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Summit di Roma: Una forza di pace o «lavoro sporco»?

di Stefano Chiarini - 26/07/2006

 
Summit di Roma. Il rischio è l'invio di soldati per difendere i confini unilaterali (cioè le occupazioni militari) decisi solo da Israele

Il brutale attacco alla Striscia di Gaza, la dura repressione nella West Bank, e la nuova distruzione-invasione del Libano testimoniano, nella loro tragicità, il fallimento della politica israeliana dei «ritiri unilaterali» e del rifiuto da parte di Tel Aviv di una trattativa con le controparti arabe che porti ad uno scambio «pace contro territori». I punti centrali di questa politica, sostenuta con forza dall'Amministrazione Bush e in gran parte dalla Ue, sono stati: la fine del processo negoziale, il non riconoscimento dei legittimi rappresentanti del popolo palestinese, l'equiparazione della resistenza al terrorismo, l'impedire la nascita di un vero stato palestinese annettendo ad Israele gran parte della West Bank con Gerusalemme est e concentrando i palestinesi all'interno di «riserve indiane» circondate dal Muro, così come la destabilizzazione del regime siriano, l' insediamento a Beirut di un governo alleato degli Usa e il mantenimento del controllo delle fattorie di Sheba (enclave libanese alle pendici del monte Hermon) e soprattutto del Golan siriano. Altro che reazione alla cattura dei soldati!

Questa strategia di rifiuto della legalità internazionale (p. s. l'illegittimità dell'acquisizione di territori con la forza) e di imposizione manu militari delle proprie conquiste con la fissazione unilaterale di «confini temporanei», lede le aspirazioni e i legittimi diritti del popolo palestinese, del Libano e della Siria e non c'è da meravigliarsi che sia stata rifiutata da chi dovrebbe pagarne il prezzo e che non abbia portato alla fine delle operazioni militari della resistenza palestinese e di quella libanese. Di fronte a questo rifiuto il governo israeliano, di concerto con gli Usa, ha tentato di liquidare ogni opposizione ai suoi progetti annessionistici e cercato di risolvere un problema di tale portata con la forza delle armi. Questa tragica illusione è stata alimentata non solo dagli Stati uniti ma anche dalla stessa Europa e, in parte, anche dall'Onu, che hanno celebrato i ritiri unilaterali di Tel Aviv come se fossero passi verso la pace e che non hanno riconosciuto il legittimo governo palestinese. Mentre in Libano hanno sostenuto il tentativo di imporre il disarmo della resistenza libanese e palestinese sganciandolo da un ritiro israeliano dai territori occupati. Per realizzare tale processo Usa e Ue hanno puntato tutto sulla componente sunnita-saudita (la Hariri Inc. con il premier Fouad Siniora), sull'ultradestra cristiana filo-israeliana e sul leader druso Walid Jumblatt. Questa operazione è fallita per la forza degli Hezbollah nel parlamento e nel paese, per il rifiuto della componente sciita a tornare ai tempi dell'asse cristiano-sunnita che l'aveva sempre esclusa dal potere, per l'alleanza dell'ex generale cristiano-maronita Michel Aoun, sostenitore di un nazionalismo aconfessionale, con gli Hezbollah (che rappresentano il 40% della popolazione) e con importanti settori sunniti e drusi. A questo punto gli Usa hanno dato via libera ad Israele per distruggere la resistenza e far precipitare il paese in un nuovo conflitto dal quale dovrebbe emergere un governo collaborazionista disposto a rinunciare alla restituzione dei territori occupati da Israele e a collaborare a destabilizzare la Siria.
La parte politico-militare dell'operazione postbellica - dopo l'occupazione e la distruzione del Libano del sud da parte di Israele - potrebbe essere realizzata attraverso una sorta di mandato Nato-Ue-Usa-Saudita sul Libano e con l'invio di una forza militare che dovrebbe fare il «lavoro sporco» di distruggere la resistenza per conto di Tel Aviv. L'obiettivo finale sarebbe quello di arrivare ad una pace separata tra il Libano e Israele in modo da poter consolidare l'occupazione della West Bank e del Golan (e delle fattorie di Sheba) isolando sia i palestinesi che il governo di Damasco. Così non c'è da meravigliarsi che la proposta del governo italiano di una «forza di pace» (brutta copia del piano Usa del 1996) per difendere il confine israeliano, imporre il disarmo degli Hezbollah e sigillare i confini con Damasco, sia stata accolta con favore a Washington e a Tel Aviv.


La conferenza di Roma di domani, nella quale non vengono prese in considerazione le richieste della resistenza libanese e palestinese di un ritiro israeliano dai territori occupati e di uno scambio di prigionieri, ma neppure quelle siriane sul Golan, si presenta come un nuovo capitolo di quella politica «unilaterale» di imposizione ai presunti vinti dei diktat americani e israeliani già fallita nei mesi scorsi. Perché mai la resistenza palestinese e libanese - così come la Siria - dovrebbero rispettare i risultati di una trattativa che non li ha coinvolti? Com'è possibile definire «forza di pace» un contingente armato che abbia il compito di combattere gli Hezbollah? Come può un governo di centrosinistra mandare i nostri soldati a morire per difendere l'occupazione israeliana del Golan, delle fattorie di Sheba, della Cisgiordania, e parlare ancora di pace?