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La grande moda della filantropia

di Alessandro Fioroni - 23/08/2006

 
La paura di un mondo diventato troppo diseguale spinge i ricchi a donare (con grandi vantaggi fiscali)

Bill Gates e gli altri miliardari buoni: la grande moda della filantropia


Lo scorso 9 agosto la Bill e Melinda Foundation ha annunciato che donerà 500 milioni di dollari per la lotta all’Aids e la malaria, ma già in luglio Bill e Melinda Gates avevano compiuto un viaggio in Sud Africa per pianificare il lavoro della loro Fondazione. Come riportano le cronache del “Guardian” hanno camminato nelle township più povere, incontrato persone che sopravvivono con niente, hanno voluto capire qual è la situazione dei malati di Aids e tubercolosi. Sicuramente una lodevole iniziativa. Contemporaneamente l’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, compiva anch’esso un tour africano che in pochi giorni lo ha portato a visitare cinque Paesi. Nel suo viaggio l’ormai sessantenne Bill era accompagnato da due uomini molto ricchi, il finanziere canadese Frank Giustra e il re dei media tedeschi Karl Heinz Körgel. Le due presenze non erano casuali, Clinton stava portando in tournè la sua compagnia per toccare con mano i progetti realizzati dalla sua Global Iniziative e soprattutto per convincere i due tycoon a fare nuove donazioni. Anche in questo caso una lodevole iniziativa. I coniugi Gates e Clinton si sono poi incontrati nel piccolo stato del Lesotho, in occasione dell’inaugurazione di una clinica specializzata nella cura all’Aids, realizzata proprio grazie ai fondi raccolti dall’ex presidente statunitense. Il meeting non è stato casuale e sebbene sembri che esista una specie di alleanza dei due Bill per combattere fame e malattie in Africa, i singoli approcci e le strategie adottate sono molto diverse. Il fondatore di Microsoft ha sicuramente dato impulso ad una gestione manageriale della filantropia e nonostante abbia dichiarato ai media, nel suo viaggio africano, che non intende affrontare singole situazioni ma tenere sotto controllo il quadro generale, il suo impianto concettuale appare evidentemente datato. A più riprese Gates ha detto di considerare la sua impresa come la costruzione di una famiglia ideale, la possibilità per i suoi figli di prendere coscienza dei mali del mondo e forse per questo ha portato materialmente i suoi bambini di 10 e 7 anni a passeggio per le township sudafricane. Anche Melinda Gates ha dichiarato di sentirsi: «come una mamma che provvede alle vite dei piccoli bambini salvati dai vaccini scoperti grazie alla Fondazione». Contrariamente Bill Clinton conserva una visione dei rapporti internazionali, la sua maggior risorsa non è il denaro bensì la parola. Il suo intento è quello di raccogliere e far convergere denaro in progetti ben definiti. In questo senso è un politico a tutto tondo che conosce perfettamente il valore dei risultati concreti, soprattutto si preoccupa dell’opinione pubblica e principalmente di quella costituita dai suoi finanziatori. Resta da vedere perché uomini ricchissimi stiano cavalcando l’onda del capitalismo filantropico collaborando con Clinton o Gates. In realtà il capitalismo è sempre un passo avanti ai suoi nemici o parafrasando una vecchia canzone, marcia alla loro testa. Questa inveterata capacità sta consentendo probabilmente un colossale riposizionamento del sistema economico attuale. Quando Warren Buffet ha donato 30 miliardi di dollari alla Fondazione Gates, ha dichiarato: «La vita è terribile per miliardi di persone nel mondo, e io ho deciso di unire le forze con Bill per ridurre quanto più possibile queste disuguaglianze». Traspare una malcelata critica all’economia americana senza mettere in discussione il tipo di sistema bensì i suoi strumenti. Buffett si è più volte scagliato contro le “stock options”, quest’ultime infatti spingono i capi d’azienda a massimizzare il valore delle azioni su un termine molto breve, poiché i top manager possono godere di questo elemento per aumentare la loro remunerazione. Tutto ciò provoca politiche finanziarie di corto respiro e contribuisce a formare diseguaglianze grandissime. In sostanza bisogna usufruire al massimo della piccola finestra di rialzo del valore azionario per esercitare le proprie le “options”. Stesso attacco Buffett lo rivolge a quelli che vengono definiti “derivati”, sempre più spesso consigliati dai gestori di fondi agli investitori. Il finanziere democratico li ha definiti come delle “armi di distruzione di massa” per via della loro instabilità e imprevedibilità, ma soprattutto per i tremendi danni che possono causare ai risparmiatori meno accorti. Di “derivati” o di “option” Buffett non ne ha veramente bisogno viste le sue partecipazioni nella Coca-Cola, che ammontano a circa 15 miliardi di dollari, o nella Disney con 8 miliardi. Una tale ricchezza è gestita dalla sua finanziaria, la Berkshire Hathaway, la cui oculatissima gestione rappresenta un atto d’accusa alla giungla della speculazione finanziaria ed anche alla politica economica di Gorge W. Bush. Come nel passato, sono statunitensi i campioni del capitalismo più coinvolti nel mondo delle cosiddette “charities”. Secondo alcune stime pubblicate nel 2004, basate sull’analisi di 36 Paesi, le donazioni di privati nordamericani ammontano a circa l’1% del Pil totale tra il 1995 e il 2000. Ma il trend è da considerarsi in ulteriore crescita come riporta il Giving Usa, il rapporto annuale curato dal centro per la filantropia dell’Università dell’Indiana. Nel 2004 infatti i soldi usciti dalle casse degli uomini più ricchi hanno raggiunto la cifra record di 248 miliardi di dollari e l’erario americano ha perso 40 miliardi di dollari, la cifra che avrebbe incassato se questi soldi non fossero stati soggetti a detassazione. E’ chiaro che una delle ragioni per cui molti multimiliardari stanno abbracciando questa “new age” filantropica, risiede nella legge statunitense che offre la possibilità di sgravare la propia dichiarazione dei redditi dal denaro speso in beneficenza. Ma a ben vedere, come mettono in evidenza alcuni osservatori del fenomeno, il rinascimento filantropico è da mettere in relazione con alcuni fattori tutt’altro che caritatevoli. Negli Stati Uniti il livello della spesa sociale è così basso che capitalisti, più accorti politicamente, intravedono nelle charities uno strumento per riequilibrare un sistema a rischio di implosione. Si pensi soltanto all’aumento dell’età totale della popolazione o al divario enorme tra ricchi e poveri concentrato nelle grandi aree urbane. La sciagura provocata a New Orleans dall’uragano Katrina è stato l’esempio tangibile del progressivo smantellamento dell’intervento pubblico e i danni lasciati dall’evento naturale sono stati scaricati sui privati, sia semplici cittadini che attività economiche. Alla nascita di un nuovo clima solidarisitico può aver contribuito il post 11 settembre che in qualche modo ha ricompattato la nazione costringendola a riflettere su se stessa, ma molto più prosaicamente stiamo assistendo all’ingresso nell’età adulta di una nuova generazione di cavalieri del capitale. I guru di quella che qualche anno fa veniva chiamata new economy, hanno preso definitivamente coscienza del loro ruolo e importanza. Abbandonate le montagne russe dell’indice Nasdaq questa nuova progenie di ricchi ha stabilizzato e consolidato le proprie imprese.

Importanti soggetti del settore hanno deciso di mettere mano al portafoglio, è il caso del fondatore di e-Bay Pierre Omidyar il quale si è reso protagonista di una donazione di 170 milioni di dollari destinati a bambini malati, così come il boss della Intel Gordon Moore è impegnato in cause ambientaliste. Gli strumenti operativi, attraverso i quali passa l’attività di beneficenza dei nuovi ricchi sono le Fondazioni, da sempre elemento principe dell’intervento privato “non profit” nel mondo anglosassone. Come nel medioevo europeo, quando quelli che potevano essere considerati i servizi sociali, erano appannaggio esclusivo della chiesa, istituzioni extra statali stanno acquistando una sempre maggiore capacità di condizionamento dei governi. Probabilmente le Fondazioni in quanto tali devono ancora dispiegare interamente la loro influenza ma in questo senso esistono già segnali significativi. L’esempio della Open Society di Gorge Soros è uno dei più noti, il concetto di democracy building che informa l’intera attività della Fondazione, può considerarsi come uno dei tentativi ideologici più riusciti di indirizzare politicamente giovani democrazie attraverso il finanziamento di innumerevoli iniziative. Ma non mancano esperienze già collaudate in questo campo e che hanno anch’esse una forte valenza politica. La Ford Foundation è la seconda istituzione benefica nel mondo (insieme alla Fondazione Stiching Ingka dell’Ikea) dopo la scesa in campo dei coniugi Gates, i suoi uffici vicini al Palazzo di vetro dell’Onu agiscono su scala planetaria così come la Clinton Global Iniziative, dopo aver raccolto 2,5 miliardi di dollari, tenterà un summit mondiale della filantropia a settembre, mettendo allo stesso tavolo personaggi come Rupert Murdoch, Kofi Annan, Tony Blair e naturalmente Bill Gates.

Diceva John Rockfeller: «Dio mi ha dato una gran massa di denaro e credo sia mio dovere farla fruttare sempre di più per avere altro denaro e fare con questo il bene dei miei consimili», un tale afflato, che sembra uscito direttamente dall’opera di Max Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, ha folgorato anche il fondatore della Microsoft che in qualche modo ha ripreso le considerazioni dei vecchi filantropi riadattandole alle attuali esigenze. Gates ha infatti introdotto l’idea della managerialità aziendale nella beneficenza ristrutturando strategie ed obiettivi. Ma sulle intenzioni dei Gates non sono pochi coloro che stanno esprimendo dubbi. Nonostante un capitale che ormai ammonta a 61miliardi di dollari le possibilità e i rischi d’intervento si sono moltiplicati, due infatti sono i problemi maggiori da affrontare: un’azione da dispiegare su scala vastissima e l’inquadramento dell’immensità dei problemi a cui dare soluzione. Con la donazione di Buffet i fondi disponibili arriveranno a tre miliardi di dollari annui, ma le persone povere del pianeta potranno contare su appena tre dollari a testa.


C’è poi il problema dell’assegnazione delle risorse, infatti sembra che la Fondazione Gates fatichi non poco trovare qualcuno al quale affidare il denaro per operare efficacemente.

Tuttavia l’impronta manageriale di Bill Gates sembra essere la strada dalla quale non è possibile deviare. Innanzitutto la Fondazione ha diviso la sua struttura complessiva in tre direzioni separate, realizzando una ristrutturazione che dovrebbe consentire di ampliare il raggio d’azione e contemporaneamente ha deciso di puntare essenzialmente sull’apporto di collaborazioni esterne. L’approccio è dunque quello delle moderne aziende multinazionali che fondano la loro azione sui cardini essenziali della specializzazione e dell’”outsourcing”. I Gates hanno resistito alla tentazione di pescare a piene mani dall’azienda di famiglia, sebbene la direttrice della Fondazione sia Patty Stonesifer già al vertice dell’azienda creatrice di Windows. La strategia è stata quella di fornire incentivi all’industria farmaceutica, di lavorare direttamente con i governi, agenzie internazionali o anche rockstar per campagne di sensibilizzazione. L’efficacia di tutto ciò è ancora da verificare sul campo e sull’operato della Fondazione si rincorrono luci ed ombre. La sola cosa certa è che non esiste una buona impresa se non preceduta da un’efficace politica di marketing. In questo senso in un rapporto della Fondazione, messo in luce da Andrew Brown del britannico Guardian, relativo alla ricerca e alla commercializzazione di un antibiotico destinato all’India, si legge testualmente: «Come le aziende farmaceutiche, anche le organizzazioni non profit devono impiegare ogni strumento a loro disposizione per capire quale sia il mercato per una nuova terapia, quali siano le aspettative di chi ne ha bisogno e quali siano i modi più intelligenti per fabbricare la domanda». Possibile che una cura sanitaria debba essere soggetta alle leggi della domanda e dell’offerta? Pare proprio di sì, infatti il mercato (le multinazionali farmaceutiche) può stimare un prodotto, seppure a basso costo, con un prezzo di produzione superiore al valore che esso da ad una singola vita umana. E’ proprio su questo punto che le idee dei Gates rischiano di naufragare. Per poter scardinare lo squilibrio esistente tra Paesi poveri e ricchi sarebbe necessaria una ridiscussione dei rapporti economici globali. Il recente fallimento dell’ultimo incontro del Wto è la prova tangibile che nessun filantropo può sostituirsi all’azione degli stati o a quella dei governi verso i propri cittadini.