Il Trattato Italo-Libico del 2008 e i suoi democratici detrattori
di Filippo Bovo - 01/09/2014
Fonte: Stato e Potenza
Com’è noto, dopo le drammatiche vicende del 1986 i rapporti italo-libici entrarono in una lunga fase d’ambiguità caratterizzata da un’alternanza fra momenti di tensione, ad esempio con reiterate richieste d’indennizzo da parte libica all’Italia, ed infruttuosi tentativi di rilanciare gli interscambi fra i due paesi, in continua e costante crescita prima dell’attacco americano. Il momento di svolta viene individuato nel ’98, col famoso “Comunicato congiunto” Dini-Mountasser, un documento firmato a Roma il 4 luglio di quell’anno col quale i due responsabili delle diplomazie italiana e libica auspicarono una serie di misure da parte del governo italiano (ricerca dei familiari dei libici deportati in Italia, aiuti nello sminamento e ai libici danneggiati dalla guerra e dalla dominazione coloniale) che, unite a più concreti progetti economici ed industriali da parte d’una società mista italo-libica, avrebbero dovuto rappresentare quella ideale e materiale riparazione che da sempre la Libia s’aspettava dall’Italia. Tale riparazione dei danni bellici e coloniali veniva vista come la chiave del rilancio su vasta scala dei rapporti italo-libici, capace di seppellire gli antichi rancori e di fondare una stabile e duratura amicizia fra i due popoli e le due sponde del Mediterraneo. Purtroppo il documento firmato da Dini e Mountasser non giunse mai al Parlamento italiano, rimanendo così lettera morta; tuttavia ebbe il merito di richiamare l’attenzione su un tema, quello dell’impellenza di recuperare i rapporti fra Italia e Libia, sempre più sentito in entrambi i paesi.
Nel 2001, con l’arrivo del governo Berlusconi, si decise così di lasciar definitivamente perdere l’accordo fra Dini e Mountasser, ormai decisamente passato in cavalleria, per puntare su un “gesto simbolico” (poi ribattezzato “Grande gesto”) anche in questo caso con un chiaro intento riparatorio. Già ai tempi di Craxi e d’Andreotti s’era parlato, ad esempio, d’un ospedale in cui curare i libici, in particolare bambini, che rimanevano vittime delle mine italiane ancora sepolte nel deserto; l’idea venne rilanciata da Berlusconi, che la espresse ufficialmente a Gheddafi in un incontro tenutosi in Libia il 28 ottobre del 2003. Si parlava d’un investimento d’almeno 60 milioni d’euro, con la formazione stavolta d’un centro oncologico guidato dai maggiori esperti italiani. Il progetto, esattamente come nella Prima Repubblica, sfumò perchè non soddisfava comunque le comprensibili richieste libiche d’ottenere una riparazione ben più che simbolica. Gheddafi aveva avanzato la proposta di un’autostrada che, percorrendo la costa libica, congiungesse il confine tunisino con quello egiziano, opera dal valore oscillante fra gli 1,5 ed i 6 miliardi d’euro. Le trattative intavolate per la costruzione di simile infrastruttura erano giunte ad un punto morto allorchè, nel dicembre del 2004, la parte libica aveva constatato come il governo italiano non fosse in quel momento in grado d’onorare tale promessa. Un risultato era stato comunque ottenuto poiché, seppur solo ufficialmente, a partire da quell’anno il 7 ottobre non sarebbe stato più celebrato come “Giorno della Vendetta” ma bensì come “Giorno dell’Amicizia” fra l’Italia e la Libia.
La breve parentesi del governo Prodi fu scossa dagli incidenti di Bengasi, allorchè il consolato italiano vide una vibrante protesta da parte di molti libici indignati per l’esibizione in televisione delle vignette contro Maometto da parte dell’esponente leghista Roberto Calderoli. Prodi, che pure molto aveva lavorato per portare avanti una normalizzazione dei rapporti con la Libia, vide vanificati i suoi sforzi da questo incidente che rendeva al contempo non ancora consigliabile una visita di Gheddafi in Italia. Vi fu comunque l’importante Convegno del 26 ottobre 2007 sui deportati libici, in una data particolarmente significativa per la Jamahiriya, che proprio in quel giorno soleva celebrare le deportazioni del 1911 interrompendendo le comunicazioni diurne con l’esterno. Sempre sotto Prodi, si cominciò a delineare l’accordo successivamente adottato da Berlusconi nel 2008.
E proprio col ritorno di Berlusconi, nel 2008, s’ha la firma del Trattato d’Amicizia e di Cooperazione fra la Repubblica Italiana e la Jamahiriya Libica, siglato il 30 agosto a Bengasi e ratificato dal nostro Parlamento il 6 febbraio del 2009 e dalla Libia il successivo 2 marzo, in occasione d’una nuova visita di Berlusconi a Tripoli. L’accordo, molto contestato dalle opposizioni (ma anche da una parte degli ambienti governativi, quelli per tradizione più filoatlantici, che nel 2009-2010 troveranno il loro leader più rimarchevole in Gianfranco Fini sfilandosi dal governo con l’effimero esperimento di FLI), prevedeva un indennizzo alla Libia di 5 miliardi d’euro, a fronte dei quali Tripoli si sarebbe impegnata a fronteggiare l’immigrazione clandestina e a garantire una preziosa boccata d’ossigeno all’economia italiana nella forma di nuovi investimenti nello Stivale da parte delle banche e delle imprese libiche. Si definiva una volta per tutte la costruzione dell’autostrada lungo la costa libica, per una lunghezza di 2000 chilometri ed una spesa totale di 3,5 miliardi d’euro e si chiudevano i contenziosi con le ditte italiane danneggiate dalle azioni libiche del 1970, operazione dal valore di 600 milioni d’euro.
Naturalmente, come abbiamo già detto, alla firma del Trattato ci sono state polemiche infinite da parte della solita “sinistra al caviale” e della “destra liberale” entrambe due facce della stessa medaglia appesa al nastrino dell’atlantismo e dell’acritica fedeltà a Washington. Molte critiche sono state rivolte riguardo al tema dei “diritti umani”, ma soprattutto alla compatibilità di tale Trattato con la NATO. Com’è noto, la Libia di Gheddafi era insieme alla Siria d’Assad l’unico paese del Mediterraneo a non collaborare in alcuna forma col dispositivo NATO, e l’ipotesi che per onorare un simile trattato l’Italia venisse meno al suo tradizionale ruolo di alleato più fedele (o succube) del Patto Atlantico faceva semplicemente inorridire i perbenisti dell’europeismo atlantista di casa nostra. L’Italia che s’allontana dall’amministrazione Obama (ricordiamoci del criticatissimo precedente dell’abbronzato)? Non sia mai!
Peccato, perchè già a partire dal 2007, e quindi ancor prima che il Trattato venisse sottoscritto, l’ENI e la Libyan National Corporation firmavano un accordo in base al quale le concessioni per l’estrazione di petrolio e di gas venivano estese per gli italiani rispettivamente al 2042 e al 2047: era il 16 ottobre, quasi un anno prima di Bengasi. A trattato firmato, i rapporti economici e commerciali fra Libia ed Italia s’intensificavano con l’acquisto del 7% d’Unicredit da parte della Banca Centrale Libica e della Libyan Investment Authority, del 7,5% della Juventus da parte della Lafico, dell’1% dell’ENI, ecc. Non parliamo poi delle varie commesse andate ad Ansaldo ed Impregilo, così come a molte piccole e medie imprese italiane.
Un rafforzamento, quello dei rapporti fra Italia e Libia, che ha ingelosito molti governi esteri (Obama, Cameron e Sarkozy sono i primi della lista, tanto per non far nomi) che si vedevano sottrarre la torta dal disprezzato Berlusconi, “l’amico di Putin” e ora anche di Gheddafi; ma che soprattutto ha mandato in bestia i cultori del “politically correct” all’italiana, che non hanno tardato a palesarsi in tutto il loro sbavante odio politico ed ideologico in occasione delle visite del Qa’id libico in Italia. Quando il 10 giugno del 2009 Gheddafi venne in visita a Roma, a La Sapienza fu subito oggetto della feroce contestazione degli studenti dell’Onda, mentre al Senato trovò la non proprio calorosa accoglienza della delegazione del Partito Radicale Transnazionale nel PD. Il 16 novembre dello stesso anno Gheddafi ritorna in Italia per partecipare ad un incontro della FAO e viene ovviamente di nuovo contestato, sempre dai soliti Radicali e da altri che esprimono tutta la loro indignazione in un flash mob. Anche l’Italia dei Valori ed il resto del PD s’allinearono alle proteste, esprimendo in entrambe le occasioni tutta la loro contrarietà a manifestare ospitalità nei confronti di Gheddafi. Tutta gente che protestava parlando di diritti umani violati e di deficit di democrazia (intesa, evidentemente, come mancata apertura al mercato globalizzato a guida statunitense, alla NATO, ecc) ma che poi non ha avuto nulla da ridire allorchè i simpatici “ribelli” di Bengasi, foraggiati proprio dai loro eroi a stelle e strisce, hanno compiuto vere e documentate atrocità (chi si ricorda, ad esempio, dei soldati libici costretti a mangiare carne di cadaveri e di animali putrefatti prima di venir uccisi?). Anzi: li hanno pure idolatrati.
Per carità: gli studenti, per esempio, erano soprattutto male informati e traditi dalla loro buona fede. Bisogna essere comprensivi. Ma se per rendersi conto dei propri errori non è bastato vedere la Libia ridotta in cenere, oggi trasformata in una grande Somalia affacciata sul Mediterraneo ed in cui i signori della guerra proclamano emirati e califfati e si spartiscono ciò che resta della Jamahiriya, allora viene da sospettare che anche alla comprensione si debbano porre dei limiti. Dopotutto c’è un proverbio che dice che certa gente farebbe perdere la pazienza anche ad un santo.
In tutta la dolorosa vicenda del 2011, l’Italia ha dimostrato di non possedere sovranità, né di sapersela difendere o guadagnare: ha perso ciò che era suo, lasciando che altri glielo sottraessero, e men che meno ha avuto il coraggio o attuato anche solo un goffo tentativo di difenderlo. Non ha onorato un trattato che era stato firmato e successivamente celebrato in pompa magna, e s’è poi genuflessa dopo la caduta e la morte del Qa’id presso le nuove ed illegittime autorità libiche perchè fosse ripristinato. Quale considerazione possono avere d’un simile paesi i vari governanti libici, passati, presenti e futuri, così come gli alleati europei e della NATO? E soprattutto, quale considerazione possono averne quegli italiani che si sono svegliati (e non sono pochi) e che di questa “Italietta” sciuscià del declinante Impero atlantico ne hanno veramente piene le scatole? La storia dedicherà, a questo paese avvilito ed asservito, ben poche ed inclementi pagine.