Gerusalemme. La via obbligatoria, lo struzzo e le tre scimmiette
di Franco Cardini - 12/11/2014
Fonte: Franco Cardini
Ero stato purtroppo buon profeta: è facile del resto esserlo, in casi come questo. La settimana scorsa mi ero occupato delle reazioni di alcuni israeliani di buona volontà di fronte alla politica di confische e di espulsioni sostenuta a Gerusalemme est dal governo Nethanyahu in stretto rapporto con quella di continue costruzioni d’immobili destinate a nuovi coloni in Cisgiordania: smentivo la bieca leggenda secondo la quale tutti gli israeliani o quasi sono d’accordo con questa politica di espropri e di progressiva riduzione pratica del territorio sul quale dovrebbe impiantarsi un futuro stato palestinese sempre meno probabile (salvo il miracolo di un ferma posizione delle Nazioni Unite, ancor più probabile adesso dopo la vittoria repubblicana nelle elezioni statunitensi di mid term); sottolineavo tuttavia come la questione palestinese e della presenza nello stato ebraico di un milione circa (su sette) di cittadini arabi sia ormai sottovalutata e considerata dalla maggior parte degli israeliani ebrei con una certa noia come “una spina nel sedere” rispetto a problemi da essa considerati di più evidente e immediato momento, quali la tensione alle frontiere egiziane, libanesi e siriane o la situazione economica e lavorativa del paese; osservavo infine come la politica del “fatto compiuto” che presiede alle scelte insediative ed espropriatrici del governo Nethanyahu proceda senza soste né incertezze all’ombra dell’a priori dell’appoggio statunitense, e che nonostante ciò il governo attuale non sia il meno disposto alle trattative con i palestinesi che si potrebbe immaginare. Dietro Nethanyahu – che ha varato di recente un provvedimento che punisce con pene detentive fino a 20 anni chi colpisca e danneggi un’auto con una pietra -, si allunga l’ombra di formazioni politiche come quella del rabbino Yehuda Blick (di recente scampato da un attentato terroristico), fautore di un’apparentemente distensiva proposta secondo la quale si dovrebbe riconoscere agli ebrei il diritto di pregare sulla Spianata del Tempio “in pace e amicizia con gli arabi” (senza curarsi del fatto che la maggioranza di questi ultimi interpreterebbe un tale evento come il preludio di un ulteriore occupazione-esproprio e senza chiarire che cosa gli ebrei sarebbero disposti a offrire agli arabi in segno di reciprocità) o del partito della “Casa Ebraica” dell’attuale ministro dell’economia Naftali Bennett, iperliberista e convinto sostenitore di una sempre più intensa politica d’insediamenti dei coloni ebrei in Palestina.
Noto ora che il mio allarme non era infondato. Il numero di ottobre 2014 di “Le Monde diplomatique” dedica i due imponenti e spaventosi paginoni 4 e 5, firmati da Olivier Pironet, a En Cisjordanie, le spectre de l’Intifada; e Gad Lerner, con un bel reportage edito da “La Repubblica” del 3 novembre scorso, p. 14, Sulla Spianata delle Moschee dove i fanatismi accendono l’odio, rincara la dose notando come ormai l’estremismo messianico sionista sia ampiamente penetrato anche nell’esercito da dove fino ad almeno una quarantina di anni fa era severamente ed accuratamente escluso, mentre d’altro canto crescono i movimenti radicali e jihadisti nel mondo musulmano palestinese. E Lerner, descrivendo le linee di una “nuova Intifada” ormai di fatto già scoppiata, ne individua la ragione nel fatto che essa esploda “nel cuore di Gerusalemme, cioè dove ebrei ed arabi, pur odiandosi, saranno in ogni caso costretti a vivere mescolati. Destino reso ineluttabile dall’annessione della Città Santa divenuta capitale ‘indivisibile’ d’Israele nel 1967, quindi priva di check point e confini tracciati”. Col che, si torna implicitamente a riflettere sul fatto che se i vari governi israeliani avessero dato ascolto alla risoluzione dell’ONU, più volte ribadita e reiterata, che imponeva loro di rientrare appunto nei confini anteriori alla guerra scoppiata in quell’anno, le cose avrebbero potuto andare diversamente. L’ineluttabile “costrizione” della “mescolanza” deriva quindi obiettivamente dalla pervicace inadempienza rispetto alle risoluzioni ONU, che è anche la radice del terrorismo. Ma per il momento i dirigenti israeliani hanno mostrato d’individuare soltanto un rimedio alla situazione determinatasi: quella di ridurre progressivamente lo spazio vivibile per i palestinesi fino a costringerli ad andarsene. Ma andarsene dove? E qui è lo stesso Gad Lerner a chiamare in causa, in modo del tutto opposto alla political correctness, la domanda di fondo del recente romanzo di Amos Oz, Giuda: è stata davvero una buona e saggia soluzione, da parte degli ebrei d’Israele, costruire uno stato istituzionalmente ed esclusivamente “ebraico” in un territorio largamente insediato da non-ebrei?
Presso Betlemme sorge il borgo arabo-cristiano di Beit Sahur (il Campus Pastorum dei nostri pellegrini medievali): di fronte ad esso, arcigna e incombente si erge la mole-fortezza-dormitorio dell’insediamento di Har Homa, insediato sulle terre di quel comune palestinese. Un mostro di cemento dove non si lavora né si produce: è uno della ventina d’insediamenti in via d’espansione, tutti dello stesso tipo, che circondano la città natale di David e di Gesù. Ormai, il territorio nel quale dovrebbe costituirsi il nascente stato palestinese, l’embrione del quale è pur stato riconosciuto dalle Nazioni Unite dov’è rappresentato sia pure senza diritto di voto, non esiste più. Ma Israele, che vive nel costante incubo del “sorpasso demografico” da parte dei palestinesi, non può annettersi la Cisgiordania e la striscia di Gaza non perché tema le reazioni delle Nazioni Unite – che si limiterebbero presumibilmente alle solite proteste e alle solite risoluzioni, bloccate dal veto statunitense -, ma semplicemente in quanto non saprebbe poi che cosa fare di tre milioni di palestinesi ai quali non le sarebbe possibile concedere la cittadinanza israeliana (non entriamo qui nella spinosa questione della condizione pratica degli “arabi israeliani”: di quella istituzionale non si può parlare in quanto Israele non ha una costituzione) senza compromettere gravemente l’equilibrio fra cittadini ebrei e non-ebrei. E lasciamo da parte le prospettive demografiche, dal momento che un innalzamento del tenore di vita dei palestinesi basterebbe, per una nota legge sociologica, ad abbassarne il livello di natalità. Ma è un rischio che Israele non vuole correre.
E allora? Se non vogliamo continuar a far la politica dello struzzo né allinearci alle detestabili argomentazioni degli antisionisti per pregiudizio, bisogna pur prender atto di una realtà: l’attuale governo israeliano – che sia o no, in questo, in linea con alcuni governi precedenti è altro tema da porre da canto – procede con la sua politica di requisizioni, demolizioni, ricostruzioni d’immobili, espulsioni e spostamento di palestinesi e impianto d’insediamenti di nuovi olim, di coloni di recente arrivo in Eretz Israel insediati nei territori in modo da far intendere di puntare a uno scopo ultimo: fare in modo che un numero più alto possibile di palestinesi, stanchi e disperati, emigrino altrove. Nei paesi arabi, in quelli occidentali, dove vogliono: ma se ne vadano. L’obiettivo sembra esere la costruzione di uno stato ebraico che sia tale anche dal punto di vista della struttura etnoculturale: di tre milioni di prolifici e pericolosi palestinesi, Nethanyahu sarebbe forse disposto a naturalizzarne israeliani un mezzo milione al massimo, che si sommerebbe al milione di arabi israeliani con i quali deve già fare i conti. Frattanto, i nuovi coloni servono a riempire i vuoti demografici lasciati da quanti presumibilmente non ce la faranno a sostenere l’attuale intollerabile pressione.
Dinanzi a questa realtà obiettiva, che cosa resta da fare ai palestinesi? Ricorrere a nuove forme di terrorismo, o a nuove ondate di lanci di missili terra-terra, o a una nuova Intifada, per loro ha una sola ragionevole e plausibile logica: far sì che i governi e l’opinione pubblica mondiale tornino un istante a interessarsi di loro, dal momento che quando le loro bombe suicide, i loro missili e i loro sassi tacciono i riflettori mediatici puntati sulla loro condizione si spengono e tutto torna allo status quo: il progressivo avanzare delle ruspe israeliane che li cacciano per sostituirli con i coloni. Il ritorno a uno stato di pace significa la ripresa del più o meno lento processo della loro espulsione. I paesi arabi circostanti queste cose le sanno benissimo: Giordania e Libano ne hanno in passato fatte le spese, l’Egitto vi è stato coinvolto in minor misura, i ricchi emirati peninsulari restano alleati dell’Occidente, fanno circolare al loro interno (specie nelle scuole) una tematica antisionista e antiebraica semplicemente odiosa in contrasto con il loro sistema di alleanze internazionali ma ignorano di fatto il problema a parte un po’ di soldi e molte armi. Quanto a soldi (nel 2013 gli Stati Uniti hanno versato all’Authority palestinese 330 milioni di euro, l’Unione Europea 468, nel quadro del programma di appoggio di sicurezza e assistenza: cfr. i dati riferiti dallo Human Rights Watch, “World Report 2014, www.hrw.org, da integrare con quelli relativi al programma di coordinamento israelo-palestinese che pur esiste ma che è in pericolo, come si evince da “Jadaliyya” del 4 luglio 2014, www.jadaliyya.org). Aspettare e accettare supinamente la nuova ondata di violenze palestinesi, con relativa repressione israeliana, è da parte della compagine internazionale idiota e irresponsabile. A questo punto, le strade da percorrere sono solo due: o imporre un alt effettivo a Israele e la realizzazione del principio “due popoli – due stati”, un mantra ipocrita che sono in tanti a ripetere ma nel quale sono in sempre meno a credere, o ci si fa a livello comunitario internazionale concreto carico della sistemazione di un popolo che si va costringendo, sotto gli occhi di tutti, ad abbandonare dalla sua terra. Non facciamo retorica inutile, non ricorriamo terroristicamente a espressioni come endliche Erlösung, piantiamola con il conformismo filoisraeliano di facciata e il criptoantisemitismo feroce quando nessuno nei paraggi sta ascoltando, smettiamola con la politica dello struzzo o quella delle tre scimmiette “non vedo-non sento-non parlo”. Questa è la realtà. A meno che non accada un qualunque miracolo in grado di arrestare o d’invertire un trend che, visti le forze e gli equilibri in presenza, appare irreversibile.