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La guerra di David Grossman (Oz e Jehoshua)

di Gianluca Bifolchi - 21/08/2006

Fonte: anzetteln.splinder.com

 
Qualcuno troverà emblematica la morte in combattimento nel Sud del Libano del figlio di David Grossman, scrittore israliano impegnato per il dialogo e la pace in Medio Oriente. Ma io credo che questa presunta emblematicità vada investigata criticamente, prima di stabilire troppo corrivamente che se la guerra del Libano lambisce tragicamente la vita di Grossman ciò abbia un significato diverso di quando la stessa cosa accada ad una famiglia di estremisti del Likud. Sul piano degli affetti privati si può presumere -- spero -- che lo strazio dei familiari sia esattamente lo stesso, ed egualmente meritevole di rispetto. Sul piano pubblico, che è quello che più ci interessa, occorre chiarire se vi siano davvero elementi politici o culturali che conferiscano a quella morte un significato di particolare significanza. Io ne dubito.

Sul fronte filo-arabo l'abuso frequente che si fa del termine "sionista", assunto a simulacro di ogni umana nequizia, ha reso quasi inservibile l'uso esplicativo ed analitico della parola (come sempre accade quando si indulge a trasformare i concetti in simulacri). Credo però che il termine conservi una sua pregnanza, se pensiamo che esso appartiene a pieno titolo al lessico politico dello stato d'Israele, dove sionista è una parola usata ora per una orgogliosa rivendicazione di identità, ora come definizione neutrale ed obiettiva di quell'ampio spettro di forze politiche che guidano la politica nazionale (lasciando fuori formazioni minori come i verdi o i comunisti). E' solo in questo senso che qui userò questo vocabolo.

David Grossman appartiene completamente all'area politico-culturale sionista, e il suo impegno per la pace ed il dialogo poggia su queste premesse, benchè declinate nella loro versione di sinistra (o "pacifista", o "moderata", come pure capita spesso di leggere). Ciò significa che esiste un limite ben preciso alla gravità delle critiche che rivolgerà ad Israele per le sue mancanze sul percorso verso una pace duratura con gli Arabi. Questo limite non riguarda tanto il tono della critica, che in qualche caso può essere anche estremamente vibrante e severo, ma la mancanza di sistematicità e consequenzialità.

Un esempio lampante è il modo di considerare la causa palestinese. Gli intellettuali come Grossman provano per i Palestinesi sincera simpatia, e li vedono come una sfortunata controparte, coinvolta suo malgrado in un tragico destino di guerra, vittima di quelle stesse cieche ed impersonali forze di distruzione che operano anche a detrimento di Israele (da qui la tentazione di attribuire valore simbolico alla morte di suo figlio). Ma ci si guarda bene dal prestare la propria opera di intellettuale per la denuncia della condizione reale e quotidiana dei Palestinesi nei Territori Occupati -- limitandosi alle declamazioni generiche sulla necessità del dialogo -- perché ciò condurrebbe alla conclusione che il popolo israeliano sta OPPRIMENDO il popolo palestinese, e questo si pone fuori dai limiti dell'accettabilità sionista. Meglio dare la colpa a cieche ed impersonali forze di distruzione, tanto meglio se esse possono far figurare anche Israele nel ruolo di vittima.

Chi è abituato a leggere su Ha'aretz le cronache di Amira Hass dai Territori Occupati, o le analisi di Gideon Levy, rimane colpito dalla tiepidezza con cui gli intellettuali alla Grossman (come Oz e Jehoshua, su cui ritorneremo) trattano l'argomento delle responsabilità di Israele, anche rispetto a standard accettati da un importante e rispettato organo di stampa israeliano.

Circostanza altrettanto eloquente è che costoro non hanno praticamente nessun rapporto con il movimento pacifista o il movimento di solidarietà al popolo palestinese, che dal conto loro li ignorano. Il loro vero riferimento internazionale è quel settore di opinione pubblica europea moderatamente progressista (Grossman collabora con Repubblica) che, prodigo a parole di pacifici intendimenti, è del tutto incapace di individuare il problema del perenne conflitto in Israele e nelle sue politiche. Meno che mai agire in modo conforme a questo convincimento.

Grossman, Oz e Jehoshua hanno cofirmato un appello in cui si chiedeva al governo di Israele di aderire alla proposta di un cessate il fuoco. L'appello è giunto dopo ben tre settimane di conflitto, in base all'argomento che ormai quello che si poteva acquisire con le armi era stato acquisito. Quanto alla guerra in sé scatenata da Israele, essa era "moralmente giustificata".

Ogni riga dell'appello trasuda ambiguità e meriterebbe di essere analizzata e commentata, ma anche limitandoci a questi due elementi si può afferrare pienamente il tenore di questa iniziativa. Intanto la guerra sarebbe moralmente giusta in quanto "consona alla legittimità secondo le norme internazionali di legittima difesa contro l'aggressione di un paese nemico". Ma si dimentica qui, convenientemente, che il principio di proporzionalità è parte integrante delle "norme internazionali di legittima difesa", e che gli esperti di diritto internazionale individuano il parametro della proporzione nell'entità del danno inflitto dall'iniziatore del conflitto. Israele ha preso spunto da una schermaglia alla frontiera per scatenare un attacco generalizzato contro tutta la società libanese secondo i più flagranti crismi della punizione collettiva. Ma per questi intellettuali le norme internazionali sono qualcosa da fare a fette per scegliere solo quello che fa comodo, quanto alla nozione di "punizione collettiva" si tratta appunto di una di quelle verità che il discorso pubblico israeliano (sionista) giudica inaccettabile e al di là di ogni possibile discussione, perché troppo in contrasto con i principi di alta moralità che attribuisce a se stesso.

La posizione di Hezbollah come iniziatore del conflitto è una tesi più facile da sostenere, visto che Francia ed USA sono riusciti a farla ingoiare al Consiglio di Sicurezza, che l'ha recepita nella risoluzione 1701. Ma questo non significa che sia vera. La storia della frontiera israelo-libanese nei sei anni seguiti al ritiro dell'esercito israeliano è stata molto tormentata, e lo scontro del 12 Luglio, che ha aperto le ostilità non era certo il primo nel suo genere. Si è parlato molto degli osservatori UNIFIL, sia per il ferimento di un ufficiale italiano che per l'uccisione di altri quattro militari alcuni giorni dopo, ma si è sorvolato sul fatto che negli anni abbiano documentato letteralmente centinaia di casi di violazione della sovranità libanese da parte di Israele. Per tacere dei molti detenuti libanesi in carceri israeliane -- addirittura dagli anni 80 -- in violazione della Terza Convenzione di Ginevra. Le esigenze della diplomazia internazionale imponevano che si desse la colpa a qualcuno, e dato che non ci sarebbe stata nessuna risoluzione di cessate il fuoco che puntasse il dito ANCHE in direzione di Israele, si è posto il biasimo sulle spalle di chi ha meno appoggi internazionali.

Consideriamo poi il tempismo dell'iniziativa, a tre mesi dall'inizio delle ostità, per una guerra che è durata un mese. Leggiamo nel documento: "ci appelliamo al governo di Israele affinché acconsenta al cessate-il-fuoco reciproco, partendo dal presupposto che gli obiettivi ragionevoli e possibili di questa operazione militare sono già stati raggiunti." Ma quali obiettivi, più o meno ragionevoli e possibili, sono stati raggiunti se il più intenso lancio di razzi katiusha sul territorio israeliano ha avuto luogo solo poche ore prima del cessate il fuoco, cioè una settimana dopo dell'appello? Difficilmente si sfugge alla sensazione che l'improvviso desiderio di pace sia giunto in contemporanea con la presa di coscienza che il nemico era più duro di quanto si fosse stimato, e che il mito dell'imbattibilità dell'esercito israeliano si erodeva giorno dopo giorno.

Tutto questo discorso ha assai più a che fare con l'Europa che con Israele. L'Europa, per molte ragioni, ha bisogno di legittimare la sua posizione con un impegno nella regione meno smaccatamente fazioso di quello americano. Al tempo stesso non può venir meno alla sua fondamentale scelta che, al di là di tutte le apparenze, è profondamente filo-israeliana. Da questo punto di vista intellettuali come Grossman, Oz e Jehoshua sono molto utili perché, pur dispensando il tipo di retorica pacifista più gradito alle elite politiche ed intellettuali europee, non cessano per un attimo di agire, nella sostanza, come agenti di pubbliche relazioni del governo di Israele. Perché ciò possa accadere è necessario che i media europei (ad esempio Repubblica) li accreditino dell'immagine più consona al loro ruolo, e che la loro attività da sola, per tutte le contraddizioni che la distinguono, non sarebbe sufficiente a fornire.