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Stanno distruggendo l'intero Libano!

di Dahr Jamail - 26/07/2006


"[Gli israeliani] se la stanno prendendo con coloro che non sono Hezbollah", racconta un americano mentre scappa con la madre. "È una catastrofe, le loro bombe piovono dappertutto", aggiunge il venticinquenne insegnante di studi sociali mentre asciuga il sudore dalla fronte nell’afoso valico di confine. "Stanno distruggendo l’intero Libano!"

La guerra attacca ogni cosa, brutalmente.

Mentre il Libano sanguina e la crisi umanitaria laggiù sprofonda tra i crateri lasciati dalle bombe israeliane, coloro hanno potuto sono
fuggiti – soprattutto verso la Siria.

Al confine settentrionale del Libano, folle di persone, con fare diffidente e lo sguardo fisso nel vuoto per aver vissuto nel terrore per giorni, si sono riversate in Siria.

Spingendo carriole cariche di tutto ciò che si poteva portare, erano giunti da ogni parte del Libano; dal nord, dalla città costiera di Tripoli, da più a sud nella costa vicino a Batroun, fino a Byblos – città un tempo meravigliosa, dove una volta presi un tè con i miei cugini libanesi. Di questi dobbiamo ancora avere notizia dall’inizio della guerra israeliana al popolo libanese.

La maggior parte di queste persone, naturalmente, proveniva da Beirut. Il resto, comprese le automobili con i bagagli legati in cima, venivano dalle terre devastate del Libano del Sud – dalle città di Sidone, Tyre, Marjeyun e da numerosi villaggi più vicini al confine meridionale.

Più di 140.000 rifugiati libanesi hanno ora attraversato le dogane verso la Siria. Mentre l’ONU esorta invano un cessate il fuoco da un Israele fomentatore di guerra, spalleggiato dal proprio più grande alleato “che permette tutto” e che usa l’arma del diritto di veto, gli Stati Uniti, due soldati a Tyre sono rimasti uccisi da un attacco aereo israeliano.

"[Gli israeliani] se la stanno prendendo con coloro che non sono Hezbollah", racconta un americano mentre scappa con la madre. Hanno trascorso le vacanze a Beirut assieme alle proprie famiglie là. "È una catastrofe, le loro bombe piovono dappertutto", aggiunge il venticinquenne insegnante di studi sociali mentre asciuga il sudore dalla fronte nell’afoso valico di confine. "Stanno distruggendo l’intero Libano!"

Tra le oltre 350 vittime del Libano, più di un terzo sono bambini. Avrebbero potuto contribuire al futuro del proprio bisognoso paese.

Dopo aver intervistato diversi rifugiati, assieme al mio interprete Abu Talat ci siamo incamminati verso un taxi per poi dirigerci ancora più a nord, verso la costa siriana. Il nostro autista, Abdo al-Hamre, un contadino di 32 anni, ci dice di aver trasportato per giorni rifugiati dal confine. "Ogni giorno piango per il popolo libanese", dichiara a voce alta, "Tutti loro piangono in auto mentre guido. È davvero troppo da sopportare".

La guerra ferma qualsiasi cosa. La guerra uccide un paese – sia che si tratti di coloro che le bombe le sganciano, sia di coloro che ne rimangono lacerati. I paesi che muovono guerra, come Israele ora sta facendo in Libano, o come gli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan, scelgono di vendere le proprie anime… forse ad un prezzo tanto alto quanto quello che pagano coloro le cui vite sono annientate dall’aggressione mossa.

La guerra blocca tutto: scuole, consegne di cibo, trasporti pubblici, gite fuori porta, balli, lanci d’aquilone, risate con i propri cari… tutto si arresta mentre la battaglia per la sopravvivenza regna sovrana. Non conta più nulla. Solo sopravvivere. Gli esseri umani sono ridotti al livello base della sopravvivenza, non c’è spazio per nient’altro.

Oggi [22 luglio, NdT] ci trovavamo nelle sedi centrali della Mezzaluna Rossa a Damasco per intervistare i rifugiati. Un uomo anziano, con la testa tra le mani, era appena arrivato dopo essere fuggito dal proprio villaggio nel Libano meridionale. Gli ho chiesto se il piano d’Israele di bombardare il popolo libanese per costringere Hezbollah ad andarsene dal Sud del loro paese stesse funzionando. Il piano israeliano, in sostanza, sta davvero facendo insorgere il popolo libanese contro Hezbollah? Si è alzato subito in piedi, costringendomi ad indietreggiare."Sempre più libanesi ora stanno con Hezbollah, molto più di prima", ha urlato indicando il cielo, mentre i suoi occhi si riempivano di collera. "Che Dio maledica gli israeliani per aver distrutto il Libano! Non distruggeranno mai il nostro spirito! La resistenza è un ideale e gli ideali non si possono distruggere!"

Era pazzo di rabbia. In fondo, perché mai non avrebbe dovuto esserlo?

Quest’uomo, un uomo che dovrebbe custodire un terreno, giocare con i propri nipoti, cenare con la propria moglie al tramonto, si stava infuriando con un giornalista a Damasco perché tutto quello che conosceva ora stava bruciando sotto le macerie.

La guerra ferma la vita. La guerra ferma tutto.

Dahr Jamail è un giornalista free lance che ha trascorso oltre otto mesi nell’Iraq occupato. Lo scorso gennaio a New York ha fornito le prove dei crimini di guerra Usa alla Commissione Internazionale d’Inchiesta sui Crimini contro l’Umanità commessi dall’Amministrazione Bush. Scrive regolarmente per ‘Inter Press Service’, ‘Truthout.org’, ‘Asia Times’, ‘TomDispatch’; il suo sito è www.dahrjamailiraq.com.
Dahr Jamail è tra gli autori dell’antologia
Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi, Nuovi Mondi Media, 2005.


Fonte: Common Dreams
Traduzione a cura di Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media


Su Hezbollah e sulle questioni mediorientali vedi 'A cena con i terroristi – Incontri con gli uomini più ricercati del mondo', di Phil Rees – regista di numerosi documentari per la BBC e autorevole collaboratore di 'The Independent', 'The Guardian' e di 'The New Statesman'.
Rees ha speso buona parte della sua ventennale carriera di inviato di guerra raccontando storie di militanza armata in giro per il mondo.
Di seguito un estratto del suo libro.

Gli aeroplani israeliani incrociarono sopra le nostre teste per tutto il pomeriggio, lasciando lunghe scie bianche nel cielo azzurro limpido. Hezbollah aveva una sede a J’baa, un piccolo edificio in mezzo a una fila di negozi. All’interno c’erano raccoglitori sugli scaffali, volantini e manifesti sparsi tutt’intorno insieme ad altro armamentario del partito; un portachiavi con l’immagine del leader di Hezbollah, fasce per capelli con slogan e segnalibro in pelle con goffrato il simbolo del partito, un pugno sollevato che agita in aria un Kalashnikov.
L’uomo dietro la scrivania fece una telefonata e annunciò che, per quella sera, avevo un appuntamento a cena con un comandante hezbollah. Mi era stata assegnata una guardia del corpo chiamata Abbas, un uomo accigliato sulla ventina. Forse c’era un problema nella traduzione, ma non riuscii a stabilire se stavo per incontrare il comandante militare o il leader spirituale. Lo chiamavano “Shaykh”, ma per gli hezbollah, gli uomini di Dio e gli uomini d’armi possono essere la stessa cosa.
Era una notte senza luna e io stavo per essere condotto giù per un sentiero che partiva dal centro di J’baa. In qualche angolo lontano era appesa una lampadina nuda, ma ogni passo in avanti era un atto di fede. Sospettavo che mi stessero facendo fare un percorso circolare per evitare che il giorno dopo potessi individuare l’edificio. Gli hezbollah erano ossessionati da segretezza e sicurezza. La nostra destinazione si rivelò essere una casa di tre piani con frammenti di luce che filtravano dalle fenditure nelle porte e nelle persiane.
Mi fecero entrare in una stanza con un grande tavolo, che si alzava solo mezzo metro dal pavimento. Sopra c’era steso un telo di plastica bianco, parecchi uomini facevano avanti e indietro, alcuni portando piatti di cibo. Intorno al tavolo potevano probabilmente inginocchiarsi o sedersi una dozzina di uomini, stringendosi, forse di più. Uno dei tubi fluorescenti che lo illuminavano lampeggiava in modo fastidioso.
Lo Shaykh Muhammad si sedette, con le gambe incrociate, a capotavola. Il suo abito nero cadeva come una piccola tenda intorno al suo corpo seduto. La sua testa barbuta era inclinata a quarantacinque gradi, come se fosse in costante contemplazione, coronata da un turbante bianco e rotondo. Era uno shaykh, un componente del clero sciita e apparentemente vicino al consiglio di governo di Hezbollah. Non riuscii mai a scoprire se era anche un capo militare.
Lo Shaykh sollevò lo sguardo mentre entravo nella stanza e Abbas mi presentò. Lui sorrise bruscamente e fece un cenno con il capo quando pronunciai il saluto islamico, “La pace sia con te”, ma non rispose. Dopo un po’ cominciammo a mangiare, un banchetto di mezzeh; c’erano tahina, salsina di sesamo e baba ghanouj, un puré di melanzane con limone e parsley. Mangiammo il tutto con del pane caldo. I pomodori e i ravanelli in Libano erano appetitosi e molto grandi, al punto spesso di far sembrare piccolo il piatto. Furono serviti anche alcuni falafel, le polpettine di piselli secchi e verdure, leggermente unti. Curiosamente, venne portato anche un piatto di patatine accompagnato da una bottiglia di ketchup.
Intorno al tavolo c’erano circa una dozzina di uomini, tutti fra i venti e i trent’anni: i più non erano rasati e presentavano ciuffi ispidi di peluria; alcuni avevano barbe lunghe e fitte. Sembravano soldati. Mangiavano rumorosamente mentre lo Shaykh sgranocchiava quello che aveva davanti senza parlare. Cercai di apparire amichevole mormorando che la cena era gustosa; “Eccellente”, gli dissi, assestandomi qualche pacca sullo stomaco. Non mostrò il minimo segno d’interesse. Mi stava studiando con attenzione da sopra la montatura marrone vecchio stile dei suoi occhiali. Più tardi scoprii che ogni membro del clero hezbollah portava esattamente gli stessi occhiali, o almeno così sembrava. Non riuscivo a capire quanti anni potesse avere; all’inizio, per via del suo titolo e dei suoi modi pacati, lo giudicai sulla cinquantina. Era un po’ sovrappeso ma sulla sua barba non c’erano tracce di grigio. In seguito venni a sapere che aveva soltanto trentacinque anni.
Quindi arrivò il kebab di montone e l’uomo seduto di fianco a me insistette a riempire oltremisura il mio piatto. Io sorrisi e mangiai senza badare troppo alle buone maniere. Poi, improvvisamente, quando avevo ancora diversi kebab nel mio piatto, Shayk Muhammad picchiò una forchetta sul tavolo e cominciò a recitare quelli che credo fossero versetti del Corano. Poi si voltò verso di me.
Ripiegò i suoi occhiali e attaccò un lungo discorso sul colonialismo inglese, la dichiarazione di Balfour (che impegnava la Gran Bretagna alla creazione di uno stato ebraico nel 1918) e il modo in cui le potenze coloniali avevano spartito le terre musulmane dopo la Prima Guerra Mondiale. Mi chiese se sapevo chi era Woodrow Wilson. Io annuii. Quindi tirò fuori un blocco per gli appunti e lanciò un’occhiata a una citazione del Presidente americano sulla diplomazia anglofrancese dopo il collasso dell’Impero Ottomano. “Fu una lotta disgustosa tra Inghilterra e Francia per mettere le mani sulle terre arabe!”, strillò, parafrasando Wilson. Ricordò anche il ruolo dell’MI6 nel rovesciamento del leader iraniano eletto, Mohammed Mosaddeq, nel 1953. L’Inghilterra aveva provocato parecchi danni in questa parte del mondo, mi venne detto.
Ascoltai attentamente e annuii, incerto su quello che avrei dovuto dire. Ero lì per negoziare la possibilità di filmare i combattenti hezbollah in prima linea e questo genere di incontri poteva essere davvero stancante, specie se non c’era nemmeno una birra o un bicchiere di vino per andare avanti. Dopo avere usato ripetutamente la parola araba Inglizi per descrivermi, pensai di interrompere il fiume in piena dichiarando che non ero inglese.
Ero nato in Galles e a tre anni ero partito per gli Stati Uniti. In Medio Oriente non parlavo mai delle mie radici americane e il fatto che lavorassi per la BBC lasciava presumere che fossi inglese. Dissi allo Shaykh che ero gallese e, in modo scherzoso, gli spiegai che anche il Galles era stato colonizzato dagli inglesi per circa cinquecento anni, un’occupazione molto più lunga di quella degli israeliani o di chiunque altro sulle terre arabe.
Lo Shaykh Muhammad rimase in silenzio per un istante. “Avete una Resistenza?”, chiese, utilizzando il termine che gli hezbollah usano per descrivere se stessi. Risposi che alcuni nazionalisti gallesi avevano bruciato le case che alcune famiglie inglesi usavano come residenze per le vacanze in Galles.
Muhammad sembrò compiaciuto ma suggerì che non era abbastanza. Poi chiese se c’era un esercito repubblicano gallese sul modello dell’IRA. “Non ancora”, risposi. “Tuttavia dovrebbe essercene uno”. Adesso la conversazione era godibile e speravo potesse aiutare i nostri rapporti per i giorni seguenti. Ma poi Muhammad prese il mio biglietto da visita, che gli avevo consegnato in precedenza. Improvvisamente mi chiese: “Ha bisogno di assistenza militare?”

 

Tratto da A cena con i terroristi. Incontri con gli uomini più ricercati del mondo, di Phil Rees, Nuovi Mondi Media, 2006.