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L'evoluzionismo materialista di Darwin e quello spiritualista di Wallace

di Juan Canseco - 29/08/2006

 

Molte sono le testimonianze dell’amicizia che legava Charles Darwin e Alfred Russell Wallace.  Ciò si può considerare come un fatto singolarmente rimarchevole, se si ha in conto che i loro nomi ci sono giunti e rimarranno per sempre collegati come quelli dei due scienziati che individuarono la principale causa del cambiamento evolutivo.

Per entrambi, in effetti, a dispetto dei buoni rapporti che li legavano, sarebbe stato molto facile prendere le reciproche distanze: Darwin risentendosi nei confronti di Wallace, che ebbe il proprio momento di gloria scientifica in età molto più giovane di quanto non toccò a lui, e che ne aveva sfidato i presupposti teorici, obbligandolo ad entrare nella disputa diffondendo le proprie teorie; Wallace, dal canto suo, risentendosi nei confronti di Darwin poiché quell’uomo più anziano l’aveva infine battuto, imponendosi all’attenzione dell’intero mondo scientifico.

Cionondimeno, sebbene i loro sostenitori abbiano cercato in tutti i modi di allontanarli, la loro amicizia ed il loro reciproco rispetto durarono tanto quanto le loro vite. Wallace ammirava infatti Darwin per la sua grandezza di scienziato, mentre quest’ultimo apprezzava il collega per il suo genio, la sua modestia e le sue ferme convinzioni finalizzate alla ricerca scientifica della verità.

Detto ciò, bisogna peraltro rilevare che questi due scienziati molto di rado furono d’accordo in termini scientifici. Sostennero infatti nel tempo vere e proprie battaglie senza esclusione di colpi attorno alle teorie che venivano sviluppando. Se Darwin aveva un’idea, nella quasi totalità dei casi Wallace vi si sarebbe opposto; allo stesso modo, se Wallace esprimeva un pensiero, quasi sempre Darwin riteneva dovesse essere sbagliato.

Partiamo dal prendere in considerazione un esempio concreto, assai significativo: l’interpretazione delle ragioni del colore della livrea degli uccelli. Darwin aveva concepito una teoria molto elaborata per spiegare ciò che viene chiamato “dimofirsmo sessuale”, cioè le differenze fra maschi e femmine appartenenti alla stessa specie.  Era chiaro e facilmente constatabile che ci fossero alcune differenze morfologiche e strutturali funzionali alla riproduzione, ed alla sopravvivenza stessa delle specie che ne erano portatrici, ad esempio in relazione all’apparato riproduttivo maschile e femminile. Ma quali ragioni d’essere dovevano avere altre grandi e visibilissime differenze legate ad esempio a caratteri sessuali secondari? Perché i maschi del genere umano hanno la barba mentre le donne sono prive di peli per lo meno al viso, al petto, e così via? Perché gli uomini diventano calvi, e le donne no? Perché i maschi dei trichechi sono enormemente più grandi delle femmine, tanto più grandi che a volte queste vengono schiacciate fino a perire durante l’accoppiamento? Perché i maschi dei cervi hanno corna massicce, mentre le femmine non le possiedono? E perché mai, al contrario della femmina, il pavone maschio presenta una struttura di piume posteriori così magnificente, e allo stesso tempo tanto poco funzionale, ad esempio, alla fuga, in caso di agguato da parte di predatori?

Nella sua interpretazione, Darwin tendeva ad enfatizzare il ruolo del maschio. I cervi maschi hanno corna enormi che utilizzano per combattere nella stagione degli amori, da cui solo a quanti ne escono vincitori è garantita la riproduzione: è questa pertanto la ragione d’essere delle corna robuste che possiedono. Le femmine cervo, al contrario, rileva Darwin, hanno un comportamento piuttosto passivo, che non le vede competere: per questo motivo non necessitano, e quindi non ottengono tali appendici. Lo stesso criterio di spiegazione vale nel caso dei trichechi, che combattono fieramente per possedere un intero gruppo di femmine. Nel caso dei pavoni, è per Darwin fondamentalmente l’apparenza del maschio ciò che lo avvantaggia ai fini riproduttivi. La femmina sceglie il maschio con le forme e i colori più vistosi, ma è il maschio ad essere -letteralmente- il centro dell’attrazione.

Wallace non era soddisfatto di questa spiegazione. Non poteva negare che i cervi maschi combattano, così come lo fanno i trichechi maschi, e che ciò sia probabilmente la causa delle differenze in specie di quel tipo. Ma egli respingeva decisamente l’affermazione che il pavone presenti quell’impressionante sviluppo delle piume posteriori perché da esse, quantopiù vistose e variopinte, le femmine risultano attratte. Dal canto suo, Wallace suggerì quindi che Darwin avesse interpretato la cosa, per così dire, al contrario: l’accento per lui andava posto non sui maschi, belli ed appariscenti, quanto sulle femmine di pavone, grigie ed “insignificanti”.  E ciò, sostenne Wallace, per la ragione che essere al centro dell’attenzione è precisamente ciò che non è auspicabile nel caso, ad esempio, di una femmina che stia facendo la cova. Wallace affermò dunque che il dimorfismo sessuale si presenta in questo caso in funzione del mimetismo femminile, che protegge le femmine dai predatori, piuttosto che rappresentare un aspetto di “splendore” maschile, a cui consegue la preferenza nella scelta femminile a scopo riproduttivo.

Quali erano le ragioni di questa disputa? Era solo una questione di fatto, o meglio, di “fatti”? In un certo senso lo era, ma in ciò non si esaurivano tutte le sue cause ed implicazioni. Wallace pensava di avere riunito buone evidenze relative all’importanza nel mimetismo di aspetti come il colore e la forma, per cui gli risultava naturale applicare tali scoperte nel contesto dello studio di un argomento importante come il dimorfismo. C’erano tuttavia in gioco altre ben rilevanti implicazioni. Non solo i movimenti femministi, ma correttamente l’intera società civile del mondo contemporaneo individuerebbero immediatamente che le argomentazioni prodotte implicavano il coinvolgimento di aspetti di pregiudizio e di atteggiamenti socialmente determinati. Ciò che Darwin argomentava era infatti fondato sull’esclusione dell’apporto attivo delle femmine, mentre Wallace ne faceva il punto centrale. Come avremo occasione di considerare, Wallace era un uomo eccezionale per la sua epoca quanto a consapevolezza del ruolo e dell’importanza del sesso femminile, mentre Darwin era a questo riguardo “uomo del proprio tempo”, non estraneo a certe diffuse logiche dell’epoca a lui contemporanea, improntate a una visione maschilista dei rapporti tra i sessi.

Ma come se ciò non bastasse, era in gioco un presupposto culturale ancora più rilevante: attraverso la propria interpretazione, Darwin affermava infatti implicitamente che il senso estetico della femmina di pavone è molto simile al senso estetico umano. La femmina di pavone sceglie cioè una certa configurazione di piume, che è in effetti quella che anche noi troviamo bella. E, per reciprocità, se il senso estetico del pavone è come quello di un essere umano, allora il senso estetico di un essere umano è come quello del pavone: una implicazione, questa, che nessuno dei due scienziati considerava di scarsa rilevanza.

Per meglio comprendere quale fosse l’ambito, e quali le conseguenze, della disputa sostenuta da Darwin e Wallace, è necessario un approfondimento su come il concetto di evoluzione venga inteso nel contesto scientifico. Il termine “evoluzione” si applica tradizionalmente a tre diverse realtà.  In primo luogo, a ciò che possiamo definire il “fatto” stesso dell’evoluzione. Si intende con ciò indicare l’idea che tutti gli organismi -gli esseri umani, gli animali, i vegetali- siano il risultato finale di un lungo processo di sviluppo, a partire da forme molto diverse. Comunemente si pensa che le forme di vita originarie fossero molto semplici e che le odierne siano molto complesse -quantomeno alcune di esse- e che tutte quante -e con esse ogni singolo individuo ad esse appartenente- siano imparentate con le altre forme attraverso specifiche linee di discendenza. Un altro elemento usualmente associato a questa idea di evoluzione è la convinzione che risalendo sufficientemente indietro nel tempo, si possa retrocedere dalla dimensione dell’essere vivente a quella della materia inerte, cioè dei puri e semplici elementi chimici. In altre parole, l’organico, cioè il vivente, si sarebbe originato a partire dall’inorganico, cioè dal non vivente. A questa idea dell’evoluzione si associa infine la caratterizzazione di essere “naturale”, intendendosi con ciò il fatto che le cause che portano costantemente avanti il processo evolutivo sono semplicemente ed unicamente le regolari leggi di natura, che non presuppongono minimamente alcun intervento divino, né di qualsiasi altra entità esterna al sistema.

In secondo luogo, il termine “evoluzione” viene impiegato per indicare uno o vari percorsi evolutivi, noti secondo la terminologia scientifica come filogenia (e filogenie). In questa accezione il termine serve ad indicare i percorsi che l’evoluzione intraprende o sviluppa nel corso del tempo. Quando sorse la vita sulla Terra? Quando si evolvettero gli organismi multicellulari a partire da forme più semplici? L’esplosione delle forme di vita del periodo Cambriano fu un evento unico e irripetibile, oppure eventi di tale natura sono stati molteplici? Gli uccelli discendono dai dinosauri oppure da altri tipi di rettili? Quando scomparvero i dinosauri? Questo avvenimento fu associato a qualche altro evento terrestre di smisurate proporzioni? Cosa sappiamo circa le origini del genere umano? I cervelli degli esseri umani crebbero considerevolmente quando questi guadagnarono la stazione eretta, o viceversa? In molti sensi, è questa famiglia di concetti quella che si ha in mente nella maggior parte dei casi quando si parla di evoluzione. I “nessi perduti” sono tra le argomentazioni predilette dai critici dell’evoluzione, che pongono l’accento sull’esistenza di vere e proprie lacune nel registro fossile, dove invece ci si aspetterebbero, nella prospettiva evoluzionistica, transizioni senza soluzioni di continuità fra una classe importante, per esempio quella dei mammiferi terrestri, ed un’altra di pari importanza, come quella dei mammiferi acquatici, quali le balene.

In terzo ed ultimo luogo, si parla di evoluzione quando si vuole indagare circa le cause ed i meccanismi di questi processi, ed in questo caso si parla quasi sempre di “teoria dell’evoluzione”. Cosa fa sì che l’intero processo evolutivo vada avanti? Cosa ingenera l’evoluzione? Qual è la sua forza motrice? Sul terreno della fisica, la risposta a questo genere di domande, volte all’indagine delle cause, fece la gloria di Newton. Egli non scoprì che i pianeti girano intorno al sole: questo fu ciò che fece Copernico. Né elaborò un’accurata mappa stellare, come fece invece Tycho Brahe. E neppure fece il tracciato dei moti planetari, che fu lavoro di Keplero. Neanche si dedicò a spiegare come funziona la fisica terrestre, cosa che fece Galileo. Newton inividuò la legge dell’attrazione gravitazionale inversa e dimostrò come tutto il resto derivi da essa: le rivoluzioni dei pianeti nelle loro orbite, come le traiettorie delle palle di cannone nei loro voli parabolici. E’ per questa ragione che siamo debitori a Newton e alla sua genialità. Anche nell’ambito della biologia evolutiva sono state formulate domande generali, che presupponevano risposte fondamentali come queste. Esiste un equivalente biologico della forza di attrazione gravitazionale? E se è così, esso funziona nello stesso modo? Esiste davvero una causa prima, oppure esistono molteplici forze tali da dare collettivamente luogo al meccanismo generale? A questo tipo di domande “radicali” si propone di rispondere la teoria dell’evoluzione.

Va rilevato come questa distinzione dell’evoluzione in tre diverse aree risulti piuttosto artificiosa. Non è evidentemente possibile individuare un percorso dell’evoluzione o una sua causa, se non a partire dal “fatto” stesso dell’evoluzione. E chiaramente qualsiasi pensiero si formuli circa le sue cause, queste saranno necessariamente influenzate dai percorsi che si ritenga essa abbia seguito. Se per esempio, per assurdo, si ritenesse – teoria in realtà mai proposta – che i trilobiti, un tipo di invertebrati marini che si estinsero circa trecento milioni di anni fa, diedero origine nell’arco di una sola generazione agli elefanti, tale interpretazione potrebbe trovare collocazione nell’ambito una teoria dell’evoluzione molto diversa da quella che propone che il nesso tra trilobiti ed elefanti, qualora davvero fosse esistito, ebbe luogo nell’arco di 500 milioni di anni, attraverso moltissimi organismi intermedi. Ciò significa che, se il “fatto” dell’evoluzione include anche l’origine stessa della vita, le considerazioni in merito alle sue cause saranno molto diverse da quelle che si potrebbero trarre nel caso si ritenesse che il tema delle origini remote rimanga fuori dalla portata della teoria. Lo studio dell’evoluzione deve dunque essere affrontato unitariamente, pur tenendo conto di tutti e tre gli aspetti implicati, cioè il “fatto” dell’evoluzione, i suoi percorsi e le sue cause, in considerazione dell’unitarietà del processo da essa ingenerato.

Lo studio del processo evolutivo condotto alla luce dei suoi tre aspetti caratterizzanti (il “fatto”, i percorsi filogenetici e le cause) venne intrapreso da Darwin e Wallace, che pure, ad un certo punto del loro percorso di analisi presero le distanze in relazione all’indagine delle cause. Tornando quindi alla disputa fra i due scienziati, dobbiamo rilevare come Wallace all’inizio dei propri studi sostenesse una posizione simile a quella di Darwin in merito alla condizione specifica degli esseri umani: il genere umano era anch’esso risultato dei meccanismi evolutivi, dei mutamenti e delle trasformazioni che plasmano tutte le specie viventi. Darwin, dal canto suo, ai primi stadi del suo lavoro teorico, continuava ad indicare come tutto questo meccanismo fosse stato creato da Dio. Dio aveva dunque creato il genere umano, seppur attraverso leggi naturali. Ma mentre Darwin si spostò nel corso degli anni verso posizioni materialistiche che escludevano l’intervento divino, nella decade del 1860 l’evoluzionista più giovane abbracciò esplicitamente lo spiritualismo. Wallace cominciò cioè a credere che a governare il mondo naturale siano forze “occulte”, da ritenersi quali le vere responsabili dell’evoluzione. La selezione naturale, da sola, non poteva infatti rendere totalmente ragione del processo evolutivo, dato che noi esseri umani siamo fondamentalmente differenti da tutti gli altri organismi. Da tale convinzione derivava ad esempio la riluttanza di Wallace ad ammettere che la femmina di pavone potesse condividere gli stessi standard di bellezza degli esseri umani. La sua conclusione a proposito delle cause dell’evoluzione era dunque che dovesse esserci qualcosa di non materiale e non fisico, in grado di spiegare del tutto l’evoluzione umana.

Darwin rimase sbalordito di fronte alla ”apostasia” di Wallace.  Ma si rese conto che essa implicava un’importante sfida teorica. Lo scienziato più giovane aveva riunito e documentato una serie di caratteristiche umane delle quali riteneva impossibile un’origine totalmente spiegabile per mezzo della selezione naturale: dal suo punto di vista, questo meccanismo, da solo, non sarebbe stato in grado di causare e portare a perfezione fenomeni constatabili che andavano dalla mancanza di peli negli esseri umani, all’esistenza dei grandi cervelli umani, o delle differenze razziali, e di molti altri fenomeni ancora. Al contrario, la risposta che Darwin diede a ciò, approfondendo così la linea di demarcazione che separava il suo pensiero da quello di Wallace, consistette nel dare sempre maggiore importanza e rilievo, nel proprio lavoro teorico, alla selezione sessuale. Nel suo libro L’origine dell’uomo, pubblicato nel 1871, Darwin sostenne che sono i maschi che competono, mentre le femmine li scelgono in virtù di ciò che li rende quello che sono. Gli uomini più grandi, forti ed intelligenti riuscivano a propria volta a scegliere fra le donne. Di queste, le più gentili, sensuali e sensibili riuscivano a scegliere fra gli uomini, o a fare sì che questi le scegliessero.

Tutto ciò ci indica, nel pensiero di Darwin, la ragione dell’esistenza delle differenze razziali, ma anche di quelle sessuali, e del motivo per cui noi esseri umani siamo diversi dalle bestie. Le donne più belle, constatava Darwin, venivano scelte dagli uomini più forti ed intelligenti, e a loro volta accettavano la scelta di buon grado, dato che avrebbe avuto positive conseguenze, determinando cioè per i loro figli la possibilità di possedere precisamente le caratteristiche richieste per il successo maschile nella lotta per la riproduzione. Su questa stessa linea, nell’interpretazione evoluzionistica applicata a pratiche o istituzioni sociali, Darwin si spinge anche ben oltre: “In tutte le nazioni civilizzate –scrive– l’uomo accumula proprietà e le lascia ai propri figli, così che questi, nella stessa nazione, per nessun motivo devano partire da zero nella corsa per il successo. E ciò è lontano dall’essere un male anche solo, per così dire, a metà . perché senza l’accumulo di capitale le arti non potrebbero progredire. Ed è fondamentalmente attraverso il loro potere che le razze civilizzate si sono estese, e che continuano tuttora ad estendere ovunque il loro dominio, in modo tale da prendere il posto delle razze inferiori”.

Sulla linea dell’evoluzionismo sociale, Darwin forniva così una difesa teorica del capitalismo. Di fronte a questo genere di argomentazioni, quelle di Wallace risultarono più deboli. Già negli anni 1860-1870, l’appello a forze spirituali risultava semplicemente inaccettabile per una scienza proiettata verso il futuro, dunque in linea con l’idea di scienza moderna che si andava sempre più sviluppando anche in relazione alla biologia. Inoltre, l’ipotesi di Wallace dell’esistenza di un’intelligenza innata, che rendeva tutti gli esseri umani eminentemente unici, era in aperto contrasto con il clima teorico del periodo. Le cosiddette “razze inferiori” venivano a quell’epoca certamente considerate umane e molto superiori alle scimmie, testimonianza di ciò -una fra tutte- la sanguinosa guerra civile americana, combattuta in nome delle convinzioni liberali, volte all’abolizione della schiavitù, che era immorale precisamente perché tutti gli esseri umani erano parte della stessa famiglia. Cionondimeno, anche gli animi più liberali di quel periodo non sarebbero mai stati disposti a porre i negri, gli aborigeni, gli indiani e gli indigeni americani allo stesso livello degli europei. Dunque, mentre l’approccio di Wallace arrivava all’affermazione dell’unicità dell’uomo in senso universale, ponendolo fuori dalle dinamiche di cambiamento e di lotta dell’evoluzione, quello di Darwin poggiava in ultima analisi sulla competizione e sulle differenze fra i popoli, che determinavano la prevalenza di alcuni di questi sugli altri. Il pensiero di Darwin si collocava dunque perfettamente nella temperie culturale del periodo, e le sue convinzioni venivano pertanto a combaciare con quelle degli uomini della sua epoca, fornendo loro un presupposto scientifico coerente.

Non deve sorprendere dunque che i vittoriani amassero Charles Darwin e che gli abbiano tributato l’onore della sepoltura nell’Abbazia di Westminster. Darwin parlava una lingua che tutti i vittoriani riuscivano a capire. E va rimarcato come l’avvento dell’evoluzione, evento importantissimo e di portata rivoluzionaria su molteplici versanti, non dovette in realtà affrontare un’aperta opposizione o una serrata ostilità da parte dello status quo. Per alcuni aspetti, infatti, attraverso un’interpretazione mirata, o in certa misura guidata anche da contenuti estranei all’ambito biologico, la concezione evoluzionista di Darwin poteva essere agevolmente impiegata per fornire supporto teorico a svariate convinzioni e presupposti della società vittoriana, e venne, per questa ragione, accolta molto positivamente.

Al termine del loro contrasto teorico, le posizioni di Wallace e di Darwin, pur condividendo un’importante serie di elementi, finirono come abbiamo visto per differenziarsi radicalmente, arrivando ad essere incompatibili. E, come abbiamo avuto modo di constatare, la svolta spiritualista di Wallace risultò essere in controtendenza rispetto al paradigma culturale dominante. In questo confronto scientifico, fu dunque, e per svariati ordini di ragioni, la teoria di Wallace a perdere la battaglia, mentre prevalse la versione interamente materialistica di Darwin.

Ma è importante riconoscere come in questo percorso la disputa sostenuta da Wallace e Darwin ebbe indubbia utilità al fine di permettere una più precisa e scientificamente fondata definizione della versione vincente. La spiegazione materialistica darwiniana, nel confronto e nel contrasto con quella spiritualistica di Wallace, ebbe la possibilità di risolvere punti critici al proprio interno, e di chiarirsi, consolidarsi e diffondersi ulteriormente. Una evidente implicazione di queste riflessioni consiste nel riconoscere come il conflitto tra teorie possa costituire un elemento di significativa importanza per il progresso scientifico e per l’accelerazione di tale processo.

L’esempio di conflitto scientifico qui preso in esame fu condotto da due avversari leali quasi in forma di “duello cavalleresco”, nonostante la divergenza delle posizioni assunte, delle quali una prevalse mentre l’altra dovette cedere il passo. Ma attraverso tale confronto entrambe concorsero a dare impulso alla conoscenza scientifica, anche grazie al processo ingenerato da un utile e costruttivo conflitto dialettico.

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