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L’odore dell’India

di Stenio Solinas - 18/10/2005

Fonte: linea

Un Paese a due dimensioni, comunque senza speranze
L’odore dell’India
Moderno contro antico, ovvero il fardello della tradizione

Stenio Solinas

Quarant’anni fa, appena
quarantenne, Pier
Paolo Pasolini andò
per la prima volta in
India, invitato per le
celebrazioni in onore del poeta
Tagore. Vi andò in compagnia di
Alberto Moravia ed entrambi trassero
da quel viaggio un libro, in cui
già dal titolo si capisce la diversità
che li animava. «Un’idea dell’India
» racconta infatti il modo di pensare
e di viaggiare dell’autore di
«Gli indifferenti», un borghese colto,
cosmopolita, razionale, capace di
accettare ciò che vedeva senza per
questo identificarsi. «L’odore dell’India
» è invece la rappresentazione
plastica di come il futuro autore
degli «Scritti corsari» concepisse la
conoscenza dell’altro da sé e dell’altrove,
una sorta di immersione irrazionale,
istintiva, panica per molti
versi, prontissima a identificarsi,
eppure al fondo incapace di accettare
il diverso con cui veniva in contatto.
Adesso l’editore Guanda ripubblica
quel diario di viaggio pasoliniano
(120 pagine, 6 euro), con in appendice
un’intervista che Renzo Paris
fece a Moravia dopo la morte dell’amico
e in cui questi, con la lucidità
che gli era propria, delinea perfettamente
il confine fra quei due modi
di essere: «Tra Pasolini e me c’era
una divergenza sul Terzo Mondo.
Lui sosteneva che era rovinato dalla
Rivoluzione industriale e dal consumismo,
io pensavo e penso ancora
che il Terzo Mondo scomparirà e
che non è abbastanza industrializzato
e consumistico. Dalla cultura
contadina non c’è da aspettarsi più
nulla di buono, dunque è meglio farla
finita e fare davvero la rivoluzione
industriale».
All’inizio degli anni Sessanta l’India
era ancora un paese agricolo cui
Nehru cercava di imporre l’industrializzazione,
le centrali elettriche
come nuovi templi, vedendola l’unica
via d’uscita da una condizione di
arretratezza e di miseria. A Pasolini
non piaceva di Nehru quello che fu
invece il suo tratto più felice, ovvero
l’idea che uno Stato democraticoparlamentare
fosse comunque il più
adatto per affrontare e provare a
risolvere i grandi problemi di una
nazione che allora aveva oltre quattrocento
milioni di abitanti e un’indipendenza
appena decennale.
Avrebbe voluto Pasolini uno «stato
di emergenza», una sorta di autoritarismo
che cominciasse a far subito
piazza pulita del sistema castale, e
sembrava non rendersi conto che
solo attraverso un rimescolamento
lento, ma costante dal basso verso
l’alto quel sistema sarebbe andato
erodendosi, come infatti è accaduto.
Al di là di ciò, l’attenzione politica
di Pasolini non andò, eccezion fatta
per un’analisi intelligente su quella
che era allora una classe borghese in
fieri di cui colse perfettamente il
ripiegarsi su sé stessa e su cui torneremo.
Per il resto L’odore dell’India
è una navigazione sentimentale e
pietosa cui solo l’ambiguità pasoliniana,
il suo essere comunque europeo,
intellettuale, vitalista, impediva
il più completo naufragio. Così i
templi di Benares, le notti di Bombay,
le rive del Gange, l’incanto di
una terra ammaliante e impenetrabile
e, insieme, l’orrore dell’esistenza
che in essa vi si conduceva, l’odore
della vita, «di poveri cibi e di cadaveri
che è come un continuo soffio
potente che dà una specie di febbre»
scorrono nelle pagine di questo diario
pieno di visionaria attenzione, di
originale commozione.
Anche Pasolini come molti viaggiatori
che lo avevano preceduto o che
l’avrebbero seguito fece il suo simbolico
ingresso in India attraverso il
Gateway of India di Bombay, «quattro
grandi porte gotiche, di stile
liberty abbastanza severo: la sua
mole si disegna sull’orlo dell’Oceano
Indiano, come congiungendolo,
visibilmente, con l’entroterra».
Gateway of India è il nome dato
negli anni Venti del Novecento a
questo arco di trionfo, fra l’aulico e
il funereo, con cui l’Impero britannico
allora celebrò se stesso. Adesso,
nel primo decennio del nuovo secolo,
è più un anacronismo che un
monumento, come del resto è tutto
ciò che resta a Bombay dell’impronta
architettonica vittoriana che la
segnò, stazioni ferroviarie, chiese,
residenze ministeriali, un tempo
imponenti e intimidenti nella loro
cupezza gotico-veneziana, e ora più
simili a giocattoli di pietra sparsi qui
e là in una città che intanto cambiava
dimensioni, cresceva in altezza e
in larghezza, si moltiplicava quanto
a popolazione. Da un decennio
Bombay non è più Bombay, ma
Mumbay, ridenominazione nazionalistica
più che filologica: non esisteva
una Mumbay prima che nel 1500
i portoghesi la chiamassero Bona
Bahia, una baia adatta all’attracco
delle navi... Il battesimo sciovinista
è uno dei risultati del successo elettorale
dello Shiv Sena, l’Esercito di
Shiva, il partito prima localista, poi
induista di Bal Thackeray, un settantenne
leader che, ironia della storia,
guida una forza politica che nel culto
delle radici e del richiamo al passato,
l’Industan, non l’India, ha fatto
la sua ragione di vita, portandosi nel
cognome l’omaggio paterno all’autore
della «Fiera delle vanità», l’inglese
William Thackeray... Prima di
entrare in politica Bal faceva il
vignettista satirico, e anche questo è
in sintonia con la nuova India che da
un quindicennio a questa parte si è
andata delineando, una nazione dove
i partiti storici sopravvivono al
governo solo in virtù di alleanze
sempre più vaste, sempre più eterogenee,
sempre più instabili (in questo
arco di tempo, sei elezioni politiche
generali e sette primi ministri,
un numero maggiore che nei precedenti
quarant’anni di indipendenza,
governi in carica per una media di
18 mesi), attori, malfattori e giocatori
di cricket fanno i deputati, i governatori
o i ministri, nella Lok Sabha e
nella Rajya Sabha, rispettivamente il
Parlamento e il Senato federale, c’è
la più alta percentuale di inquisiti
per reati che vanno dalla corruzione
al ricatto, dal sequestro di persona
all’omicidio...
Porta d’ingresso dell’India di un
secolo fa, un secolo dopo Bombay-
Mumbay mantiene quel ruolo e per
certi versi lo rilancia: con i suoi 14
milioni di abitanti, quanti ne fa
l’Australia tutta intera, prima città al
mondo per popolazione, è il test
ideale per verificare il futuro delle
megalopoli. Sede del business informatico,
dell’economia basata sui
servizi, è un punto d’osservazione
privilegiato per analizzare la globalizzazione
e i problemi che essa
comporta. Culla dell’industria cinematografica
indiana, la mitica Bollywood
da 100 film l’anno, tre milioni
e mezzo di spettatori al giorno, 100
milioni di biglietti a settimana, è
insieme un veicolo culturale di
straordinaria efficacia, una fabbrica
di illusioni, un volano di ricchezza
economica circondato però dalla più
stridente, sconfortante e opprimente
miseria: metà della popolazione vive
in baracche o per strada, sotto i ponti,
lungo le linee ferroviarie, in uno
spazio che non supera il sei per cento
dell’intera area metropolitana...
Figli della modernità è il titolo del
miglior libro di Salman Rushdie,
che riprende il leit-motiv dell’emozionante
discorso con cui nel 1947
Nehru annunciò al suo popolo la
raggiunta indipendenza. “Molti anni
fa facemmo un patto con il destino e
ora è giunto il momento di rispettarlo.
Allo scoccare della mezzanotte,
mentre il mondo dorme, l’India si
sveglierà alla vita e alla libertà”.
Trasmesso per radio, pronunciato in
inglese, il battesimo della democrazia
indiana fu ascoltato e compreso
da una minoranza, quel 10 per cento
di élite medioborghese allevata dagli
inglesi a propria immagine e somiglianza.
L’anno dopo la morte di
Gandhi toglierà Nehru dall’imbarazzo
di una via rurale all’insegna della
autosufficienza agricola e di una
microdemocrazia da villaggio diffusa,
che era stata la ragione del fascino
del Mahatma e l’elemento che
aveva trasformato l’esiguo e angusto
irredentismo indiano in una realtà
popolare e di massa. Del messaggio
gandhiano rimasero i residui passivi
di una visione più spirituale che economica,
più basati sull’essere che
sull’avere ed essi vennero però messi
al servizio di una politica da
socialismo di Stato, più puritana che
rigorosa, più paternalistica che etica,
più dogmatica che economica. Per
17 anni Nehru perseguì un’idea dell’India
che non corrispondeva alla
realtà e lo fece in nome di una classe
dirigente che traeva la sua ragion
d’essere dal suo non mischiarsi in
alcun modo con la moltitudine che
era chiamata a governare. Alla
immagine della più grande democrazia
del mondo si contrapponeva la
realtà di una piccola oligarchia gelosa
dei propri privilegi, delle proprie
prerogative, delle proprie abitudini,
del proprio status.
Fra la morte di Nehru nel 1964, tre
anni dopo quel viaggio pasoliniano,
e l’assassinio di Indira Gandhi, sua
figlia, vent’anni dopo, questa visione
dell’India giunse al suo definitivo
e completo fallimento: l’economia
di Stato non decollò mai, l’industrializzazione
del Paese rimase impigliata
nei lacci di un sistema protezionistico
e burocratico che ne
impediva il rafforzamento e la competitività,
la classe media non scommise
mai sul proprio allargamento,
l’investire in termini di educazione e
di cultura, più campagne di alfabetizzazione,
più scuole, più infrastrutture,
che trasformasse in cittadini
una moltitudine di diseredati. Il
risultato è che oggi l’India investe
nell’educazione primaria nove dollari
l’anno procapite, laddove la Corea
del sud ne investe 130, la Malesia
128...
Si ruppe, inoltre, quel rapporto fiduciario,
di identificazione, che aveva
comunque fatto di Nehru un leader
indiscusso e carismatico, e della sua
politica di “non allineamento” un
elemento importante per tutto il Terzo
mondo. Ciò che Indira ereditò per
legami di sangue si disperse fra
accuse di nepotismo e tentazioni dittatoriali,
fino a scomparire definitivamente
con Rajiv Gandhi, il figlio
che ne prenderà il posto per essere,
di lì a pochi anni, assassinato anche
lui. Svuotato dei suoi simboli, scosso
da scissioni, il Partito del Congresso
che era stato pressoché ininterrottamente
alla guida del Paese,
diverrà una forza politica fra le altre,
e la partitocrazia il nuovo elemento,
instabile, della scena. Infine, il fallimento
della classe dirigente provocò
da un lato un arroccamento ulteriore
della stessa e dall’altro recise qualsiasi
trasmissione, di valori, di etica,
di rispetto, con la nuova borghesia
degli affari e del commercio che lentamente
veniva comunque formandosi.
Cresciuta nonostante e a
dispetto della prima, questa nuova
classe finirà per rigettarne gli insegnamenti,
la tradizione, lo status.
«All’inizio della nostra storia come
nazione indipendente - dice Pavank
Varma, diplomatico e autore di The
Great India Middle Class - c’era la
consapevolezza di essere un Paese
povero, che i poveri esistevano e che
qualcosa doveva essere fatta per
loro. Ora non è più così. Il numero
dei poveri è cresciuto, ma paradossalmente
e tragicamente è diminuita
anche l’abilità della classe media a
rendersene conto... Sono divenuti
parte del paesaggio e siccome rifiutano
di scomparire e non li si può
eliminare, non gli si presta interesse.
A Delhi, che è la capitale, un terzo
della popolazione vive in baracche,
un quarto non sa cosa siano i servizi
igienici».
Ciò che allora Pasolini intuì, «l’assenza
di ogni attendibile speranza»,
da stato d’animo si è trasformato in
prassi di vita.
Il nuovo corso dell’India da un
decennio a questa parte va letto
tenendo presente che in esso permangono,
mascherati e o e/o sottaciuti,
tutti gli elementi di insufficienza
quanto a leadership, progetto,
visione complessiva della società
che ne hanno a più riprese frustrato
il decollo. La privatizzazione economica
che è alla base del suo attuale
successo delinea i contorni di un
boom impressionante e tuttavia fragile.
Le bidonvilles di Bombay-
Mumbay che corrono a fianco e
intorno ai grattacieli disegnano un
Paese a due dimensioni, l’India
moderna che si porta sulle spalle il
fardello dell’India eterna senza sapere
però cosa farne, un peso di cui
vergognarsi più che un peso di cui
farsi carico.
L’odore dell’india è più aspro che
mai.
All’immagine della più grande
democrazia del mondo
si contrapponeva la realtà
di una piccola oligarchia
gelosa dei propri privilegi,
del proprio status.