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Agricoltura e ambiente: contrapposizioni, equilibri e nuovi modelli di sviluppo per il futuro

di Simone Vieri* - 21/08/2006


 
 
L’attenzione riguardo al complesso sistema di rapporti che lega l’agricoltura all’ambiente è espressione di una sensibilità che, in tempi relativamente recenti ed in modo spesso parziale, ha teso a diffondersi e ad affermarsi nella nostra Società.
 
In passato e in specie nei tempi antecedenti l’affermazione delle forme intensive di coltivazione e di allevamento, il rapporto tra agricoltura ed ambiente non era oggetto di particolari attenzioni, in quanto era, di fatto, rappresentato dal modo stesso in cui si “faceva agricoltura”.
 
L’impossibilità di fare massiccio ricorso a fattori produttivi diversi dalla terra e dal lavoro, imponeva, infatti, all’uomo di utilizzare al meglio le risorse naturali che aveva a disposizione, evitando di depauperarle e cercando di attuare processi produttivi che, oggi, definiremmo sostenibili.
 
Una importante spinta all’intensificazione dei processi produttivi agricoli è stata sicuramente data, oltre che dal progresso tecnico, dalla politica agricola comune che, dalla sua istituzione, fino alla prima metà degli anni ottanta, ha posto in essere generosi regimi di sostegno alle produzioni.
 
La possibilità di poter operare in riferimento a prezzi di sostegno particolarmente elevati che, di fatto, consentivano di accrescere le produzioni senza tenere in debito conto l’andamento dei costi marginali per ottenerle, hanno spinto gli agricoltori, per lungo tempo, a fare ricorso ad un uso massiccio e, spesso, spropositato di prodotti chimici.
 
Non è, infatti, un caso che proprio tra la seconda metà degli anni settanta ed i primi anni del decennio successivo, ossia nel pieno del periodo delle eccedenze produttive agricole, non solo europee, ma anche mondiali, si registrino i primi segnali di allarme riguardo al ruolo che l’agricoltura stava svolgendo in rapporto all’ambiente.
 
In particolare, l’agricoltura che, fino ad allora, era stata più o meno tacitamente – nonché in modo sostanzialmente inconsapevole – considerata un tutt’uno con l’ambiente in cui operava, divenne, all’improvviso, un soggetto inquinante, al pari della peggiore delle industrie.  
 
Il diffondersi di tali preoccupazioni se, da un lato, fece emergere un problema reale, dall’altro lato, contribuì alla formazione di idee che, a nostro avviso, non hanno favorito lo sviluppo della giusta percezione di ciò che oggi si debba intendere per agricoltura e per ambiente e, quindi, hanno anche contribuito a fare sì che, su questi temi, si sviluppasse quella sensibilità parziale, cui facevano riferimento all’inizio.   
 
In particolare, l’eccessiva intensività che caratterizzava le attività agricole di quegli anni non costituiva la rappresentazione reale dell’agricoltura, ma era solo l’espressione momentanea di un settore sospinto oltre i propri limiti produttivi da un intervento pubblico estremamente generoso. Così come non era particolarmente aderente al vero l’idea di un “ambiente naturale” minacciato dalla presenza di un’agricoltura inquinante. Le giustificate reazioni ecologiste nei confronti delle attività agricole intensive hanno, infatti, contribuito ad alimentare una, assai meno, giustificabile contrapposizione tra ambiente naturale ed agricoltura che, a ben guardare, non ha particolari ragioni di essere. Non si può, infatti, omettere di considerare che in una realtà come la nostra il concetto di ambiente non si sostanzia nell’immagine di risorse naturali incontaminate, ma prende forma  in ciò che l’uomo è riuscito a plasmare attraverso la sua secolare – se non millenaria – attività sul territorio.
 
Non tutti hanno, infatti, sempre presente che in un Paese come l’Italia non vi è un bosco, un profilo di collina, o l’orizzonte di una pianura che non siano il risultato del lento e paziente operato che l'agricoltura ha sempre assicurato attraverso la sua presenza attiva e vitale sul territorio.
 
Il rapporto tra ambiente ed agricoltura non è, dunque, da considerare in riferimento ad un’idea di contrapposizione (l’ambiente naturale e l’agricoltura inquinante) ma ad un’idea di equilibrio. Quella stessa idea di equilibrio che trova la sua più efficace rappresentazione nella straordinaria bellezza dei tanti paesaggi rurali che caratterizzano la nostra Italia e che - dobbiamo sempre ricordarlo – non sono l’espressione di una natura incontaminata, ma il risultato dello svolgimento di attività produttive agricole di millenaria tradizione.
 
Ad eliminare l’equivoco che discende dalle idee che tendono a porre la conservazione delle risorse ambientali in contrapposizione con il mantenimento delle attività produttive agricole sul territorio, non ha granché contribuito neanche la politica - e, in specie, la politica agricola comune (PAC) – nonostante la crescente attenzione che, negli ultimi venti anni, essa ha dedicato alla tematiche agro-ambientali.
 
A livello comunitario, il problema del rapporto tra agricoltura è ambiente è stato affrontato secondo un approccio fortemente condizionato – se non decisamente subordinato – all’esigenza di considerare le tematiche agro-ambientali nell’ambito del più generale processo di riforma della PAC e, quindi, di guardare alle funzioni ambientali dell’agricoltura come ad un qualcosa che potesse risultare utile al fine della risoluzione dell’annoso problema della riduzione e della diversificazione del sostegno comunitario alle produzioni agricole.
 
A questo riguardo è sufficiente ricordare il modo in cui sono state impostate ed intese le diverse misure che, dalla seconda metà degli anni ottanta, sono state definite come “agro-ambientali”. Si è, infatti, trattato, pressoché in ogni caso, di interventi il cui fine principale era quello di incentivare gli agricoltori ad adottare comportamenti volti a ridurre il potenziale produttivo agricolo e le produzioni, non tanto per ricercare nuovi modelli di sviluppo agricolo orientati al rispetto dell’ambiente, quanto per limitare la crescita della spesa destinata al sostegno delle produzioni.
 
A seguito di ciò, la malintesa idea di agricoltura che, sicuramente, era discesa da certe posizioni ecologiste che tendevano a contrapporre l’esercizio dell’attività produttiva agricola con lo svolgimento della funzione ambientale, ha finito per essere rafforzata da un’azione politica che, nel tempo, attraverso la concessione di specifici aiuti, ha teso, di fatto, a premiare più i comportamenti volti al disimpegno produttivo, che non quelli finalizzati a realizzare modelli di sviluppo agricolo in equilibrio con l’ambiente.
 
Una impostazione, questa, che non è stata granché modificata, neanche con l’introduzione dei cosiddetti aiuti disaccoppiati previsti dalla riforma Fishler che, come noto, possono essere concessi anche nel caso in cui l’agricoltore, pur decidendo di non produrre, si impegni, comunque, ad eseguire quel minimo di pratiche necessarie ad assicurare la conservazione dell’ambiente.
 
Una tale situazione, oltre a rafforzare l’idea che l’agricoltura in grado di assicurare il mantenimento delle risorse ambientali non è l’agricoltura che svolge attività produttive, ma quella che assolve a compiti conservati, non ha certo contribuito a fare in modo che agricoltura e società potessero trovare un punto di incontro rispetto a reciproche aspettative che, pure, avrebbero potuto – e dovuto – essere naturalmente convergenti.
 
Come noto, dalla metà degli anni ottanta, le aspettative della società nei confronti dell’agricoltura si sono, rapidamente, evolute e si è iniziato a guardare con crescente attenzione al ruolo che la stessa agricoltura è in grado di svolgere ai fini dell’assolvimento di nuove e importanti funzioni di interesse collettivo, quali, ad esempio, la tutela dell’ambiente e del paesaggio. 
 
Tuttavia, contrariamente a quanto avvenuto in passato, quando all’agricoltura si chiedeva di assolvere la sola funzione produttiva e, quando, di conseguenza, le reciproche aspettative di agricoltura e società trovavano facile e diretta risposta nelle politiche di sostegno dei prezzi e dei mercati, negli anni più recenti, l’aspettativa della società di poter contare su di una agricoltura in grado di assolvere molteplici funzioni e l’aspettativa degli agricoltori di vedere riconosciuti, in termini di reddito, i nuovi compiti che era loro richiesto di svolgere hanno, invece, stentato ad essere tradotte in adeguati interventi di politica agraria.   
 
In particolare, si è evidenziato un forte contrasto nel modo in cui la cosiddetta multifunzionalità agricola è stata intesa, da un lato, dai cittadini e, dall’altro lato, dai decisori politici. 
 
Una agricoltura in grado di assolvere, oltre al tradizionale ruolo produttivo, anche numerose funzioni di interesse collettivo è divenuta, per i cittadini, il soggetto rispetto al quale - anche in virtù dell’atavico legame che ciascuno di noi ha con la terra e la natura - si è cominciato a nutrire crescenti aspettative riguardo al ruolo che essa è in grado di svolgere al fine di tutelare molti dei beni e dei valori che la modernità, in genere, e la globalizzazione, in particolare, tendono a mettere, quotidianamente, a repentaglio.
 
Giova, tuttavia, considerare che, a livello politico la multifunzionalità, più che la moderna dimensione dell’agricoltura, è stata, più che altro, considerata una sorta di pretesto, in ragione del quale continuare a trasferire almeno una parte di quelle risorse che, a seguito dell’avanzamento del processo di riforma della PAC, non era più possibile destinare al sostegno dei prezzi dei prodotti agricoli.   
 
E’ così accaduto che le numerose misure a sostegno della multifunzionalità che, a partire dalla metà degli anni ottanta, hanno accompagnato la riforma della PAC,  più che costituire il riconoscimento, in termini di reddito, delle funzioni di interesse collettivo svolte dall’agricoltura, sono divenute il tramite per limitare l’impatto della riduzione del sostegno ai prezzi ed ai mercati.       
 
Una tale situazione, sicuramente determinata anche dalla difficoltà a reperire le risorse necessarie a fornire un adeguato sostegno alla multifunzionalità ha, di fatto, contribuito, da un lato, ad indebolire l’agricoltura – che ha visto ridimensionarsi il suo tradizionale ruolo di settore produttivo, senza riuscire a veder pienamente riconosciuto il suo nuovo ruolo multifunzionale – e, dall’altro lato, a ridurre l’importanza ed il significato delle aspettative della società nei confronti della stessa agricoltura.
 
La difficoltà a concepire l’adozione delle scelte di politica agraria che, su di un tema così delicato come quello del rapporto con l’ambiente, siano in grado di  rappresentare la corretta espressione delle reciproche aspettative di agricoltura e società, costituisce uno dei principali elementi di criticità, ai fini della messa a punto di un nuovo modello di sviluppo, pienamente coerente con il ruolo che l’agricoltura è, oggi,  chiamata a svolgere nel contesto socio-economico nazionale
 
A questo riguardo, appare necessario considerare che il territorio nazionale italiano è costituito per il 76,8% da aree collinari e montane e per più dell’80% da aree rurali, dove l’agricoltura, anche quando non è in grado di svolgere un ruolo economicamente decisivo, contribuisce, comunque, a determinare le caratteristiche sociali, ambientali e paesaggistiche. A ciò si aggiunga che circa 5.800 comuni, sugli oltre 8.000 presenti in Italia, hanno meno di 5.000 abitanti e costituiscono la vera spina dorsale di un sistema socio-economico che, nell’intera Nazione, continua, ancora oggi, ad essere fondato su piccole comunità e piccole imprese, le cui possibilità di sviluppo sono, indissolubilmente, legate al territorio.
 
In questo quadro, occorre avere chiaro che:
 
1) nella prospettiva di crescente concorrenza, attualmente delineata dall’avanzamento del processo di globalizzazione, la gran parte dei nostri sistemi socio-economici presenti a livello territoriale sono destinati al sottosviluppo ed alla emarginazione, qualora non abbiano altra possibilità che quella di doversi misurare sugli standard di competitività imposti dalla crescente apertura dei mercati;
 
2) la nostra agricoltura, per la grande complessità ambientale e sociale che la caratterizza, non può unicamente legare il proprio futuro alle fragili suggestioni del libero mercato, ma deve costruirsi un autonomo percorso di sviluppo fondato sulla valorizzazione delle proprie risorse umane, produttive ed ambientali;
 
3) in assenza di un preciso progetto politico in grado di tutelare le diverse identità della nostra agricoltura e di costruire, per ciascuna di esse, una dimensione propria nell'ambito dello spazio globale che va definendosi a livello planetario, si rischia di mettere a repentaglio la sopravvivenza di quello straordinario patrimonio ambientale, economico e culturale che è costituito dai rapporti che legano l'agricoltura al territorio, all’ambiente, alla natura ed alla società.
 
In questo senso, sarebbe un grave errore considerare l’agricoltura solo in funzione dei suoi risultati economici di base (produzione, valore aggiunto, incidenza sul PIL ...), senza valutare il complesso dei valori che essa determina, o contribuisce a determinare e dai quali le altre componenti il nostro sistema socio-economico non possono assolutamente prescindere. Si pensi, ad esempio: all’industria alimentare che è il secondo comparto dell’industria manifatturiera italiana e che trasforma circa il 70% della produzione agricola nazionale; alle molte imprese del settore dei servizi che per infiniti motivi (dal turismo, alla pubblicità, alla ristorazione …) beneficiano di ciò che l’agricoltura ha prodotto, produce e contribuisce attivamente e, spesso, esclusivamente, a conservare. Per non parlare, poi, dei benefici che la collettività trae dall’azione di presidio ambientale che la presenza dell’agricoltura sul territorio è in grado di assicurare.
 
Anche alla luce di quanto sopra appaiono, dunque, assai poco comprensibili i motivi per cui l’atteggiamento nei confronti dell’agricoltura sia sempre più spesso contrassegnato da una sorta di ambiguità di fondo che tende, da un lato a sminuirne l’importanza economica, e dall’altro lato ad enfatizzarne il ruolo multifunzionale, senza adeguatamente considerare che l’una e l’altro sono le due facce della stessa medaglia. Dovrebbe essere, infatti, evidente che la presenza di una agricoltura attiva e vitale è la condizione indispensabile per assicurare la tanto evocata multifunzionalità agricola, nel cui ambito – giova sottolinearlo – non è esclusa, ma compresa anche la funzione produttiva, il cui esercizio è – e continuerà ad essere – decisivo al fine della tenuta dei sistemi sociali,  economici ed ambientali presenti a livello territoriale.
 
Le considerazioni ora espresse, sebbene possano apparire, già di per sé, sufficienti a rendere evidente l’importanza del ruolo che l’agricoltura è in grado di svolgere, tendono, sempre più spesso, ad entrare in contrasto con valutazioni di tutt’altro tipo che, di fatto, non sembrano prestare particolare attenzione al complesso sistema di relazioni che lega l’agricoltura alle altre componenti il sistema socio-economico e, più in genere, al territorio.
 
Ci riferiamo, in particolare, all’idea molto diffusa a livello europeo – e non solo - che nell’attuale fase di crescente apertura dei mercati è più conveniente acquistare prodotti agricoli provenienti da Paesi terzi che non continuare a destinare risorse per finanziare una politica agricola comune che, sebbene ridimensionata rispetto al passato, continua, tuttavia, ad assorbire una quota importante del bilancio comunitario e, quindi, può essere vista come un fattore limitante per avviare e sostenere politiche ritenute strategicamente più rilevanti ai fini dell’avanzamento del processo di integrazione europea.
 
L’idea di potersi liberamente approvvigionare su di un mercato sempre più aperto e di poter localizzare le attività produttive nelle aree del mondo ove è più conveniente costituisce una delle principali seduzioni che discendono dal processo di internazionalizzazione in atto.
 
Tuttavia, come ogni seduzione, anche questa, tende, inevitabilmente ad indurre chi ne è vittima a valutazioni parziali e, spesso, eccessivamente entusiaste. Nel caso specifico, infatti, è tutto da dimostrare che puntare sulla maggior convenienza degli approvvigionamenti esteri e sullo smantellamento delle politiche agricole, sia coerente con gli interessi e le aspettative del nostro sistema socio-economico.
 
Un modello di sviluppo economico, fondato principalmente sulla teorica libertà di approvvigionarsi e di localizzare le attività produttive in funzione dei costi di acquisizione delle merci e dei fattori produttivi, sebbene possa costituire una straordinaria opportunità  per consentire il perseguimento degli obiettivi di profitto di quei pochi soggetti che sarebbero effettivamente in grado di muoversi su scala globale, appare, per contro, assai meno vantaggioso, nonché foriero di forti squilibri, qualora dovesse trovare applicazione per il complesso dei soggetti e delle attività economiche presenti sul territorio.
 
E’, infatti, evidente che nel momento in cui si ritiene di dover affrontare il problema di come l’agricoltura debba porsi rispetto alla crescente apertura dei mercati non si può assolutamente pensare di lasciare che ogni processo si compia spontaneamente, limitandosi, da un lato, ad agevolare la liberalizzazione in atto e, dall’altro lato, a sostenere la duplice ed inconciliabile esigenza di una ulteriore riduzione degli aiuti all’agricoltura e nel, contempo, di un rafforzamento del ruolo multifunzionale che la stessa è in grado di svolgere.
 
Occorre, infatti, avere piena consapevolezza che porre la nostra agricoltura di fronte all’unica possibilità di doversi misurare sul terreno della crescente competitività imposta dalla globalizzazione significa mettere a rischio l’insieme dei rapporti che lega la stessa agricoltura al territorio ed alla società e, quindi, anche porre in pericolo il complesso sistema di diritti (d’impresa, di lavoro, di sovranità e di sicurezza alimentare, di salvaguardia delle risorse naturali ed ambientali....) che, attraverso quegli stessi rapporti, è stato costruito nel tempo.
 
In conclusione, ed alla luce delle considerazioni fino qui espresse, appare necessario una attenta riconsiderazione riguardo al modo in cui si debba, oggi, intendere l’agricoltura, l’ambiente e, di conseguenza, la complessa rete di rapporti da cui sono legate.
 
In particolare, il concetto di agricoltura non può essere riferito ad una situazione in cui la funzione produttiva è contrapposta alla funzione ambientale, ma deve essere, applicato al ruolo complesso che l’agricoltura è in grado di svolgere sul territorio e, nel quale lo svolgimento delle attività produttive è, non solo una delle tante funzioni di cui si compone la cosiddetta multifunzionalità agricola, ma anche il principale momento attraverso il quale l’agricoltura realizza l’equilibrio con l’ambiente nel quale opera e che, proprio grazie a tali attività, ha contribuito, più di ogni altro settore produttivo, a determinare.
 
Il concetto di ambiente, infine, non può essere, unicamente, associato a quello di “natura da proteggere”, ma deve essere, più correttamente, riferito al risultato di una millenaria attività di antropizzazione fondata sull’esercizio di attività agricole che, in una realtà, come la nostra hanno plasmato il territorio, divenendone componente imprescindibile.       
 
Solo attraverso una tale, attenta riconsiderazione sarà possibile avviare e sostenere un nuovo modello di sviluppo agricolo che, centrandosi sul ruolo territoriale dell’agricoltura, trovi nel rapporto tra la stessa agricoltura e l’ambiente uno dei principali elementi di valorizzazione, per dare nuove ed importanti risposte alle sfide che, per i sistemi socio-economici locali, sono oggi poste dalla globalizzazione. 

* Università “La Sapienza” di Roma, Presidente INEA