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Piano Marshall culturale

di Massimo Fini - 22/08/2006

 
 
   


Anche sotto la spinta dell'emozione suscitata dal
caso di Hina Salem, la giovane pakistana che, in contrasto con le tradizioni del suo Paese, si rifiutava di sposare l'uomo che la famiglia le aveva assegnato e conviveva more uxorio con un italiano, e per questo è stata barbaramente uccisa dal padre con la complicità di altri parenti, anch'essi residenti, come Hina, nel nostro Paese, da molte parti si sono levate voci perché siano rese più severe le condizioni previste dal decreto Amato per la concessione della cittadinanza italiana agli immigrati. In particolare sul Corriere della Sera l'autorevole Ernesto Galli della Loggia chiede che gli immigrati che vogliono ottenere la cittadinanza italiana dimostrino di essersi integrati nella nostra cultura, di voler inviare o di aver inviato i propri figli alle scuole italiane e propone l'istituzione di corsi speciali di cultura italiana e di alfabetizzazione che costoro dovrebbero frequentare.

A seguito, Fare la cristiana (Miguel Martinez; Kelebek)

«È un vero e proprio "piano Marshall culturale"», come egli stesso scrive, quello che ipotizza Galli della Loggia.
A mio avviso è una strada sbagliata e iniqua. Quelle che vanno richieste agli immigrati devono essere solo condizioni di fatto, per così dire tecniche, senza esamini culturali: l'aver soggiornato regolarmente nel nostro Paese per un certo numero di anni (che per il decreto Amato sono cinque ma potrebbero, se lo si ritiene opportuno, anche essere aumentati) e il pagarvi le tasse. Punto e basta. Le «rieducazioni» forzate lasciamole all'esperienza cinese dell'epoca di Mao e della sua «Rivoluzione culturale». A Brooklyn ci sono migliaia di italiani che vivono a tutti gli effetti, che votano negli Stati Uniti, e che non sanno spiccicare che poche parole d'inglese. Americani e tedeschi che vivono in un Paese diverso dal loro, e magari vi han preso la cittadinanza, mandano i loro figli alla scuola americana o tedesca, se ci sono. Le comunità ebraiche sparse per il mondo conservano gelosissimamente la loro cultura e le loro tradizioni. Un immigrato, pur diventato cittadino di un Paese diverso dal suo di origine, deve avere la libertà di scegliere se integrarsi o meno nella cultura del luogo in cui vive. È una sua facoltà. Se sente il bisogno di rimanere legato alla propria storia, alle proprie tradizioni, alla propria cultura, agli schemi mentali della sua comunità d'origine deve essere libero di farlo, sempre che, ovviamente, rispetti, come tutti gli altri cittadini, le leggi del Paese in cui vive, cosa questa sulla quale non si può transigere nemmeno per faccende di dettaglio, infini tamente meno gravi di un omicidio.

Ma questa smania di educare o «rieducare» è una questione che va ben al di là del problema dell'immigrazione e riguarda quello che io ho chiamato «il vizio oscuro dell'Occidente»; vale a dire la pretesa di omologare tutto l'universo mondo alla nostra storia, alla nostra cultura, alle nostre concezioni, ai nostri princìpi, ai nostri schemi mentali, alla nostra «way of life», alle nostre istituzioni. È anche (dico anche) per «democratizzare» l'Iraq e, con effetto domino, il Medio Oriente, cioè per omologarlo a noi, che abbiamo invaso e occupato quel Paese provocando uno sconquasso inenarrabile. Ed anche (dico anche) per «democratizzare» l'Afghanistan, cosa totalmente assurda per un popolo che ha storia, tradizioni, vissuti, cultura, metodi di selezione delle leadership diversissimi e lontanissimi dai nostri, che teniamo in piedi un governo-fantoccio come quello di Karzai che non è altro che una diretta emanazione dell'Amministrazione americana. I talebani saranno stati quello che saranno stati, ma erano una storia afghana. Noi abbiamo espropriato la storia di quel popolo per sostituirla con la nostra.

Il fatto è che l'Occidente, che si dice liberale, non è più in grado di accettare, e nemmeno di tollerare «l'altro da sè», «il diverso da sè». Accettiamo il «diverso» solo nella misura in cui si omologa a noi. Che è un modo molto facile e molto comodo di relazionarsi col diverso. Il «diverso» va accettato nella sua diversità (sempre che, s'intende, non pretenda a sua volta, di imporla a noi).

Un mondo omologato ad un unico modello culturale, che è quello verso cui stiamo stolidamente andando, sarebbe una sciagura. Perché la diversità, con tutto il suo carico di conflittualità, non è solo, come sappiamo tutti, il sale della vita. È la vita stessa. Già Eraclito (VI secolo a.C.), polemizzando con Omero (altro era, a quei tempi, il livello delle polemiche e dei suoi protagonisti) sosteneva in un famoso frammento: «Quando Omero scrive "Possa la discordia sparire fra gli Dei e fra gli uomini" non si accorge che egli prega per la distruzione dell'universo; se la sua preghiera fosse esaudita tutte le cose perirebbero». Per Eraclito l'universo è energia e l'energia è resa possibile solo dalla incessante tensione fra gli opposti. Su un piano meno cosmico questo vale anche per le culture. Un mondo monoculturale non sarebbe solo infini tamente noioso, sarebbe un mondo morto.