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Chi spara sulla Croce Rossa?

di Robert Fisk - 30/07/2006

 
Sarebbe dovuto essere, per quei coraggiosi rappresentanti della Croce Rossa Internazionale, un giro di routine attraverso le zone più a rischio del Libano. A capo della nostra carovana di due auto era Sylvie Thoral, 38 anni, francese dagli occhi di acciaio e capelli corvini. Gli israeliani erano informati del nostro passaggio, e ci avevano dato il via libera. Non ci potevamo credere.

Fidarsi delle forze armate israeliane, che violano quasi quotidianamente il dettato delle Convenzioni di Ginevra, è un vero azzardo. I loro aerei hanno già attaccato, in barba a ogni convenzione internazionale, la sede della
protezione civile di Tiro, uccidendo 20 profughi. Hanno attaccato due volte convogli di fuggiaschi, quella stessa gente cui avevano ordinato di abbandonare i propri villaggi. Hanno già colpito due ambulanze della Croce Rossa libanese, a Qana.

Sono stati uccisi i tre feriti che vi venivano trasportati e ferito tutto l equipaggio medico in aperta e apparentemente deliberata violazione dell articolo 24, Capitolo IV delle Convenzioni di Ginevra del 1949.
Ciò nonostante, la Croce Rossa Internazionale è costretta suo malgrado a fidarsi dell’apparato militare israeliano. Così è successo che dal Libano meridionale ci siamo lanciati a tutta velocità alla volta di Jezzine, passando sotto le rovine del castello crociato di Beaufort, attraversando i quartieri solitari e semidistrutti di Nabatiyeh, superando crateri di bombe e muri sfondati a destra e a manca.

Abbiamo guadato il fiume Litani al sibilo penetrante dei motori di aerei; un occhio al percorso, l’altro rivolto al cielo. Sylvie e i suoi compagni, il francese Christophe Grange e la svizzera Claire Gasser, l’algerino Saidi Hachemi e i due colleghi libanesi Beshara Hanna e Edmund Khoury, viaggiavano in silenzio. L’autostrada a nord di Nabatiyeh era costellata di crateri recenti prodotti dall’attacco sferrato solo poche ore prima, avremmo dovuto pensarci prima di partire. Il fondo stradale era cosparso di frammenti di equipaggiamento militare, di resti di grossi blocchi di cemento. Nonostante ciò, Tel Aviv ci aveva dato l’ambitissimo via libera .
Le squadre della Croce Rossa Internazionale sono forse le uniche ad offrire salvezza lungo le grosse vie di comunicazione del Libano meridionale; e la loro reticenza nell’esprimere critiche all’operato tanto degli israeliani che di Hezbollah, è paragonabile al silenzio degli angeli, tanto più perché ciò cui vengono a contatto con il loro lavoro ha sulla psiche un effetto non meno devastante di un’incursione aerea.

Soltanto un giorno prima si erano recati al villaggio di Aiteroun, a un miglio scarso dal luogo del catastrofico attacco militare israeliano di Bint Jbeil. Via via che attraversavano i villaggi abbandonati, gli capitava di intravedere qua e là una donna, un bambino, qualche vecchio, tutti accomunati da una voglia disperata di fuggire da quei luoghi. Se ne sono contati circa 3.000 e Sylvie Thoral aveva cercato di ottenere la costituzione di un convoglio per l’evacuazione.

Come risposta all’uccisione ad opera di Hezbollah di tre militari israeliani e alla cattura di altri due, Israele promette ai libanesi una punizione ben più pesante di quella fin qui inferta. Sul versante libanese si contano ormai ben oltre 600 vittime civili. Per Aiteroun non c’è via libera. «La gente del luogo ci supplicava con le lacrime agli occhi di portarla via, ma non eravamo in grado di accontentarli,» ci ha raccontato Saidi con voce rotta dalla commozione. Gli operatori della Croce Rossa Internazionale in Libano non sono dotati di elmetti né di giubbotti antiproiettile: sono fieri di non essere un corpo militarizzato, e vi assicuro che viaggiare con loro nelle medesime condizioni è un esperienza che lascia il segno.

A differenza degli israeliani e dei loro antagonisti Hezbollah, vivono ed operano nell’incondizionato rispetto delle Convenzioni di Ginevra. Eppure l’altro ieri, appena arrivati alla cittadina di Jarjooaa, dalla Croce Rossa Internazionale di Beirut ci è arrivato l’ordine di tornare indietro. Gli israeliani stavano bombardando la strada che porta a nord, per cui abbiamo fatto dietrofront e con la dovuta cautela abbiamo preso la strada che dalle alture scende ad Arab Selim. Non c’era anima viva lungo l’arteria. Eravamo quasi giunti in fondo alla piccola valle, e io stavo pensando alla conversazione telefonica appena avuta con Patrick Cockburn, corrispondente dell’Independent, che aveva da poco lasciato Baghdad. I nostri angeli custodi erano talmente oberati di lavoro, mi aveva detto, che c’era davvero il rischio che decidessero di scioperare. Tutto ad un tratto, nel cielo dinanzi a noi si sono alzate cinque colonne di scuro fumo: un aereo israeliano aveva sganciato una bomba che era esplosa con gran fracasso ad un’ottantina di metri da noi. Se avessimo viaggiato soltanto un po’ più in fretta, a quest ora saremmo tutti morti.
Siamo tornati sui nostri passi a Jarjooaa, e abbiamo parcheggiato sotto ad un balcone: da una finestra due donne e tre bambini ci hanno salutato festosamente con la mano. Sylvie era in silenzio, però sul suo volto si intravedeva una malcelata rabbia. A quanto pare, gli israeliani si erano sbagliati. Avevano confuso il percorso o il numero del nostro minuscolo convoglio. «Come si può lavorare a queste condizioni? Come possiamo svolgere la nostra missione?», si chiedeva Sylvie in un misto di collera e frustrazione.

Lungo tutto il percorso, ieri, non ho visto che tre persone molto verosimilmente Hezbollah lanciate a tutta velocità su una Volvo malandata. Possono attraversare il Libano quanto gli pare come del resto abbiamo fatto noi girando intorno alle fosse scavate dalle bombe e guadando i fiumi. Capite l’inutilità di distruggere i 46 viadotti autostradali?
Un anziano del luogo ci si è avvicinato con un vassoio d’argento su cui c’erano dei bicchieri e una teiera. Generosi fino all’ultimo, a dispetto delle bombe che cadono incessantemente, i libanesi ci hanno accolti con la loro tradizionale ospitalità mentre i caccia solcavano sibilando il cielo. Siamo stati invitati ad entrare in casa, la casa che si erano rifiutati di abbandonare. Mi sono reso conto che erano proprio questi gentilissimi libanesi, disarmati e senza alcun rapporto con Hezbollah, i veri resistenti. Quelli che alla fine salveranno il Libano.

Con Sylvie e la sua squadra non avevamo ancora concluso il nostro viaggio di ritorno nel sud del Libano irto di pericoli, che un uomo con una borsa piena di ortaggi ci si è avvicinato a Beshara Hanna. «Per favore, posteggiate l’auto lontano da casa mia,» ci ha detto. «Messa lì, è un pericolo per tutti noi». Ne sono rimasto profondamente turbato: il fatto che a Qana missili israeliani abbiano colpito ambulanze, abbiano trapassato la croce rossa che campeggiava sul loro tetto, aveva fatto sì che noi pure fossimo associati mentalmente a una tale eventualità. Non era che un uomo, un uomo qualsiasi; ma nella sua mente quella croce rossa si era trasformata da simbolo di speranza e di salvezza in segno di pericolo e terrore.