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Back reshoring

di Eugenio Benetazzo - 07/04/2015

Fonte: Eugenio Benetazzo


Quando andavo alle scuole superiori ricordo che l’establishment economica di quell’epoca vedeva nel Giappone la futura locomotiva del mondo, una nazione che sarebbe stata presto in grado di superare velocemente negli anni successivi l’antagonista storico di sempre, gli USA. IL Giappone avrebbe dovuto diventare il faro economico del mondo grazie al suo modello produttivo (lean production) e l’eccellenza assoluta in settori che allora erano considerati strategici (robotica, device audio-video e microprocessori). 750 anni prima di Cristo, la stessa proiezione sul futuro del mondo la si faceva sulla Grecia, concepita allora come civilità con un elevato grado di prosperità e ricchezza che diede vita ad un boom culturale con espressioni nei campi più svariati, tra cui l’architettura, il teatro, la scienza, la matematica e la filosofia. La storia ci ha insegnato di come sempre più spesso anche le migliori e più credibili proiezioni vengono disattese nel corso degli anni. Il Giappone dalla fine degli anni novanta non è stato più in grado di riprendersi a causa di due fattori di contrasto, uno endogeno, il costante e progressivo invecchiamento della popolazione, ed un altro esogeno, l’emersione della Cina nei mercati mondiali. Anche la Grecia di 2500 anni fa dovette fare i conti con una variabile esogena, la progressiva estensione e prepotenza dell’impero persiano che decretarono l’inizio del declino ellenico.

Sostanzialmente fare proiezioni a venti o trent’anni non ha alcun significato, non ne parliamo a cinquanta o altro: questo per ovvie ragioni legate all’aleatorietà e mutevolezza della natura umana oltre alla stessa dinamica del suo contributo demografico. Ad esempio stando alle proiezioni del FMI, per quello che valgono anche loro visto che sempre più spesso vengono rettificate, nel 2025 ci si aspetta il sorpasso cinese sugli USA almeno in termini di PIL complessivo. Per quell’epoca l’India scavalcherà anche la Germania, ed il Brasile il Regno Unito, mentre Italia e Spagna saranno sempre più spinte nella parte bassa della classifica delle 20 più grandi economie (Italia al 14° posto e Spagna al 18°). Queste proiezioni prendono in considerazione le peculiarità strategiche e le debolezze strutturali delle singole nazioni. Quindi si tratra di provare a vedere con gli occhi di oggi come saranno i vari paesi in questione analizzando come le varie economie subiranno o beneficeranno dell’impatto delle altre all’interno di una competizione simulata tra paesi avanzati ed economie emergenti. L’Italia non ne esce bene, anzi tra quelle oggi considerate avanzate, dovrebbe essere quella a subire la maggiore perdita di posizioni nella classifica del G20.

Questa proiezione simulata trova il suo fondamento a fronte di una mancanza di politica industriale, di competitività del mercato del lavoro e di una progressiva diaspora di eccellenze accademiche e risorse imprenditoriali che anno dopo anno abbandonano il paese impoverendolo ed indebolendolo. Questa lettura non è una novità, sono anni che ne sentiamo parlare, alla fine l’immobilismo politico italiano sembra essere la minaccia più grave per la nazione al di là della concorrenza messa in atto da altri paesi competitori. Proprio su questo versante invece potremmo ipotizzare di avere negli anni a venire una rivisitazione del quadro negativo che si è sempre delineato per il futuro italiano. Il fenomeno che potrebbe contribuire ad un cambio di outlook per il paese si chiama back reshoring, in buona sostanza rappresenta la rilocalizzazione delle imprese in Italia post delocalizzazione. Per dirla ironicamente, torna a casa Lassie. Esatto, le imprese che negli anni precedenti hanno abbandonato l’Italia per andare a produrre oltre confine stanno ritornando a casa. Naturalmente questo comportamento riguarda nello specifico solo determinati settori produttivi (come abbigliamento e calzaturiero, che da soli rappresentano il 45% dell’intero fenomeno). La motivazione principale è legata alla scarsa qualità produttiva che caratterizzano le produzioni all’estero oltre anche alla bassa produttività delle maestranze straniere.

Questo pertanto comporta un onere economico non sempre definibile a priori che invece a consuntivo fa decadere la convenienza di una produzione oltre confine, caratterizzata sulla carta da una pressione fiscale attraente e da un costo della manodopera molto light. Contestazioni sulla qualità della merce, elevati scarti di produzione uniti ad una bassa produzione per singola forza lavoro producono un aggravio di costi operativi che sterilizza la convenienza inizialmente presunta di una delocalizzazione all’estero. Questo fenomeno che si sta intensificando proprio a favore dell’Italia e a scapito di paesi asiatici e dell’est europa, inizia a manifestarsi anche per gli USA i quali grazie ad una strategica politica energetica rendono più conveniente produrre in casa piuttosto che delocalizzare in Messico o in Cina: il costo dell’energia per settori energivori può diventare un fattore che negli anni a venire sancirà la supremazia di un paese rispetto ad un altro. Questo significa ad esempio che non è detto che vedremo la Cina diventare quel fenomeno economico che oggi tanto sbandierano, ma che invece si potrebbe verificare un profondo cambiamento di outlook produttivo proprio a causa di oneri di produzione troppo elevati a fronte del costo energetico. Fermatevi a pensare: che senso avrà produrre a migliaia di km di distanza se i costi di trasporto diventeranno la compenente di prezzo principale.