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Il Volto di Qana (XI)

di Miguel Martinez - 27/07/2006

 

Sembra una divagazione, e poi non sapete ancora cosa sia il Volto di Qana. Ma nei prossimo post, vedrete perché non lo è.

Sul blog Voci fuori dal coro, Andrea Franzoni ha scritto qualcosa che mi ha fatto riflettere:

Fra i tanti canali che abbiamo a disposizione per assistere ai massacri di libanesi e palestinesi di questi giorni ce ne sono alcuni che si differenziano dagli altri che, sebbene numericamente siano tanti, ripetono tutti lo stesso pensiero unico.

Alcuni blog, in particolare, svelano un punto di vista prezioso su questo conflitto e, spesso, sull'intera contrapposizione occidente-islam. Il pregio di questi blog è quello di essere curati da persone, oltre che colte e volonterose, cosmopolite.

Da questi blog, in questi giorni, sto prendendo diversi post anche per questo mio blog-raccoglitore. Ne cito alcuni: Salamelik (greco-egiziano trapiantato a Torino, collaboratore di testate nazionali), Haramlik (italiana cresciuta in Spagna, vive ora in Egitto) e Kelebek (messicano con madre statunitense, cresciuto in Italia e in Egitto, traduttore e interprete di lingue mediorientali). Teneteli d'occhio, anche se qui saranno sempre di casa.

Ringrazio Andrea dei complimenti (la realtà è più banale, ho solo studiato lingue mediorientali, ma lavoro con l'inglese), però il punto è un altro.

Franzoni dice cosmopolita. Questo termine è tradizionalmente legato agli ebrei.

Anche le brevi note che Franzoni associa a ciascuno dei blogger fanno venire in mente le storie di tanti ebrei dell'Ottocento e della prima metà del Novecento.

Proprio in questi giorni sto leggendo una bella biografia [1] di quel misterioso personaggio degli anni Venti e Trenta che scriveva sotto il nome di Essad Bey, i cui libri sull'Oriente e sulla Russia si trovano su tante bancarelle. Non sono opere straordinariamente profonde, ma sono affascinanti perché si coglie uno sguardo che è insieme affettuoso e distaccato, amante degli antichi mondi che il capitalismo e le rivoluzioni stanno spazzando via, ma non legato ad alcun culto identitario.

Leggere Essad Bey mi fa sempre venire in mente la volta che un gruppo di tifosi mi fece entrare gratuitamente allo stadio per il derby Roma-Lazio. I tifosi sono l'unica cosa che mi piace del calcio, ed ero felicissimo di stare con loro, finché uno di loro, perplesso, mi chiese perché non gridavo e saltavo, ma mi limitavo a guardarli. Non avrei potuto fare diversamente, perché non avrei potuto condividere istintivamente la loro storia: potevo solo osservarla, con rispetto, da fuori. Sono con voi, noto di voi cose che forse per l'abitudine vi sfuggono, ma non sono come voi.

Tom Reiss, l'autore della biografia di Essad Bey, ha scoperto che il suo oggetto di studio era in realtà nato sotto il nome di Lev Nussimbaum in una ricca famiglia di Baku, ebreo - ma decisamente laico - in una città largamente russa in terra islamica. Essad Bey/Naussimbaum aveva vissuto l'avvento di Lenin a Baku, il crollo dell'impero ottomano a Costantinopoli, la grande emigrazione russa a Parigi, gli ultimi strascichi rivoluzionari a Berlino - dove si convertì all'Islam - , il sorgere del sionismo romantico, l'avvento del nazismo, e sarebbe morto a Positano, sepolto sotto l'unica lapide islamica del cimitero (ovviamente in terra non consacrata).

Tutto questo ci ricorda tanti altri personaggi di quegli anni, molto spesso di origine ebraica. Il libro che sto leggendo è che sottolinea quanti di questi si siano innamorati dell'Islam e del mondo islamico (curiosiamente non cita uno dei più importanti studiosi dell'Islam, Emmanuel Goldziher, studente di al-Azhar, musulmano nell'anima, di mestiere custode di una povera sinagoga a Budapest).

Eppure tutto questo è molto lontano dalla cultura tradizionale ebraica, e le persone come Essad Bey non hanno quasi mai parlato "come ebrei". Per quasi tutti, l'ebraismo era solo una delle loro molte e cangevoli identità.

Forse più che di ebraismo, si tratta di un modo di essere cosmopolita, il prodotto di certi imperi tolleranti, come quello di Alessandro Magno, quello ottomano o quello austroungarico. Un cosmopolitismo che ha potuto manifestarsi solo per una straordinaria coincidenza.

Primo, infatti, ci voleva l'esistenza di una comunità diffusa in molti paesi, benestante rispetto alla media di coloro chi li circondavano, ma che non si identificava nei luoghi comuni dei paesi in cui si trovava.

Secondo, ci voleva che quella comunità venisse sciolta attraverso la cosiddetta emancipazione, lasciando liberi centinaia di migliaia di individui, che erano dentro innumerevoli mondi, ma anche fuori, capaci di guardarli tutti criticamente. Assieme ai cosmopoliti in questo senso si emanciparono anche trafficanti e illusionisti, come è naturale in qualunque comunità: ma non dimentichiamo che, se furono persone di origine ebraica a creare l'industria culturale statunitense, furono altre persone di origine ebraica come Horckheimer e Adorno a portare a quell'industria la critica più radicale.

Questo mondo cosmopolita finisce con il doppio colpo delle stragi naziste e del rifiuto radicale del cosmopolitismo che è il sionismo reale (ben diverso da certi sogni dei suoi fondatori). Non si può essere aperti, curiosi, affezionati eppure disincantati osservatori di tanti mondi, quando si vive nel culto ossessivo di sangue e suolo, ergendo attorno a sé muri fisici e psicologici, scrivendo con un alfabeto e una lingua artificiale che isolano da tutto il resto dell'umanità, e pensando unicamente a come combattere i propri vicini.

Gli abitanti d'Israele hanno una provenienza cosmopolita e un alto livello di istruzione. Eppure, il sionismo reale ha prodotto ottimi ingenieri elettronici, brillanti addestratori militari, ma una cultura che non è più interessante di quella di qualunque altro piccolo paese.

Basta pensare al livello infimo del sionismo con cui ci possiamo scontrare in rete. Il sionista medio da web è tenace, onnipresente, pignolo, arriva come un rappresentante della Folletto con la sua cartellina di slogan prefabbricati, di foto del Mufti di Gerusalemme, la sua "e che mi dici del palestinese che nel 1965 scrisse che gli ebrei hanno la coda", il suo complotto islamonazicomunista contro l'Occidente e quant'altro.

Ma la capacità di discutere, di chiedersi il senso delle cose, è praticamente nulla.

Forse il ruolo dei cosmopoliti - che è il contrario esatto della devastazione globalizzante - sarà recitato da altri, figli questa volta non di uno specifico gruppo etnico, ma del generale sommovimento del mondo.




[1] Tom Reiss, L'orientalista. L'ebreo che volle essere un principe musulmano, Garzanti, Milano, 2005.