Alla democrazia diretta, quindi, può essere riconosciuto al massimo un potere di conferma o meno delle tesi che si vogliono diffondere, ma mai e poi mai la funzione di generare essa stessa i contenuti fondamentali. A maggior ragione, poi, quando i popoli abbiano ormai smarrito qualsiasi saldezza morale e barcollino in preda alle droghe, a tratti eccitanti e a tratti narcotiche, del consumismo materiale e culturale. L’elettorato odierno non va certo confuso col demos cui si richiama il concetto stesso di democrazia e che postula un qualche genere di integrità: tra l’uno e l’altro ci sono decenni e decenni, se non secoli, di “colonizzazione dell’immaginario”, che nella migliore delle ipotesi hanno ricoperto le qualità etiche sotto una coltre assai spessa di condizionamenti di ogni sorta.

Se il MoVimento 5 Stelle non ha compreso questo, a partire da Grillo e Casaleggio, ogni altra istanza “di cambiamento” si riduce a poca cosa. E l’eventuale scissione che ora inizia a profilarsi, al di là delle occhiute e interessate esagerazioni di questa o quella testata giornalistica, si ridurrà a sua volta a uno dei tanti – innumerevoli – episodi secondari dell’attuale quadro politico.

Non è tempo di un semplice riordino, per far funzionare meglio la cosiddetta azienda Italia. È ora di promuovere un ordine di segno completamente diverso. Ma per promuoverlo, naturalmente, bisogna prima averlo concepito, e non aspettarsi che a svelarcelo sia il fantomatico “popolo della Rete”.

Federico Zamboni