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Sovranità degli stati e sovranità dei popoli

di Nuri Albala - 20/10/2005

Fonte: ilmanifesto.it

Sovranità degli stati e sovranità dei popoli


Nuri Albala
Come ha potuto nascere un concetto strano e discutibile come il preteso «diritto d'ingerenza», quando al centro del sistema delle Nazioni unite c'è proprio il principio di sovranità, destinato a proteggere gli stati da interventi esterni e a salvaguardare così la pace? Già negli anni '60, i difensori dei diritti umani ritenevano che il divieto di ingerenza non li riguardasse, in quanto applicabile solo alle relazioni fra stato e stato. Poi, rinunciando a sostenere che l'aiuto portato a vittime di crimini o catastrofi non costituisce ingerenza, hanno scelto di legittimare la propria in nome delle sue ragioni (i diritti umani). Ci fu poi chi cominciò ad affermare che tali ragioni autorizzano un diritto d'ingerenza anche da parte degli stati...
L'Assemblea generale delle Nazioni unite (Onu) ha ritenuto di intervenire con prudenza sul problema quando, l'8 dicembre 1988, ha adottato la risoluzione 43/131, che autorizza le organizzazioni intergovernative e non governative (Ong) a portare assistenza alle «vittime di catastrofi naturali e situazioni di urgenza».
Tuttavia, poiché la realizzazione pratica di questo «diritto d'ingerenza» richiede mezzi, sono i paesi dominanti che ne fanno uso a loro piacimento.
Molto rapidamente, nella ex Jugoslavia come in Iraq, le grandi potenze (e in particolare gli Stati uniti) si sono infiltrate nella breccia, con l'appoggio dell'Onu (1)...
In base agli accordi di Dayton (2), è il Consiglio di sicurezza che dà mandato all'Alleanza atlantica di mantenere la pace (quindi di fare ciò per cui l'Onu è stata fondata), e la Forza multinazionale d'interposizione (Ifor) è posta sotto il comando dell'Organizzazione del trattato del nord Atlantico (Nato), il tutto in flagrante contraddizione con la Carta e il suo articolo 53 (3). Così il preteso diritto d'ingerenza, che solo gli stati più potenti possono realmente esercitare, ripristina l'antico imperialismo di un tempo, coperto da un velo di moralità (4).
Ma la sovranità costituisce ancora in molti paesi del Sud, in Africa o in America latina, una rivendicazione delle popolazioni che lottano contro l'ingiustizia sociale o l'imperialismo di potenti vicini o padrini. Per questo, il Forum sociale africano rivendica la sovranità dei popoli sulle ricchezze naturali e il rafforzamento dello stato in quanto potere pubblico che svolge un ruolo di protezione (5).
Spesso, infatti, lo stato rappresenta ancora l'ambito, almeno potenziale, dell'esercizio del potere democratico e dell'affermazione dei popoli.
Può, inoltre, rappresentare un ostacolo alla penetrazione delle imprese transnazionali: o perché, dotato di solide strutture di difesa dei diritti dei cittadini, resiste all'ingerenza - come si è visto in occasione delle misure adottate in America latina contro le multinazionali dell'acqua e del petrolio (6); o perché, al contrario, essendo totalmente inefficace e disorganizzato, spaventa per la sua instabilità e imprevedibilità (come succede in Africa, in particolare). È per questo che il libero mercato e i governanti al suo servizio spingono alla stabilizzazione istituzionale negli stati deboli e alla sottrazione di competenze negli stati «forti». Tuttavia, uno stato (gli Stati uniti) sembra godere di tutti gli attributi classici della sovranità.
In realtà, il principio di sovranità ha senso solo se si precisa a chi va applicato: agli stati o ai popoli. Quando, nel 1789, l'Assemblea nazionale francese proclama che la sovranità risiede «fondamentalmente nella nazione (7)», la sua scelta è chiara. Ma i due secoli successivi hanno progressivamente legittimato una «sovranità degli stati». Lo slittamento è stato favorito dall'espandersi delle conquiste coloniali e imperialiste nel XIX e XX secolo: i conquistatori pretendevano di dotare di strutture statali popoli «incapaci» di concepirne da soli. La Carta della Nazioni unite conferma questa visione, creando un raggruppamento di stati (capitolo 2, articoli 3 e 4), anche se il preambolo della Carta si apre con la celebre formula «Noi, popoli delle Nazioni unite». I testi fondanti dell'organizzazione citano a volte i popoli (nel preambolo), a volte le nazioni, a volte gli stati (8). Gli estensori dei testi non ignoravano certo il dibattito intorno a questi concetti, ma non sentivano la necessità di soffermarvisi.
L'ambiguità consentiva, tra l'altro, di non affrontare la questione dei popoli colonizzati e delle minoranze autoctone.
Ed è proprio perché i membri dell'Onu sono degli stati, che l'articolo 2, paragrafo 7, della Carta stabilisce il principio che niente «autorizza le Nazioni unite ad intervenire nelle questioni che rientrano fondamentalmente nella competenza nazionale di uno stato». L'articolo 53, in particolare, precisa che «nessuna azione coercitiva sarà intrapresa in virtù di accordi regionali o da organismi regionali». La sovranità nei confronti della quale si proibisce qualsiasi minaccia è dunque chiaramente intesa come sovranità degli stati e s'impone anche all'Onu (salvo per quando concerne il capitolo 7 della Carta e le azioni in caso di minaccia alla pace, di rottura della pace e di atto di aggressione).
Lo iato tra sovranità degli stati e sovranità dei popoli si ritrova nel dibattito sulla dismissione della sovranità. Se gli stati rinunciano ad alcune loro prerogative, non è a profitto di strutture democratiche.
I governi sono molto meno ostinati quando si tratta di concedere poteri all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), che non alle Nazioni unite o ai tribunali internazionali che difendono i diritti umani.
Sono i governanti ad aver approvato i regolamenti europei che impediscono di sostenere i servizi pubblici, a favore di istituzioni non democratiche e della «regolazione tramite il mercato». Di fatto, ciò a cui gli stati rinunciano non è alla loro sovranità, ma al potere dei popoli di controllare (almeno in parte!) il mondo in divenire. È per questo che al centro della costruzione europea c'è il dibattito sul diritto dei popoli a disporre di se stessi.
Tuttavia, il mondo non è condannato ad essere solo un confronto tra stati sempre meno sovrani. Nuovi attori hanno fatto irruzione sulla scena internazionale: associazioni, organizzazioni non governative, movimenti sociali. Sono sempre più presenti nelle aule dell'Onu, per esempio nella sottocommissione per i diritti umani. «Lo stato nella sua forma classica, ereditata dal secolo dei Lumi, non può pretendere di essere l'unica sede legittima del dibattito politico e dell'azione collettiva (9)».
Tuttavia, se associazioni, sindacati e Ong possono contribuire a resistere alla globalizzazione liberista, la «società civile», per definizione eterogenea e non egualitaria, non può sostituirsi ai popoli, né ha vocazione a rappresentarli. In questo non bisogna vedere una contrapposizione tra mondo associativo e stati, rappresentanti ufficiali delle nazioni e dei popoli, ma piuttosto il germe di una necessaria cooperazione.



note:

* Avvocato.

(1) La prima guerra del Golfo, giustificata da un'annessione territoriale, non si basava su un'ingerenza umanitaria.

(2) Il 21 novembre 1995, nella base americana di Dayton, i presidenti serbo, croato e bosniaco firmano un accordo che mantiene la Bosnia Erzegovina nelle sue frontiere internazionalmente riconosciute, ma ne ratifica la divisione in due entità: la Repubblica serba e la Federazione croato-musulmana.

(3) Si legga Nils Andersson, «Organisation des Nations unies ou Organisation des Nations soumises?», in Contributions de l'Irdp au Forum social européen de Paris - Saint Denis, luglio 2003.

(4) Si legga «Les limites du droit d'ingérence», Manière de voir, n° 45, «La nouvelle guerre des Balkans», maggio-giugno 1999.

(5) www.forumsocialafricain.org.

(6) Si legga Jacques Secretan, «Privatizzazione fuori legge in Uruguay», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2004.

(7) Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, 26 agosto 1789, articolo 3.

(8) Così, la dichiarazione interalleata di Londra del 12 giugno 1941.

(9) François Crépeau, introduzione a Mondialisation des échanges et fonctions de l'Etat, Bruylant, Bruxelles, 1997.
(Traduzione di G. P.)