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Prima che sia troppo tardi: salvate Israele dalla sua follia nucleare

di David Hirst - 27/07/2006


dalla prefazione alla terza edizione di Senza Pace. Un secolo di conflitti in Medio Oriente, di David Hirst


Dove porterà questo progetto neoconservatore, israelo-americano per il Medio Oriente è impossibile prevederlo. Tutto ciò che si può dire per certo è che potrebbe facilmente dimostrarsi tanto disastroso nelle sue conseguenze per la regione, l'America e lo stesso Israele, quant'è assurdamente fazioso nelle motivazioni, fantasticamente ambizioso nella concezione e terribilmente rischioso in pratica. Se anche, per cominciare, ottenesse quello che, a giudizio di chi scrive, sarebbe un successo apparente e di breve durata, non metterebbe fine alla violenza in Medio Oriente. Anzi, è molto più probabile che, nel medio o lungo periodo, finisca per peggiorarla notevolmente. Per mettere davvero fine alla violenza, se ne devono strappare le radici e bonificare il terreno nocivo che la nutre.

È tardi, ma forse non troppo tardi, perché ciò possa accadere. Il compromesso storico – e storicamente generoso – che nel lontano 1988 Yasser Arafat aveva offerto per la spartizione della Palestina tra la sua popolazione indigena e i sionisti che ne avevano scacciata la maggior parte, ufficialmente è ancora valido. Ormai è assolutamente ovvio che senza una persuasione esterna Israele non l'accetterà mai e che quella persuasione può venire soltanto dall'ultimo vero amico di Israele nel mondo, gli Stati Uniti; che, affinché la persuasione funzioni, ci dev'essere in Israele una “riforma” o un “cambio di regime” tanto profondo quanto quello necessario dall'altra parte; e, infine, che è l'unico modo, in ultimo, per salvare Israele da se stesso. È una cosa che alcuni israeliani capiscono chiaramente e che si sforzano di far capire anche all'America e, forse più opportunamente, agli “amici di Israele” in America. “Da decenni”, si lamenta l'attivista Gila Svirsky, “noi del movimento pacifista israeliano lottiamo perché gli israeliani raggiungano un compromesso sulla questione che alimenta il conflitto con i palestinesi. E adesso il nostro lavoro per la pace è vanificato due volte: la prima da un premier convinto che la brutalità indurrà i palestinesi ad arrendersi e la seconda da un presidente americano che lo sostiene in questo. Bush è diventato una parte notevole del problema”. O, per dirla con le parole di Gideon Samet, un rubricista di Haaretz, “anziché calmare le acque e bilanciare le pressioni su Arafat con richieste a Sharon... lo zio Sam sta scrivendo un copione per un Occidente terrificante di buoni contro i cattivi... fino alla morte”.

Data la faziosità, effettivamente, è altamente improbabile che qualcosa cambi nell'immediato futuro. E non sarebbe, comunque, facile anche nelle circostanze più favorevoli. Soltanto il più risoluto dei presidenti potrebbe farcela. Conquistare la Casa Bianca alla propria causa è sempre stato uno degli obiettivi supremi del sionismo, un obiettivo in larga misura brillantemente conseguito negli anni. L'ultima volta che l'inquilino di Pennsylvania Avenue n.1600 ha assunto una posizione ferma contro Israele fu quando il Presidente Eisenhower impose il ritiro incondizionato dal Sinai che aveva invaso, con un atto deliberato di aggressione non provocata, nella guerra di Suez del 1956.

In realtà – dice Stephen Green nel suo libro “Taking Sides” – “si può affermare che Eisenhower fu l'ultimo presidente americano a dettare veramente la politica mediorientale americana” anziché “Israele e gli amici di Israele in America”.241 Nel quasi mezzo secolo trascorso da allora, è stato forse George Bush padre quello che si è maggiormente opposto a Israele in una disputa sulla garanzia di un prestito di 10 miliardi di dollari nel 1991; alcuni pensano che gli sia costata la rielezione per un secondo mandato.

Ma se non dovesse cambiare nulla in un futuro ragionevolmente prossimo, verrà il momento in cui non sarà più possibile che accada. La leadership palestinese potrebbe ritirare la sua offerta, avendo concluso, come molta della sua gente ha già fatto, che per quanto concilianti diventino, per quanto facciano altre concessioni, non sarà mai abbastanza per un avversario che sembra volere tutto. Gli esponenti del “fronte del rifiuto” di Hamas e/o quelli, tanto laici quanto religiosi, che la pensano come loro, potrebbero assumere il comando. L'intero, più vasto processo di pace arabo-israeliano avviato da Anwar Sadat, ritenuto ormai irreversibile, potrebbe dimostrarsi reversibile, dopo tutto; Camp David e il Wadi Araba (il trattato tra Israele e la Giordania del 1994) potrebbero crollare.

Nel qual caso potrebbe arrivare, e quasi certamente arriverà, il momento in cui il costo, per gli Stati Uniti, di continuare a sostenere il loro protetto infinitamente insistente in un conflitto interminabile contro una cerchia sempre più vasta di nemici sarà maggiore della loro volontà di sostenerlo e delle risorse necessarie a tale scopo. E molto probabilmente sarà un momento in cui Israele stesso si troverà in una situazione di pericolo grave e forse persino fatale per la sua esistenza.

E se così fosse, l'America probabilmente scoprirebbe anche qualcos'altro: che l'amico e alleato che ha soccorso in tutti questi anni non solo è uno stato coloniale, non solo è estremista per temperamento, razzista in pratica e sempre più fondamentalista nell'ideologia che lo spinge, ma è anche assolutamente capace di diventare uno stato “irrazionale” a spese dell'America quanto proprie. Essere una “risorsa strategica”, infatti, significa anche avere la possibilità di diventare, di proposito e deliberatamente, uno “svantaggio strategico”. È una cosa che i leader israeliani ricordano di tanto in tanto al loro benefattore americano; era, per esempio, il significato reale – o, come ha detto il rubricista israeliano Haim Baram, “il ricatto vero e proprio”242 – dietro il rabbioso riferimento alla Cecoslovacchia di Sharon e al suo monito che “da oggi in poi, possiamo contare solo su noi stessi”.

In effetti, la minaccia di una violenza cieca e irrazionale in reazione a pressioni politiche è stata la risposta istintiva dello stato ebraico sin dai suoi esordi. È stata anche autorevolmente documentata, negli anni Cinquanta, da una colomba, il premier Moshe Sharett, il quale scriveva del proprio ministro della difesa Pinhas Lavon che questi “predicava costantemente atti di follia” o “la furia cieca” nel caso in cui Israele fosse stato offeso. Nel suo libro “The Fateful Triangle”, Noam Chomsky sostiene che il bersaglio reale della bomba atomica israeliana siano gli Stati Uniti. Che Israele cercasse effettivamente di premere in questo modo sugli Stati Uniti lo presumevano anche i francesi quando, in una collaborazione tenuta rigorosamente nascosta agli americani, fornirono la prima indispensabile assistenza al progetto israeliano di divenire una potenza nucleare. “Pensavamo”, disse Francis Perrin, Alto Commissario dell'Agenzia per l'Energia Atomica francese all'epoca, “che la bomba israeliana fosse diretta contro gli americani, non per essere lanciata contro l'America, ma per dir loro 'se non volete aiutarci in una situazione critica, vi costringeremo a farlo, altrimenti ricorreremo alla nostra bomba atomica'”. Quando, nella guerra del 1973, Israele sguainò la sua spada nucleare, non fu per spaventare gli arabi, bensì per obbligare gli Stati Uniti a intervenire con un massiccio rifornimento di emergenza di armi convenzionali per non rischiare un colpo catastrofico, inflitto da Israele, ai suoi più vasti interessi nella regione. Senza una pace “giusta, globale e duratura” – vanamente cercata dalla diplomazia mediorientale per oltre mezzo secolo – che può realizzarsi soltanto grazie all'America, Israele rimarrà almeno quanto l'Iran, ma anche più a lungo, un candidato al ruolo di stato che può fare un uso sconsiderato dalle propria potenza nucleare.


L'Iran non potrà mai essere minacciato nella sua stessa esistenza, Israele invece sì. In effetti, nonostante la sua enorme superiorità militare sui palestinesi e su ogni possibile alleanza di stati arabi, una simile minaccia potrebbe persino scaturire dall'attuale Intifada. Questa, almeno, è l'opinione pessimistica di Martin van Creveld, noto docente di storia militare all'Università ebraica di Gerusalemme. Se dovesse protrarsi a lungo, ha detto, “il governo israeliano [potrebbe] perdere il controllo del popolo... In campagne come questa le forze anti-terrorismo perdono perché non riescono a vincere e i ribelli vincono perché riescono a non perdere. Considero inevitabile la disfatta totale di Israele. Ciò significherebbe il crollo dello stato e della società israeliani. Distruggeremmo noi stessi”. E in questa situazione, proseguiva, sempre più israeliani finivano per considerare il “trasferimento” dei palestinesi come l'unica salvezza; il ricorso a esso stava divenendo sempre “più probabile... ogni giorno che passa”. Sharon “vuole un'escalation del conflitto perché sa di non poter riuscire in nessun altro modo”. Ma il mondo permetterebbe una simile pulizia etnica?

“Dipende da chi la fa e quanto rapidamente. Possediamo varie centinaia di testate e razzi nucleari, che possiamo lanciare in ogni direzione, forse persino su Roma. La maggior parte delle capitali europee sono possibili bersagli delle nostre forze aeree... Permettetemi di citare il generale Moshe Dayan: 'Israele dev'essere come un cane rabbioso, troppo pericoloso per darsi pensiero'. Ritengo che a questo punto non ci sia più speranza. Dovremo cercare di evitare che si arrivi a quel punto, se è ancora possibile. Le nostre forze armate, però, non sono al trentesimo posto nel mondo, bensì al secondo o al terzo. Abbiamo la capacità di trascinare il mondo intero nella nostra rovina. E vi assicuro che accadrà, prima che Israele affondi”. Nella sua prima edizione, “Senza Pace” si concludeva con una citazione dal Jerusalem Post che metteva in guardia dal secondo “Olocausto” che un giorno avrebbe potuto coinvolgere i nemici d'Israele quanto Israele stesso. Chiaramente la citazione è altrettanto pertinente oggi, venticinque anni dopo. E “l'inno di speranza”, i cui “primi accordi” – a detta di quel recensore – Anwar Sadat aveva appena fatto risuonare con il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, rimane un inno di speranza delusa. E continuerà a esserlo fintantoché gli Stati Uniti non si sveglieranno del tutto da quella ottusa infatuazione che è sempre stata in contrasto con la maggior parte dei “valori” che presumono di incarnare, fin da quando George Washington ammoniva contro la “parzialità eccessiva” nei confronti di “un'unica nazione straniera”, contro “l'immaginario interesse comune” che ne scaturiva e “l'opportunità” che offriva ai “cittadini di tradire o sacrificare gli interessi del proprio paese nell'illusione di perseguire con lodevole zelo il bene comune”.

 

Brano tratto da Senza Pace. Un secolo di conflitti in Medio Oriente, di David Hirst.