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Basta dire "nuovo"

di Maurizio Pallante - 30/08/2006



È diventato ormai un riflesso condizionato: usare l'aggettivo nuovo, o innovativo, e pensare che significhi migliore. Capita a tutti, indipendentemente dalle convinzioni politiche (lo usano a destra e a sinistra con la stessa disinvoltura bipartisan), dal livello culturale, dall'età. Ma da dove nasce questa convinzione? Come si è diffusa? Certo, la pubblicità fa la sua parte e martella oggi, martella domani, l'identificazione è avvenuta. Un prodotto nuovo, appena viene immesso nel mercato rende obsoleto il prodotto che sostituisce. Così, anche se hai di tutto e di più la tua propensione all'acquisto non diminuisce.
Per quanto tu possa avere, il nuovo-migliore che immettono oggi sul mercato non ce l'hai ancora, ma quando l'avrai comprato sarà il nuovo-migliore di domani a renderlo vecchio, pronto per la discarica. O per il termovalorizzatore, che lo farà sparire dalla tua vista ricavandone anche un po' d'energia (che pagherai due volte: la prima quando la consumi, la seconda con una soprattassa sui chilowattora che consumi), ma non dalla faccia della terra perché si limiterà a trasformarlo in tante nanopolveri che si scaveranno una nicchia nei tuoi organi interni. Subito non te ne accorgi, ma loro, i tuoi organi interni, non gradiranno. E con la propensione all'acquisto non diminuirà nemmeno la tua necessità di lavorare per contribuire a immettere sul mercato tutti i nuovi prodotti che si succederanno nel corso della tua vita e ricavare i soldi necessari a comprarli.
Ma non sono solo le innovazioni di prodotto ad aver valorizzato il nuovo. Accanto a loro ci sono le loro sorelle gemelle: le innovazioni di processo: le innovazioni tecnologiche che consentono di produrre sempre più cose in tempi sempre più brevi e con sempre meno lavoratori. Sono i progressi della scienza e della tecnologia, le nuove divinità delle società fondate sulla crescita economica. Come potrebbe crescere di anno in anno il prodotto interno lordo se le innovazioni di processo non consentissero di produrre ogni anno sempre di più? Ma come si potrebbe continuare a produrre sempre di più se le innovazioni di prodotto non rendessero obsolete in continuazione le precedenti innovazioni?
Il feticismo del nuovo è il segno dell'egemonia culturale esercitata dalla crescita economica sugli esseri umani delle società industriali. È il valore fondante della crescita. Chi pensa che sia importante cambiare questa società, ogni volta che valorizza il cambiamento rispetto alla conservazione, la modernità rispetto alla tradizione, il nuovo rispetto al vecchio, agisce in realtà come un cavallino di Troia del prodotto interno lordo. Se lo porta nascosto nella pancia con tutte le sue armi di distruzione di massa delle risorse e degli equilibri ecologici.
Ma, allora, per contrastare la crescita occorre essere conservatori, resistere ai cambiamenti? Troppo facile. Per impedire che la crescita economica finisca di distruggere il mondo (è a buon punto), continui a creare ingiustizie inaccettabili nella distribuzione delle risorse e a fomentare guerre, non basta cambiare il segno più col segno meno, perché si resterebbe all'interno di una logica quantitativa rovesciata. Occorre invece introdurre cambiamenti e innovazioni (sì, innovazioni) qualitative nei processi produttivi e nei prodotti. Se ci si limita a rallentare il processo in corso si allunga soltanto l'agonia dell'ecosistema terrestre. Diverso sarebbe se le innovazioni tecnologiche venissero indirizzate non ad aumentare la produttività nel segno dell'aumento della produzione, ma a ridurre l'incidenza di tre fattori per unità di prodotto: la quantità di energia e di materie prime necessarie a produrlo; l'impatto ambientale causato dalla sua produzione e utilizzazione; la quantità di rifiuti in cui si trasforma al termine della sua vita utile. Insomma, c'è innovazione e innovazione.