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Perfide sorelle?

di Francesco Lamendola - 20/12/2013




 

Bram Dijkstra è il classico intellettuale americano “liberal” e progressista, tanto bene intenzionato quanto politicamente corretto; professore di Letterature comparate alla Universiy of California di San Diego, si è concentrato sul ruolo svolto dalle immagini sessuali dell’Occidente moderno nel determinare gli orientamenti culturali, politici e sociali.

Emblematico è il suo voluminoso saggio «Perfide sorelle» (titolo originale: «Evil Sisters», 1996; traduzione italiana di M. Premoli, Milano, Garzanti, 1997), nel quale sostiene che l’immaginario erotico maschile della tarda modernità si è alimentato di un mito antifemminile e razzista volto a demonizzare tanto le donne quanto le razze “inferiori”, per giustificare la supremazia della razza bianca e, all’interno di essa, del maschio “ariano”.

Niente di originale in una tesi del genere: sono posizioni assai note, di cui abbiamo sentito parlare già da parecchi autori, anche se, di solito, ciascuno di essi sembra convinto di meritare il primato in fatto di originalità. Quel che è notevole in questo libro del Dijkstra, oltre alla poderosa mole degli autori e dei documenti citati, è lo sforzo notevolissimo, quasi titanico, di allargare il discorso il più possibile, fino a includere nel calderone dei “cattivi”, cioè dei teorici dell’imperialismo sessista e razzista, un numero sconfinato di esponenti della cultura moderna, da Freud a Jung (ma soprattutto Jung), da Hitler a Batman (sì, non è un errore di stampa: abbiamo scritto proprio Batman), da Spengler a Bram Stoker, dal pittore Philip Burne-Jones (col suo celeberrimo quadro “Il vampiro”), a Lothrop Stoddard: l’elenco sarebbe lunghissimo e potrebbe seguitare per pagine e pagine, spaziando dalla filosofia all’arte, dalla psicanalisi al fumetto.

Colpisce, inoltre, la disinvoltura, per non dire la faziosità, con cui l’autore accosta nomi diversi, suggerendo relazioni organiche fra personaggi che hanno avuto la ventura di vivere e operare nello stesso torno di tempo: come quando dice che Jung pubblicò il tale studio un anno prima, o un anno dopo, che Hitler facesse la tal cosa; una tecnica di sottile manipolazione dei fatti, mediante la quale si potrebbe suggerire praticamente qualunque cosa a carico di qualsiasi essere umano, per esempio che Gandhi sia stato un nazista o che Erasmo da Rotterdam sia stato un mandante morale dei “conquistadores” che distrussero le civiltà precolombiane.

La tesi di Dijkstra si può sintetizzare in pochissime righe (anche se a lui ne occorrono più di mezzo migliaio): a partire dai primi anni del XX secolo, i maschi occidentali vollero tenere sottomessa la donna e schiavizzare il resto del mondo, ma avevano bisogno di un alibi morale: lo trovarono inventandosi la leggenda della donna crudele e perversa, della donna dalla vagina dentata che attenta alla virilità dell’uomo per il puro piacere di umiliarlo e distruggerlo; e inventando anche la leggenda delle razze “inferiori” che complottano nell’ombra per sovvertire la civiltà, vanto dell’uomo bianco, imbastardendola, meticciandola e, qualora ciò non sia sufficiente, preparandosi a ad aggredirla fisicamente (egli si sofferma, ad esempio, sulle voci circa le trame giapponesi nel Messico, trame che, nel 1914, erano finalizzate a preparare una invasione di Indiani, di Negri e di Asiatici contro il Sud-ovest degli Stati Uniti d’America: voce diffusa da Lothrop Stoddard e ripresa da Oswald Spengler).

Il bello è che si tratta di una tesi e di un quadro storico che possiedono alcuni elementi di veridicità, il che rende l’insieme della operazione culturale condotta da intellettuali come Dijkstra – giacché egli è in buona compagnia - ancor più sottilmente pericolosa di certi “pamphlet” più rozzamente e ingenuamente costruiti. Qui, infatti, è più difficile cogliere l’arbitrarietà o la malafede che sono sottese all’esposizione e alle conclusioni dell’Autore, perché molti argomenti sono sostenuti non solo da una mole imponente di riferimenti culturali assai precisi, ma anche da una prospettiva sociologica e culturale in una certa misura plausibile, se non incontrovertibilmente vera. Per esempio, nessuno potrebbe negare che taluni scrittori, taluni artisti, taluni psicologi e taluni filosofi, specialmente tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX, abbiamo effettivamente mostrato i tratti ideologici descritti da Dijkstra: misoginia, razzismo, paura ossessiva del “diverso” e, nello stesso tempo, pretesa di portare ovunque la propria civiltà “superiore”.

Il fatto è che egli non compie il benché minimo sforzo per contestualizzarli obiettivamente, mostrando, cioè, anche il rovescio della medaglia, e ciò facendosi forte, in modo sleale, di quel complesso di colpa per cui l’Occidente, dopo il 1945, non osa sostenere apertamente che non tutto il magma ideologico che poi andò a confluire e a solidificarsi, in modo aberrante, nelle ideologie totalitarie e razziste culminate nel genocidio degli Ebrei, era, in se stesso, infondato o irragionevole; che il malessere per il modo in cui la modernità stava avanzando con passo spietato, instaurando il dominio della macchina, della finanza, del totalitarismo e del genocidio di classe (ma di quest’ultimo, Dijkstra non parla) era autentico e giustificato; che non basta accusare qualcuno di anti-femminismo per addossargli anche la correità nel progetto genocida hitleriano; e che la specificità individuale, in nome della quale Dijkstra conduce la sua battaglia civile – perché egli non è uno storico spassionato, ma uno storico militante del costume e delle idee – non trova affatto la sua garanzia nel mondo multietnico e multiculturale del quale fa l’apologia, ma vi trova, semmai, il suo definito appiattimento e la sua irreversibile sepoltura.

È curioso: Dijkstra vorrebbe convincere i suoi lettori del fatto che vedere con timore l’avanzata della donna “vampiro” significa essere moralmente corresponsabili dell’Olocausto, e che l’unica maniera di evitare che simili tragedie tornino a ripetersi, è quella di riconoscere – sono parole sue, quasi alla lettera – che vi sono tanti sessi quanti sono gli esseri umani e che il mondo sarà tanto più libero, pacifico e armonioso, quanto più verranno abolite e dimenticate le differenze di genere, di stirpe, di identità collettiva. È curioso, perché si vorrebbe ottenere il riconoscimento al diritto della massima “differenza” individuale, bollando però come mostruoso, infausto e potenzialmente genocida il fatto che le identità collettive di genere e di stirpe vengano viste e sostenute come fattori essenziali della civiltà.

In altre parole: per Dijkstra, va bene che il singolo individuo si dichiari diverso da tutti gli altri, unico e irripetibile, e che ci tenga a difendere in ogni modo la propria essenza specifica; ma non va affatto bene, anzi è pericoloso e quasi criminale, che si voglia riconoscere un valore e che si pretenda di difendere la stabilità dell’essenza di genere (maschile e femminile) e di stirpe (l’ appartenenza ad un determinato popolo, ad una determinata cultura, ad una determinata civiltà). Del resto, sono tutti così terribilmente prevedibili, questi intellettuali “liberal” anglosassoni: dall’alto della loro civiltà democratica, guardano con estremo sospetto, per non dire con compatimento misto a disprezzo, un continente – quello europeo – che si è macchiato di tanti crimini contro l’umanità, quanti ne hanno potuti commettere i nazisti nei pochi anni in cui essi sono stati al potere in Germania e hanno dominato l’Europa.

Ai crimini anglosassoni – lo sterminio degli Amerindi, le bombe atomiche sul Giappone, la guerra chimica e batteriologica in Vietnam – non si accenna; si dice solo che le forze da cui ha tratto la sua capacità di suggestione il nazismo, esistevano anche negli Stati Uniti; ma lì, “per fortuna”, non c’era una rigida identità spirituale, né la cultura dell’uniformità: il mondo anglosassone si sarebbe salvato dal nazismo e dalla tentazione del genocidio contro le  minoranze, perché aveva in se stesso gli anticorpi della multietnicità e della multiculturalità, rappresentati da milioni di immigrati europei che avevano varcato l’Atlantico in cerca di libertà e di rispetto per le loro specificità individuali. Insomma, il solito sermone auto-celebrativo anglosassone.

Quella di Bram Dijkstra è la stessa filosofia che spinge, oggi, Barack Obama – e ieri Zapatero, ora anche Hollande e Cameron - a porre la questione del riconoscimento del matrimonio gay come la più urgente e decisiva, da affrontare senza perdere altro tempo, perché non si può ulteriormente tollerare una così grave violazione del diritto di ciascuno di esercitare la propria libertà nell’ambito dei sacrosanti diritti “naturali”; e che spinge l’Alta Corte europea a condannare un Paese come l’Italia, il quale, oltre a salvare, accogliere, sfamare ogni giorno, da anni e anni, qualunque immigrato clandestino, magari senza documenti e, a maggior ragione, senza certificato medico e, dunque, ogni possibile criminale ed ogni  possibile portatore di gravi malattie infettive, cerca di porre un sia pur minimo freno all’invasione e si dota di strumenti legislativi che gli consentano di contenerla e di limitarla.

La parte più convincente dell’ampio saggio di Dijkstra è quella in cui egli suggerisce un legame fra isterismo sessista e razzista e il dilagare di film, programmi televisivi, romanzi e fumetti il cui motivo dominante è la lotta necessaria, perché difensiva, contro legioni di donne vampiro, di alieni cattivi, di mostri spaziali o soprannaturali, il tutto in un’orgia di violenza paranoica che mal nasconde la paura che la società ha di se stessa, delle proprie contraddizioni e ambiguità, delle proprie nevrosi e insicurezze (ad esempio, l’ossessione della propria omosessualità latente da parte del puro maschio “ariano”, esteriormente così sicuro di sé, della propria forza, della propria intrinseca superiorità su ogni altro tipo umano).

Anche qui, però, la tesi aprioristica e militante dell’Autore lo spinge ad andare molto oltre il legittimo bersaglio, e a fraintendere gravemente la natura delle sue stesse conclusioni. Invece di rendersi conto che il pericolo dell’accecamento e del delirio di onnipotenza nasce proprio dal quella cultura di massa, e più specificamente massmediatica, di cui la società statunitense è oggi il massimo esempio, egli si ostina a vedere nella società americana una società fondamentalmente “sana”, proprio grazie al “melting-pot” (letteralmente: crogiolo razziale), ossia alla progressiva scomparsa delle identità etniche e culturali; e viceversa a vedere nella società europea, ancora “colpevolmente” legata al proprio passato di ordine, di certezze, di culture distinte e gelosamente preservate, il modello negativo che deve essere superato - ovvero, in parole povere, prima criminalizzato (cioè distrutto moralmente), poi distrutto materialmente. Proprio quello che sta avvenendo oggi, con la benedizioni di quei poteri oscuri internazionali – l’alta finanza, le borse, le multinazionali, le agenzie di rating, le società segrete o semi-segrete sul tipo degli “Illuminati” – le quali puntano, a tappe forzate, all’instaurazione di un super-governo mondiale mediante il quale esercitare il totalitarismo democratico sino alle più estreme conseguenze.

È significativo quanto dice l’Autore a conclusione del suo saggio (Op. cit., pp. 513-515):

 

«Tutti noi, uomini E donne - e ogni altra sfumatura del concetto di sé tra questi due poli – possiamo sottrarci alle immagini feticistiche  del sesso che ci circondano soltanto rifiutandoci di accettare il richiamo massmediatico dello stereotipo della “sorella malvagia”. Fantasticare su streghe e demoni, vampiri e lupi mannari, su marte, Venere e sull’uomo delle caverne dentro di noi, significa perpetuare le fantasie di un mondo che anela alla guerra, significa continuare a essere complici della feticizzazione degli “altri” come “malvagi”, “stranieri” e “inferiori”. Fare questo significa considerare  la diversità una malattia.

Il male sta in agguato ALL’INTERNO di ogni configurazione sociale. È un prodotto del nostro concetto di noi stesi, non il risultato della “predestinazione”. I raggruppamenti sono politici; il sesso, la razza,e la classe so accessori fisiologici  eticamente e moralmente irrilevanti. Ma i media fanno il possibile per alimentare il nostro desiderio di credere il contrario. Infatti, trasformando il conflitto di sesso e razza nella “realtà virtuale” degli spettatori odierni, hanno efficacemente istituzionalizzato le immagini del “razzismo scientifico” sviluppatesi durante i primi anni di questo secolo. […]

Finzioni di rigenerazione personale attraverso la violenza organizzano tuttora il nostro mondo. L’omogeneizzazione dei media visivi e il rapido declino della nostra capacità di lettura  inducono a credere che a molti di noi non sarà mai data l’opportunità di capire che le immagini che ci forniscono i media NON fanno parte della natura umana, NON sono una semplice espressione dei nostri “ISTINTI BASILARI”, ma un rafforzamento delle fantasie sociali di conquista del primo Novecento. I film, i video musicali e la maggior parte dei romanzi di oggi esaltano ancora il “piacere” della sottomissione estatica o della aggressione sadica. Pochi sembrano capire che l’esaltazione di simili rapporti  non rappresenta una liberazione sessuale ma un’abietta resa ai valori della separazione dualistica  e all’ideologia della paura.  […]

Qualunque “ordine formale” imposto alla nostra immaginazione sociale non può essere che profondamente repressivo. Ci siamo illusi che gli eccessi nazisti dell’inizio del XX secolo fossero poco più che una spiacevole “aberrazione” nell’ordinario “progresso” della società. Ma la mentalità genocida era un prodotto di idee che continuano a governare il nostro senso dell’io. Il mostro del nazismo si aggira ancora tra noi - perché le funzioni del dualismo sessuale  che gli permisero di conquistare  il potere ottenebrano ancora le nostre vite.»

 

Con siffatto terrorismo psicologico e con una simile teoria della “guerra infinita” contro il nazismo, mostro ognora risorgente dalle mille teste, Dijkstra ci ammonisce a non considerare come rilevanti le differenze di genere e nemmeno quelle etniche, se non vogliamo essere arruolati, magari a nostra insaputa, nelle legioni demoniache che stanno tramando nell’ombra qualche nuovo orrore, qualche nuova crociata o qualche nuovo genocidio.

Dijkstra se la prende con il dio denaro e gli imputa la responsabilità di questa cultura della violenza e della paura: e sta bene, anzi benissimo; ma non lo sfiora l’idea che essa non nasca, come lui mostra di credere, dal progetto di distruggere le differenze individuali, bensì da quello distruggere le differenze collettive: le quali potrebbero anche non essere così totalmente, così irrevocabilmente artificiali come lui mostra di credere.

Il suo ragionamento ha qualcosa di puritano, di dogmatico, di manicheo: o con me, o contro di me; o per il progresso, cioè per il relativismo e il soggettivismo più spinti, oppure per la reazione, anzi per il genocidio, cioè per la tradizione e per l’identità di genere o quella collettiva. E non c’è dubbio da che parte voglia collocarsi chi intende combattere la buona battaglia.

Il suo ragionamento, inoltre, ha qualcosa di schematico, di puritano, di lugubre: in esso non c’è posto, non diciamo per il sorriso e per l’ironia, ma anche soltanto per il libero confronto fra posizioni diverse. Per esempio: dove metterebbe, Dijkstra, una donna – e abbiamo ragione di credere che ce ne siano in giro parecchie – alla quale piace sottomettersi al suo uomo; dove lo metterebbe un extra-europeo che abbia l’indelicatezza di voler imparare qualche cosa dalla civiltà occidentale, sentina di tutti i vizi e incubatrice di tutti gli imperialismi, gli sciovinismi e i razzismi? Probabilmente li metterebbe entrambi a bruciare nel fuoco dell’Inferno, perché essi costituirebbero la testimonianza vivente del fatto che i suoi ragionamenti sono tutti a senso unico e, pertanto, non tollerano alcuna forma di obiezione o di contraddittorio. Come si fa a contraddire, del resto, uno che si esprime come Dijkstra, se non si ha voglia di passare per dei fiancheggiatori del maschilismo, del razzismo e del genocidio; se non si vuol salire sulla gogna destinata ai malvagi propagatori di una cultura di morte?

È significativo che Dijkstra trascuri così disinvoltamente di spingersi un po’ più indietro a quei primi anni del XX secolo, nei quali, a suo dire, l’Occidente e il mondo hanno incubato la terribile malattia che ci ha descritto, la lebbra dell’anima sempre pronta ad erompere in maniera virulenta e assassina.

Davvero non si rende conto che, al principio del XX secolo, non è nata la malattia dell’Occidente, ma è nata la reazione – spesso patologica anch’essa, su questo non c’è alcun dubbio, e talvolta criminale - alla malattia della modernità, cioè all’appiattimento, alla omologazione, alla mercificazione non solo degli individui, ma anche dei popoli – sì, anche dei popoli: vedi oggi il caso dei popoli europei della zona “debole”, sbranati in nome della formula magica dei “conti in ordine” -, allo strapotere di chi manovra le leve della speculazione finanziaria internazionale e, attraverso di essa, esercita anche il controllo quasi assoluto dei mezzi d’informazione?