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Petrolio, cosa sta cambiando

di Andrea Angelini - 03/08/2006


Le società petrolifere hanno festeggiato con utili stratosferici i bilanci del 2005 e i conseguenti lauti dividendi che hanno premiato gli azionisti grazie al prezzo del greggio schizzato ad oltre 70 dollari al barile sulla spinta soprattutto della domanda cinese ed indiana. Sui mercati negli ultimi dieci anni si sono verificati sostanziali cambiamenti che hanno visto da un lato l’irrompere sulla scena di produttori come la Russia e le repubbliche asiatiche ex sovietiche ben decise a recitare un ruolo da protagoniste e a presentarsi come una seria alternativa al petrolio arabo che a suo attivo vanta però la duplice prerogativa di essere più facilmente estraibile e di avere una migliore qualità.
Dall’altro si è registrato il trasferimento di una buona fetta del potere contrattuale dal produttore al consumatore, in questo caso la Cina ed in misura minore l’India, grazie alle massicce quantità da loro acquistate.
Un terzo aspetto è stata la razionalizzazione del mercato dal punto di vista delle compagnie che in America si è concretizzata con la fusione tra una miriade di piccole società ma soprattutto con quelle avutasi tra colossi come la Exxon con la Mobil, la Chevron con la Texaco, a cui in Francia si è risposto con quella tra Fina, Total ed Elf. Si è registrata infine la tendenza dei governi dei paesi produttori di assumere in prima persone, attraverso società statali, l’estrazione di petrolio e gas e non lasciarne più la gestione in esclusiva alle majors anglo-americane, o limitandone fortemente l’attività.
Vi è insomma la consapevolezza che sull’energia si giocherà, come sempre, il predominio mondiale nei prossimi anni e che bisognerà attendere a lungo per l’introduzione su larga scala di fonti alternative quali idrogeno ed etanolo, dei quali non sono ancora ben chiari le possibilità produttive e le potenzialità di utilizzo. Insomma saremo obbligati ad utilizzare per un bel pezzo il petrolio, e di conseguenza è bene non lasciare il proprio destino nelle mani di estranei.
(Breve parentesi: Raul Gardini, il defunto patron del gruppo Ferruzzi e della Montedison, pensava già 20 anni fa all’utilizzo dell’etanolo come carburante, da estrarre dai cereali, e forse all’epoca la sua idea risultava un po’ troppo destabilizzante per gli equilibri internazionali…).
Sotto il primo aspetto i cambiamenti si sono avuti con il trasferimento più ad est del baricentro del mercato grazie anche alla spinta della destabilizzazione dell’area mediorientale conseguente alle crisi irachena, iraniana e israelo-palestinese. Così la Russia di Putin, ed in misura minore l’area delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, è apparsa come il fornitore più affidabile e, per la vicinanza geografica, inevitabile è stato il sorgere di uno stretto legame politico ed economico con Pechino che si alimenta della rivalità cino-americana e delle intromissioni Usa nella vita politica interna russa con la pretesa di insegnare a Putin cosa siano la democrazia e le buone maniere. Questo soprattutto dopo la battaglia vinta dallo Zar del Cremino contro gli oligarchi, guarda caso tutti petrolieri e tutti prestanome di interessi Usa come Mikhail Khodorkowski e Boris Berezovski.
Sotto il secondo aspetto invece, quello del rapporto produttore-consumatore, il cambiamento non è di poco conto essendo oltretutto Pechino in grado di pagare quanto richiesto senza battere ciglio e senza perdere in termini di concorrenzialità dei propri prodotti che restano avvantaggiati da un costo del lavoro pari ad un decimo di quello europeo e americano. I massicci acquisti da parte cinese stanno peraltro comportando gravi conseguenze dal punto di vista ambientale che per Pechino obbligata a bruciare le tappe non rappresenta certo la priorità da perseguire e per le quali ha respinto al mittente tutte le proteste arrivate dai firmatari del protocollo di Kyoto.
Quanto alla razionalizzazione del mercato essa non è risultata indolore nemmeno nella patria per eccellenza del capitalismo. Anzi c’è semmai da segnale che il gigantismo raggiunto dalle ex sette sorelle sta creando forti malumori negli stessi Stati Uniti dove molti esponenti del Congresso hanno puntato il dito contro l’eccessivo e intollerabile peso economico e politico ormai raggiunto dal gigante per eccellenza, la Exxon-Mobil, reso ancor più insopportabile dal dividendo netto di oltre 23 miliardi di dollari assegnato agli azionisti per l’esercizio 2005. Una protesta che ha visto alleati in prima fila due senatori della Commissione Energia come il repubblicano Arlen Specter e il democratico Herb Kohl e che si è concretizzata a fine 2005 con l’abolizione da parte della Camera Alta di una esenzione fiscale di 1,5 miliardi di dollari gentilmente concessa nel 2003 ai petrolieri dal “collega” Presidente Gorge W. Bush. Le accuse alla Exxon-Mobil, ma che implicitamente vengono estese a tutto il settore, sono quelle in grado di suscitare indignazione in un paese liberista come gli Usa: avere creato un cartello che detta a suo piacimento i prezzi e che quindi condiziona il Mercato. Con un petroliere come Bush jr alla Casa Bianca è però piuttosto difficile che possano essere prese sanzioni contro la Exxon-Mobil e contro le compagnie ma in ogni caso l’atteggiamento del Congresso e dell’opinione pubblica americana nei riguardi dei petrolieri ricorda l’atmosfera analoga dell’inizio del secolo scorso quando un’identica situazione di monopolio e di distorsione del mercato portò anzi obbligò la Casa Bianca ed il Congresso Usa a decretare lo spezzettamento della Standard Oil di John Rockefeller I°, dal quale nacquero quelle che, unitamente all’inglese British Petroleum e all’anglo-olandese Shell, vennero poi indicate come le Sette Sorelle. Ma anche con un Presidente con un diverso orientamento politico e con diversi interessi economici personali la musica cambierebbe ben poco. Una Exxon più magra non sarebbe infatti in grado di fare adeguatamente i propri interessi e di riflesso rappresentare quelli degli Stati Uniti nelle zone strategiche e calde del globo. Infine il quarto aspetto, quello del nuovo atteggiamento da parte di taluni paesi come Russia e Venezuela nel voler assumere in prima persona il controllo sulle risorse energetiche nazionali e non lasciarlo in mano alle compagnie anglo americane. Nel caso di Putin esso ha rappresentato l’effetto della precisa volontà di quanti, come il nuovo Zar del Cremino, si sentivano figli ed eredi della vecchia Grande Madre Russia ed intendevano liberarsi dal condizionamenti stranieri ai quali essa si era trovata legata dopo le privatizzazioni dell’industria pubblica nazionale, in particolare quella petrolifera, incominciate nell’epoca di Eltsin dal governo filo occidentale del liberale Egor Gaidar e continuate dai suoi successori.
Una svendita che vide in prima fila dirigenti di industria ed alti burocrati del partito comunista, convertiti al nuovo corso “liberale” e dotati di illimitate risorse finanziarie di provenienza estera, pronti ad allungare le mani sul patrimonio statale e gestirlo per i propri interessi personali e per quelli dei veri padroni di oltre oceano. Una stato di cose contro il quale, dal suo insediamento, si è subito scagliato il nuovo Presidente federale, Vladimir Putin, già membro dell’apparato dell’ex Kgb, che ha così inteso far riappropriare alla Russia il controllo del proprio destino sia stroncare le improvvise velleità politiche di Khodorkovski, proprietario del colosso Yukos (di cui proprio ieri è stata dichiarata la bancarotta), che, puntando al Cremino, aveva rotto l’impegno preso in tal senso con lo stesso Putin all’inizio del 2000. Il magnate finì così sotto processo, condannato ed incarcerato per evasione fiscale in mezzo alle proteste americane, un po’ troppo forti per non essere interessate.
Molto simile anche se il peso del Venezuela è minore di quella della Russia è il nuovo corso impresso da Hugo Chavez che ha fatto un cavallo di battaglia dell’antagonismo con gli Stati Uniti vagheggiando di presentarsi ed accreditarsi alle masse sudamericane come l’erede di Simon Bolivar e di Fidel Castro e manifestando in ogni apparizione pubblica la volontà di compensare le ingiustizie sociali attraverso una redistribuzione a favore dei poveri dei profitti derivanti dalla vendita del petrolio.
In sede Opec Chavez ha più volte manifestato l’idea che i paesi produttori debbano tagliare la produzione per tenere alti i prezzi e ha rifiutato in tale ottica di stanziare nuovi fondi nella ricerca tecnologica del settore. Anzi per dimostrare la sua ostilità nei confronti degli interessi stranieri non solo ha ripetutamente dichiarato che tutto il settore petrolifero venezuelano andrebbe nazionalizzato ma ha anche imposto alle majors alte tasse sull’estrazione di greggio. Poi per chiarire ulteriormente le sue intenzioni ha anche rifiutato il rilascio di nuove concessioni. Di quest’ultima decisione ne ha fatto le spese l’Eni e questo suona davvero come un paradosso perché l’Eni, fin dai tempi di Enrico Mattei aveva fatto un punto di onore del tenere sempre e comunque un approccio non colonialista nei riguardi dei paesi produttori.

(1 continua)