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La politica convergente delle aquile di USA e Israele

di Rita Di Leo - 26/07/2006

 
John Mearsheimer e Stephen Walt analizza l'influenza sulla politica estera statunitense dell'American-Israel Public Affairs Commettee, la lobby seconda per peso solo a quella dei pensionati

Nel conflitto libanese Israele è il samurai, pronto con la violenza, la più veloce possibile, a fare terra bruciata degli hezebollah affinché le grandi potenze e gli stati arabi alleati negozino lo status quo in Medio Oriente. Israele come samurai suscita molta voglia di capire come è arrivato a immedesimarsi in questo ruolo.

Foreign Policy ha appena pubblicato The Israel Lobby and US Foreign Policy di John Mearsheimer e Stephen Walt, un saggio che on line si era già attirato furiose e numerose repliche. Che cosa hanno scritto di così scandaloso i due esponenti del «realismo politico»? Essi analizzano come la lobby israeliana influenza la politica estera degli Stati Uniti in una direzione avversa all'interesse del paese, che ha portato a scelte come l'Iraq e oggi Beirut.
I due autori distinguono tra gli ebrei americani e l'élite che dirige la lobby a sostegno del governo di Israele. Riportano sondaggi che mostrano come la maggioranza degli ebrei americani sia propensa a fare concessioni ai palestinesi, e sia contro la guerra in Iraq più degli altri americani. Nulla di stupefacente, giacchè gli ebrei americani hanno sinora avuto un orientamento progressista e sono per tradizione i maggiori finanziatori del partito democratico. Peraltro gli ebrei americani scontano una lunga emarginazione da parte dell'establishment bianco-protestante repubblicano, un diffuso antisemitismo a livello popolare, e l'ostracismo della classe media. Per molti la soluzione è stata quella di americanizzare il nome, di mimetizzarsi.

Oggi è tutto cambiato e sembrerebbe grazie all'American-Israel Public Affairs Commettee, la famosa Aipac analizzata da Mearshmeir e Walt. La lobby è la seconda per influenza dopo quella dei pensionati, e la sua mission è di difendere Israele spronando l'America a imporsi sulla scena internazionale: più temibili saranno gli Stati Uniti e più sicura sarà Israele. La lobby è sostenuta dai cristiani evangelici e dai neoconservatori non ebrei, come Dick Cheney. La sua influenza della lobby viene dalla capacità di «controllare» il Congresso, come mostrano le sue richieste, sempre approvate dai membri convinti. La convinzione può essere spontanea, oppure acquistata se si tratta di politici eletti con il sostegno finanziario di enti e di fondazioni pro-Israele.
La politica medio-orientale degli Stati uniti è affidata a specialisti membri dell'Aipac (e di altre lobby minori) i quali scrivono note, discorsi e interventi per i legislatori e per l'esecutivo, con l'appoggio dei think tank a prescindere dalla loro collocazione politica: in ciò non c'è quasi differenza tra la liberal Brookings Institution e il «neocons» American Enterprise Institute.
Così è per i media che presentano come dogmi le ragioni del governo di Israele; ben rare sono le voci discordi. E quando certi avvenimenti israelo-palestinesi e oggi libanesi non possono essere occultati, è la lobby a fornirne una versione accettabile.

La lobby ha qualche difficoltà nell'ambiente universitario, ove ancora prevale l'approccio favorevole alla composizione del conflitto israelo-palestinese e alla prospettiva dei «due popoli-due Stati». La lobby si è mossa pertanto con finanziare cattedre e programmi sul Medio-Oriente. Vi è poi stata l'iniziativa di Daniel Pipes, lo specialista «neocons» della Casa Bianca, il quale ha aperto il sito web CampusWatch, dove gli studenti sono invitati a denunciare i professori ostili a Israele. Il sito è stato criticato come «maccartista», ma intanto non è più tabù mettere all'indice on line gli intellettuali critici, ebrei e non ebrei.
La guerra globale al terrore ha dato alla lobby la migliore opportunità di legittimazione. Negli ultimi 5 anni i suoi centomila membri sono infatti cresciuti del 60 per cento. Il 5 marzo di quest'anno, in cinquemila hanno partecipato alla Conferenza annuale della lobby, discutendo per tre giorni di politica estera con una identificazione ormai totale tra America e Israele. Erano presenti: la maggioranza dei senatori, un terzo del Congresso, cinquanta ambasciatori, e moltissimi funzionari pubblici ai massimi livelli. Nel discorso di chiusura, il vice-presidente Cheney ha ribadito che gli Stati Uniti non consentiranno mai all'Iran di avere il nucleare.

I due autori del saggio si chiedono quando e perché si è realizzato l'intreccio tra governi americano e israeliano, i cui interessi nazionali sono tutt'altro che convergenti. La risposta sta nella famosa «guerra dei 6 giorni» del 1967, quando i politici americani scoprirono Israele come la propria pedina sulla scena medio-orientale, all'epoca a mezzadria con l'Unione sovietica. La strepitosa affermazione dell'esercito israeliano compì il miracolo di trasformare in un sostegno convinto l'approccio sino allora equidistante tra gli arabi, ricchi di petrolio, e gli israeliani, ricchi solo di legami con gli ebrei di casa. Da Nixon antisemita dichiarato, a Clinton fervido amico, a Bush sponsor vero e proprio sono trascorsi trenta anni, e Israele ha ormai il posto d'onore alla Casa Bianca. Il paese riceve 3 miliardi di dollari in assistenza diretta come fosse un povero paese africano e non si sa quanti altri per l'acquisto di materiale bellico sosfisticato. Inoltre gode di un accesso alle fonti di intelligence che viene negato agli alleati nella Nato, e conta sul veto Usa alle risoluzioni dell'Onu ostili a Israele. Da parte sua, peraltro, Israele vende armi a potenziali rivali degli Usa senza temere ritorsioni, poiché gode dell'impunità senza precedenti, guadagnata con i trionfi militari.
Il momento magico è stato appunto la «guerra dei 6 giorni», che per gli ebrei in Israele e fuori di Israele è stato il riscatto dopo 2000 anni di ghetti e persecuzioni sino allo sterminio degli ebrei d'Europa. Il riscatto è stato bellico: d'allora una ininterrotta violenza statale ha segnato infatti la vita del paese. Stretta tra l'uso della forza e le armi della politica, l'élite israeliana si è fatta valere come uno stato giovane ansiosa di farsi accettare militarmente sulla scena internazionale. Come la Prussia di Federico il grande. La sua valenza militare ha ammaliato gli Stati Uniti e ha sconcertato il resto del mondo. L'Europa innanzitutto, a causa delle sue responsabilità verso i propri ebrei fuggiti in terra di Palestina. Da utopisti, artisti, mercanti, sarti e dottori, li ha visti trasformarsi in guerrieri impietosi e si è scoperta incapace di influenzare i guerrieri perché maturino in politici.

L'incapacità dell'Europa di indurre Israele a strategie politiche anziché militari si è acuita con l'identificazione tra l'America di Bush e l'Israele di Sharon. Nel loro saggio, Walt e Mearsheimer attribuiscono alla potenza dell'Aipac la maggiore responsabilità per il conflitto palestinese e la guerra all'Iraq, che hanno scoperchiato il vaso di Pandora del fondamentalismo islamico. E pertanto chiedono agli «alleati europei dell'America» di aiutare figli e nipoti degli ebrei europei a ritrovare la via della saggezza politica.