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Le porte dell'inferno

di Danilo Zolo - 28/08/2006

 

Le stragi di innocenti continuano: in Afghanistan, in Iraq, in Palestina, in Galilea, in Libano. L'intero Medio Oriente gronda sangue. Le porte dell'inferno, spalancate nel 2003 dalla aggressione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna contro l'Iraq, non si chiudono. Fra tutte le infamie, la demolizione del Libano come risposta ad un modesto atto di guerriglia Hezbollah è in questo momento l'espressione più alta della arroganza del potere militare, della sua ferocia e cecità.

La cosiddetta comunità internazionale, egemonizzata dalla illimitata volontà di potere degli Stati Uniti, esibisce ancora una volta la sua colpevole impotenza di fronte all'enormità delle violenze e dei crimini. Nei palazzi del potere internazionale, in quelli delle Nazioni Unite anzitutto, si pesta acqua nel mortaio, come sempre. Che fare? Che cosa può fare l'Italia? Esiste l'Italia come soggetto politico internazionale?

Il dibattito sulla continuità/discontinuità della politica estera italiana non può considerarsi chiuso. Da parte dell'ala pacifista della sinistra italiana è stato molto probabilmente un atto di responsabilità l'aver dato fiducia al governo Prodi, nonostante la pochezza delle sue proposte innovative sui temi dell'Iraq e dell'Afghanistan. Ma è chiaro che resta drammaticamente aperto il problema del ruolo che il nuovo governo intende assegnare al nostro paese nell'arena internazionale, in particolare per quanto riguarda l'uso della forza militare fuori dai confini nazionali. L'Italia è uno dei paesi maggiormente impegnati nell'invio di truppe all'estero: sono quasi 10.000 i nostri soldati esposti al rischio di morire e di uccidere per cause molto dubbie.

A dar credito alle esternazioni del ministro degli esteri e vicepresidente del consiglio, Massimo D'Alema, la continuità della politica estera del governo Prodi rispetto a quella del governo Berlusconi è perfettamente garantita dalla assoluta lealtà alla NATO e, soprattutto, dalla fedele subordinazione ai Diktat dell'amministrazione statunitense. D'Alema ha addirittura rivendicato una più lunga e salda continuità: quella risalente alla "guerra umanitaria" per il Kosovo, del 1999. Era stata una sanguinosa guerra di aggressione della NATO contro la Repubblica Federale Jugoslava che D'Alema, in quanto presidente del consiglio, aveva fervidamente voluto, schierandosi a fianco dell'"amico" Bill Clinton.

Nella vicenda del Libano il governo italiano ha tentato di svolgere un ruolo diplomatico di primo piano. E' stato senza dubbio un atto di coraggio, da apprezzare almeno sotto questo profilo, perché inaspettato e senza precedenti. Ma il vertice di Roma del 22 luglio, graziosamente co-presieduto da Condoleezza Rice e da D'Alema, non ha offerto il minimo contributo al contenimento del conflitto, così come senza alcun esito è rimasto il viaggio successivo di D'Alema in Israele. Era illusorio pensare di svolgere un ruolo di qualche rilievo all'ombra del più ossequioso rispetto delle decisioni della Casa Bianca, del Pentagono e dei potentissimi comandi militari israeliani. La delusione personale del nostro ministro degli esteri lo ha spinto a qualche espressione critica verso Ehud Olmert, niente di più.

In realtà sarebbe a portata di mano una reazione significativa e legittima da parte dell'Italia nei confronti dell'arroganza e dello strapotere militare dello Stato di Israele. Rompendo con un gesto simbolico ogni continuità con il servilismo berlusconiano, l'Italia potrebbe denunciare l'accordo di cooperazione militare quinquennale concluso dal governo Berlusconi con Tel Aviv e che è entrato in vigore nel giugno 2005. L'accordo comprende interscambi di armamenti, la formazione e l'addestramento di personale militare, la partecipazione di osservatori a esercitazioni militari, programmi congiunti di ricerca e sviluppo in campo militare, scambi di esperienze tra gli esperti delle due parti. L'accordo riguarda anche la cooperazione nella ricerca, nello sviluppo e nella produzione di tecnologie militari, inclusi vari progetti missilistici e di guerra elettronica, nel quadro di una collaborazione che ha come fine la lotta contro il terrorismo. E' chiaro che tutto ciò non può non avere dirette implicazioni con la duplice guerra di sterminio che Olmert si è impegnato a condurre contro Hamas e contro Hezbollah, organizzazioni islamiche entrambe marchiate dal suo governo come terroristiche.

Si tratta di un accordo, prorogabile automaticamente, che va molto oltre gli aspetti tecnici e che si presenta come una scelta strategica con la quale il governo Berlusconi si era proposto di scavalcare l'Unione Europea nel quadro di un esplicito collegamento con la strategia statunitense. Come a suo tempo sottolinearono i ministri Frattini e Martino, si era trattato di "un preciso impegno politico assunto dal governo italiano in materia di cooperazione con lo Stato d'Israele". Ed è il caso di ricordare che il ministro israeliano della difesa aveva dichiarato che "nessun altro paese dell'Unione europea godeva di questo tipo di cooperazione militare con Israele".

Di fronte a un accordo di questa natura e portata, che costringe l'Italia a una piena complicità militare con Israele, il governo di centro-sinistra non dovrebbe avere la minima esitazione. Se questo governo intende svolgere un ruolo di "facilitazione" - per usare il linguaggio di Prodi - nella ricerca di una qualche via che porti alla pacificazione del Medio Oriente, è questa l'occasione per tracciare una linea di netta discontinuità nella politica estera del nostro paese. E questa è anche un'occasione da non perdere per la sinistra pacifista italiana.


Editoriale apparso nel quotidiano Liberazione il 10 agosto 2006.