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“Morire” per rinascere

di Massimo Fini - 18/10/2005

Fonte: linea

Semplicemente un uomo
“Morire” per rinascere

Massimo Fini


Cosa ci insegna la
vicenda di Lapo
Elkann? Che questo
modello di sviluppo è
riuscito nell’impresa di far
star male anche chi sta
bene. Una società dinamica
come la nostra è basata su
un principio che Ludwig
Von Mises, uno dei più
estremi, ma anche coerenti
teorici dell’industrial-capitalismo,
capovolgendo venti
secoli di pensiero occidentale
e orientale, ha espresso con
grande chiarezza: “Non è
bene accontentarsi di ciò che
si ha”. Ma poiché ciò che
non si ha non ha limiti ecco
il senso di frustrazione e di
scacco esistenziale che, ad
un certo momento della
nostra vita, ci prende alla
gola, momento che per i ricchi
viene probabilmente prima
che ad altri. Se io ho già,
apparentemente, tutto, ma
se l’imperativo categorico è
che non devo accontentarmi,
che mi resta da fare se non
tirarmi un colpo di pistola o
suicidarmi al dettaglio che
sembra la via scelta da Lapo
Elkann?
Questa società che ha stolidamente
osato proclamare,
nella Dichiarazione di Indipendenza
americana, il
“diritto alla ricerca
segue dalla prima
(…) della felicità” (parola proibita
che non dovrebbe essere mai pronunciata)
che poi, dall’edonismo
straccione contemporaneo, è stato
introiettato come un diritto tout
court alla felicità, ha dimenticato il
grande valore pedagogico del dolore,
della sofferenza, della privazione.
Il preside di una scuola elementare
milanese, l’Istituto Cadorna, ha
mandato ai genitori di bambini
musulmani che la frequentano, e
che durante il mese del Ramadam
digiunano nelle due ore di refezione,
come vuole il Corano, una lettera
in cui gli impone di tenere i
figli a casa in quelle due ore e di
riportarli a scuola dopo. E poiché
nessuno ha tempo di portare e
riportare quattro volte i figli a
scuola, il significato della lettera
del preside è che questi genitori
devono scordarsi del Ramadam e
del Corano e far mangiare i loro
figli, come tutti gli altri. Un dirigente
della scuola, Romano Mercuri,
ha detto: “È crudele costringere
questi bambini a digiunare, mentre
gli altri mangiano contenti”. L’assessore
all’educazione, Bruno Simini,
ha dichiarato che “la salute viene
prima della religione” e ha
accusato i genitori dei bambini
musulmani di essere degli “irresponsabili”.
Ma le norme del Corano, come tutte
quelle religiose, non sono messe
lì per capriccio, hanno uno scopo.
Quello del digiuno è di insegnare,
ad adulti e piccini, il valore della
privazione proprio per poter poi
godere dei beni e dei piaceri della
vita (e infatti dopo il digiuno diurno
la sera si fa una grande abbuffata).
Sono questioni di pedagogia
e psicologia elementare che già
Eraclito (VI secolo a.c.) conosceva
quando dice: “la malattia rende
dolce la salute, il male il bene, la
fame la sazietà, la stanchezza il
riposo”. E Leopardi, ne La quiete
dopo la tempesta, canta da par suo
“Si dolce, si gradita quand’è,
com’or, la vita?... Piacer figlio
d’affanno; gioia vana che è frutto
del passato timore, onde si scosse e
paventò la morte chi la vita aborria”.
Per cui è più facile che non
fra i piccoli digiunatori musulmani,
ma fra quelli che “mangiano
contenti” le loro merendine si trovino,
domani, i futuri Lapo Elkann.
Quanto al nipote di Agnelli, io trovo
qualcosa di positivo in ciò che
ha fatto.
Il suo percorso sotterraneo di autodistruzione
e di autodegradazione
(coca e travestiti, i più laidi possibile,
un cocktail abbastanza consueto
fra le persone di successo)
era una disperata ribellione a uno
stile di vita e a un modo di dover
rappresentarsi che evidentemente
non lo riguardavano, gli pesavano
enormemente (e, in un certo senso,
siamo un po’ tutti dei Lapo Elkann
costretti dalla società delle apparenze
a recitare parti in commedia
che ci sono in fondo estranee). E,
se Eraclito, Leopardi e Nietzsche
(“ogni malattia che non uccide il
malato è feconda”) hanno ragione,
proprio questa esperienza-limite e
drammatica - l’essere stato a un
passo dalla morte - può essere per
lui un’occasione di rinascita. Non
più come uomo-immagine Fiat, ma,
finalmente, come uomo.
Massimo Fini