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Il pensiero del corpo

di Alessandro della Ventura - 30/09/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Uno dei più grandi monaci buddhisti giapponesi, Taisen Deshimaru Roshi, appartenente alla corrente del buddhismo Zen, così si esprimeva: "la meditazione può essere la forma adulta della nostra vita. Quel metodo che procede dal corpo alla mente, capovolgendo quelle teorie razionalistiche che vogliono indagare con l'intelletto prima ancora che il corpo abbia fatto un solo passo. Tutto ciò che col corpo deve essere messo in pratica rischia la paralisi se anteponiamo sempre il ragionamento; il sistema psico-motorio rischia di bloccarsi ancor prima di iniziare qualcosa. Invece il metodo dal corpo alla mente rompe l'identificazione mentale con gli oggetti...Gli europei, dopo il Medioevo e il Rinascimento incominciarono a ricercare solamente l'intelletto e dimenticarono la pratica attraverso il corpo. I teologi non svilupparono che delle immagini nel cervello. Così la civiltá europea cadde nell'errore. La vera religione esiste nella pratica e così la vera filosofia... ".

Nel corso della nostra vita siamo abituati a dare per scontato di possedere un corpo. Vaghiamo in giro per il mondo alla ricerca di nuovi posti da scoprire e da conoscere. Se non ci spostiamo fisicamente, siamo comunque portati a divagare con la mente, a fare viaggi incommensurabili con la nostra immaginazione. In questo modo rischiamo di perdere il presupposto fondamentale, ciò che veramente esiste, ossia noi stessi. Ci adoperiamo talmente tanto nella ricerca di qualcosa fuori di noi, da perdere di vista che ciò che stavamo cercando è già dentro di noi, e anzi finiamo per smarrire proprio l’agente di quella ricerca.

Il più grande problema dell’uomo è dovuto paradossalmente alla sua discriminante, alla sua grandezza rispetto agli altri esseri viventi: il ragionamento, il pensiero concettuale. Sebbene la mente ci permetta di creare, di risolvere problemi, di cercare un senso alle questioni che ci si pongono davanti, ci separa continuamente dal momento presente facendoci vivere in una sorta di illusione, di cui noi stessi siamo gli artefici. Il concetto ci separa di volta in volta dall’istante, dalla vita. L’insegnamento principale della religione buddhista ci mette in guardia proprio da questo ed infatti ci insegna a lasciare andare via tutti i nostri preconcetti, le categorie, per farci entrare veramente in relazione con la realtà, senza il “velo di Maya” con cui l’abbiamo celata. Il modo per riscoprire la nostra unione con l’esistente, per evitare la separazione tra coscienza e mondo, tra soggetto e oggetto, è ritrovare parallelamente quella fusione tra mente e corpo. Questo è lo sforzo che si compie nella meditazione: coltivare la consapevolezza del nostro “essere” corpo e al tempo stesso placare lo spirito ribelle della mente, che vuole continuamente tenerci occupati, farci rimanere in azione per rimuginare la realtà. Uno dei più grandi monaci buddhisti giapponesi, Taisen Deshimaru Roshi, appartenente alla corrente del buddhismo Zen, così si esprimeva: “la meditazione può essere la forma adulta della nostra vita. Quel metodo che procede dal corpo alla mente, capovolgendo quelle teorie razionalistiche che vogliono indagare con l’intelletto prima ancora che il corpo abbia fatto un solo passo. Tutto ciò che col corpo deve essere messo in pratica rischia la paralisi se anteponiamo sempre il ragionamento; il sistema psico-motorio rischia di bloccarsi ancor prima di iniziare qualcosa. Invece il metodo dal corpo alla mente rompe l’identificazione mentalecon gli oggetti…Gli europei, dopo il Medioevo e il Rinascimento incominciarono a ricercare solamente l’intelletto e dimenticarono la pratica attraverso il corpo. I teologi non svilupparono che delle immagini nel cervello. Così la civiltá europea cadde nell’errore. La vera religione esiste nella pratica e così la vera filosofia… “. Appare evidente perciò che per ritrovare veramente sè stessi e l’unione corpo-mente è indispensabile la pratica, fare l’esperienza, e non abbandonarsi alle rappresentazioni e ai circoli viziosi di quella mente continuamente ‘affamata’. E’ molto eloquente a questo proposito la frase di Hegel che dice che “la mente è un’ingrata, digerisce tutto ciò che gli si fa incontro”.

Il punto su cui vale la pena soffermarsi è l’errore in cui sono caduti gli europei. Nel corso della storia, infatti, sono stati molti i momenti in cui l’uomo ha acuito la distinzione tra corpo e mente. Descartes, con la sua separazione tra res cogitans e res extensa, è stato uno dei principali fautori e capostipite del successivo razionalismo impersonificato da Spinoza, Kant, Locke, Voltaire, Popper. Ma le origini di questa scissione sono facilmente riscontrabili nell’antichità a partire dalla filosofia platonica e successivamente da quella cristiana. Il mondo sovrasensibile (iperuranio, idee) assume maggiore rilievo rispetto a quello sensibile, al punto che quest’ultimo è una gabbia che imprigiona la natura più pura e spirituale dell’uomo. Con il cristianesimo questa idea si radicalizzerà ancora di più. Pensando alla filosofia di Sant’Agostino nella sua opera principale, le Confessiones, è chiaro come il corpo sia visto solamente come origine di tutti i mali, “superba putredo”, ostacolo alla piena realizzazione di sè e al ricongiungimento con Dio. La carnalità è una prigione dell’anima di cui ci si deve liberare per raggiungere i fini più nobili. Ma il punto chiave è che noi non “abbiamo” un corpo, quanto noi “siamo” corpo; fa parte del nostro essere uomini, e un vero uomo è tale se riesce a trovare l’equilibrio tra le proprie pulsioni e ciò che gli detta la ragione. Inoltre l’Assoluto è già qui, su questa terra, e privilegiare una dimensione trascendente a discapito di quella che ci è più prossima è una forma di follia. Uno dei più grandi teologi cattolici, Raimond Panikkar, celebre per il suo impegno profuso nel dialogo interreligioso, affermava così: “La religiosità è un’energia dell’uomo che lo spinge verso un plus, verso l’altro, verso l’ignoto. Merita il nome di religione tutto quello che lega ciò che è sotto il segno dell’unità a cominciare dall’unionemente-corpo. Una religione che intende salvare solo ‘l’anima’ non è che uno gnosticismozoppicante, altrettanto se si occupa solo del corpo. Una religione che non mi legasse con la materia non sarebbe religione ma ideologia” e ancora “[...]senza un rapporto piu che fraterno con tutto il mondo materiale, senza aver superato l’alienazione che comincia dal nostro corpo e continua con il corpo dell’altro fino a tutto il resto del mondo materiale, non si puo’ avere una vita pienamente umana…Chi non e’ un innamorato della materia, chi non e’ sensibile alla bellezza non potra’ poi ne’ estrapolare, ne’ saltare, ne’ fare qualsiasi altra cosa e tutto allora diventera’ una specie o di alienazione o di astrazione o di parole vuote. Senza l’intuizione, senza la cura della vita dei sensi, senza la nostra identificazione con tutto il mondo materiale, cominciando con il nostro corpo: io non ho un corpo, sono corpo…”.

E’ interessante notare come anche Heidegger, con la sua concezione di esserci (da-sein) e essere-nel-mondo, avesse capito come la corporeità e la spazialità sono modi attraverso cui si esprime la presenza, l’esistenza e quindi imprescindibilmente collegati al soggetto e alla sua capacità di vivere e di percepire la realtà. Non si può trascurare una modalità così profonda attraverso cui l’uomo si approccia alla realtà, ma è necessario coltivarla per ritrovare la giusta relazione con l’Essere. La vera saggezza perciò risiede in questo equilibrio profondo; essere in armonia con sè e con il mondo in modo da accettarlo nella sua impermanenza, e non lasciarsi andare alle proprie fantasie o ai propri interessi egoistici. La bellezza e la purezza sono presenti in ogni momento della vita quotidiana. Basterebbe solo coltivare uno sguardo nuovo sull’esistente, senza che si frapponga in quel momento di osservazione il tarlo del desiderio e dell’aspettativa.