Il riorientamento strategico della Nato dopo la guerra fredda
di Manlio Dinucci - 07/04/2015
Fonte: Megachip


La Nato, fondata il 4 aprile 1949, comprende durante la guerra fredda sedici paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica federale tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Attraverso questa alleanza, gli Stati Uniti mantengono il loro dominio sugli alleati europei, usando l'Europa come prima linea nel confronto, anche nucleare, col Patto di Varsavia. Questo, fondato il 14 maggio 1955 (sei anni dopo la Nato), comprende Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Ungheria, Albania (dal 1955 al 1968).
Dalla guerra fredda al dopo guerra fredda
Il 9 novembre 1989 avviene il «crollo del Muro di Berlino»: è l'inizio della riunificazione tedesca che si realizza quando, il 3 ottobre 1990, la Repubblica Democratica si dissolve aderendo alla Repubblica Federale di Germania. Il 1° luglio 1991 si dissolve il Patto di Varsavia: i paesi dell'Europa centro-orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati dell'Urss. Il 26 dicembre 1991, si dissolve la stessa Unione Sovietica: al posto di un unico Stato se ne formano quindici.
La scomparsa dell'Urss e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. Contemporaneamente, la disgregazione dell'Urss e la profonda crisi politica ed economica che investe la Russia segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense.
La guerra del Golfo del 1991 è la prima guerra che, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, Washington non motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione alla base di tutti i precedenti interventi militari statunitensi nel «terzo mondo», dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall'invasione di Grenada all'operazione contro il Nicaragua. Con questa guerra gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell'area strategica del Golfo, dove si concentra gran parte delle riserve petrolifere mondiali, e allo stesso tempo lanciano ad avversari, ex-avversari e alleati un inequivocabile messaggio. Esso è contenuto nella National Security Strategy of the United States(Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti), il documento con cui la Casa Bianca enuncia, nell'agosto 1991, la nuova strategia.
«Nonostante l'emergere di nuovi centri di potere - sottolinea il documento a firma del presidente - gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione - politica, economica e militare - realmente globali. Nel Golfo abbiamo dimostrato che la leadership americana deve includere la mobilitazione della comunità mondiale per condividere il pericolo e il rischio. Ma la mancanza di altri nell'assumersi il proprio onere non ci scuserebbe. In ultima analisi, siamo responsabili verso i nostri stessi interessi e la nostra stessa coscienza, verso i nostri ideali e la nostra storia, per ciò che facciamo con la potenza in nostro possesso. Negli anni Novanta, così come per gran parte di questo secolo, non esiste alcun sostituto alla leadership americana».
Il nuovo concetto strategico della Nato
Mentre riorientano la propria strategia, gli Stati Uniti premono sulla Nato perché faccia altrettanto. Per loro è della massima urgenza ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso dell'Alleanza atlantica. Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, viene infatti meno la motivazione della «minaccia sovietica» che ha tenuto finora coesa la Nato sotto l'indiscussa leadership statunitense: vi è quindi il pericolo che gli alleati europei facciano scelte divergenti o addirittura ritengano inutile la Nato nella nuova situazione geopolitica creatasi nella regione europea.
Il 7 novembre 1991 (dopo la prima guerra del Golfo, a cui la Nato ha partecipato non ufficialmente in quanto tale, ma con sue forze e strutture), i capi di stato e di governo dei sedici paesi della Nato, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «Il nuovo concetto strategico dell'Alleanza». «Contrariamente alla predominante minaccia del passato - afferma il documento - i rischi che permangono per la sicurezza dell'Alleanza sono di natura multiforme e multidirezionali, cosa che li rende difficili da prevedere e valutare. Le tensioni potrebbero portare a crisi dannose per la stabilità europea e perfino a conflitti armati, che potrebbero coinvolgere potenze esterne o espandersi sin dentro i paesi della Nato». Di fronte a questi e altri rischi, «la dimensione militare della nostra Alleanza resta un fattore essenziale, ma il fatto nuovo è che sarà più che mai al servizio di un concetto ampio di sicurezza». Definendo il concetto di sicurezza come qualcosa che non è circoscritto all'area nord-atlantica, si comincia a delineare la «Grande Nato».
Il «nuovo modello di difesa» dell'Italia
Tale strategia è fatta propria anche dall'Italia quando, sotto il sesto governo Andreotti, essa partecipa alla guerra del Golfo: i Tornado dell'aeronautica italiana effettuano 226 sortite per complessive 589 ore di volo, bombardando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. E' la prima guerra a cui partecipa la Repubblica italiana, violando l'articolo 11, uno dei principi fondamentali della propria Costituzione.
Subito dopo la guerra del Golfo, durante il settimo governo Andreotti, il ministero della difesa italiano pubblica, nell'ottobre 1991, il rapporto Modello di Difesa / Lineamenti di sviluppo delle FF.AA. negli anni '90. Il documento riconfigura la collocazione geostrategica dell'Italia, definendola «elemento centrale dell'area geostrategica che si estende unitariamente dallo Stretto di Gibilterra fino al Mar Nero, collegandosi, attraverso Suez, col Mar Rosso, il Corno d'Africa e il Golfo Persico». Considerata la «significativa vulnerabilità strategica dell'Italia» soprattutto per l'approvvigionamento petrolifero, «gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell'accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario», in particolare di quegli interessi che «direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo, in quanto condizione indispensabile per la conservazione e il progresso dell'attuale assetto politico e sociale della nazione».
Nel 1993 - mentre l'Italia sta partecipando all'operazione militare lanciata dagli Usa in Somalia, e al governo Amato subentra quello Ciampi - lo Stato maggiore della difesa dichiara che «occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio» per difendere ovunque gli «interessi vitali», al fine di «garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento dei prodotti energetici e strategici».
Nel 1995, durante il governo Dini, lo stato maggiore della difesa fa un ulteriore passo avanti, affermando che «la funzione delle forze armate trascende lo stretto ambito militare per assurgere anche a misura dello status e del ruolo del paese nel contesto internazionale».
Nel 1996, durante il governo Prodi, tale concetto viene ulteriormente sviluppato nella 47a sessione del Centro alti studi della difesa. «La politica della difesa - afferma il generale Angioni - diventa uno strumento della politica della sicurezza e, quindi, della politica estera».
Viene in tal modo istituita una nuova politica militare e, contestualmente, una nuova politica estera la quale, usando come strumento la forza militare, viola il principio costituzionale, affermato dall'Articolo 11, che «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Questa politica, introdotta attraverso decisioni apparentemente tecniche, viene di fatto istituzionalizzata passando sulla testa di un parlamento che, in stragrande maggioranza, se ne disinteressa o non sa neppure che cosa precisamente stia avvenendo.
La guerra contro la Iugoslavia
Poco tempo dopo essere stato enunciato, il «nuovo concetto strategico» viene messo in pratica nei Balcani. Nel luglio 1992 la Nato lancia la sua prima operazione di «risposta alle crisi», la Maritime Monitor, per imporre l'embargo alla Jugoslavia. Nei Balcani, tra l'ottobre '92 e il marzo '99, conduce undici operazioni: Deny Flight, Sharp Guard, Eagle Eye e altre. Il 28 febbraio 1994, durante la Deny Flight in Bosnia, la Nato effettua la prima azione di guerra nella sua storia. Viola così l'art. 5 della sua stessa carta costitutiva, poiché l'azione bellica non è motivata dall'attacco a un membro dell'Alleanza ed è effettuata fuori dalla sua area geografica.
Spento l'incendio in Bosnia (dove il fuoco resta sotto la cenere della divisione in stati etnici), i pompieri di Washington corrono a gettare benzina sul focolaio del Kosovo, dove è in corso da anni una rivendicazione di indipendenza da parte della maggioranza albanese (un milione e 800 mila persone, in confronto a 200 mila serbi, oltre 100 mila rom e goranci). Attraverso canali sotterranei in gran parte gestiti dalla Cia, un fiume di armi e finanziamenti, tra la fine del 1998 e l'inizio del 1999, va ad alimentare l'Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), braccio armato del movimento separatista kosovaro-albanese. Eppure, ancora nei primi mesi del 1998, il Dipartimento di stato Usa, per bocca dell'inviato Gelbart, definisce l'Uck una organizzazione terroristica. Agenti della Cia dichiareranno successivamente di «essere entrati in Kosovo nel 1998 e 1999, in veste di osservatori dell'Osce incaricati di verificare il cessate il fuoco, stabilendo collegamenti con l'Uck e dandogli manuali statunitensi di addestramento militare e consigli su come combattere l'esercito iugoslavo e la polizia serba, telefoni satellitari e apparecchi Gps, così che i comandanti della guerriglia potessero stare in contatto con la Nato e Washington». L'Uck può così scatenare un'offensiva contro le truppe federali e i civili serbi, con centinaia di attentati e rapimenti.
Mentre gli scontri tra le forze iugoslave e quelle dell'Uck provocano vittime da ambo le parti, una potente campagna politico-mediatica prepara l'opinione pubblica internazionale all'intervento della Nato, presentato come l'unico modo per fermare la «pulizia etnica» serba in Kosovo. A tale scopo viene fatta fallire l'opera di mediazione della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) che, nell'autunno 1998, invia una sua missione in Kosovo con il compito di vagliare le possibilità di pace e fermare la guerra denunciando le violazioni. E' a questo punto che, alla metà di gennaio 1999, viene fuori a Racak, zona controllata dall'Uck, l'«eccidio» di 45 «civili albanesi»: sono, dimostreranno in seguito i medici legali di una commissione indipendente finlandese, combattenti albanesi vittime negli scontri, non civili indifesi. Dando immediatamente per buona la versione dell'eccidio di civili, il capo della missione Osce, lo statunitense William Walzer (già agente della Cia in Salvador negli anni Ottanta), ritira la missione internazionale. I serbi vengono accusati di «pulizia etnica», nonostante che un rapporto Onu del gennaio 1999 valuti il numero di sfollati, sia albanesi che serbi e rom, in circa 60 mila, e la stessa missione Osce non abbia parlato sino a quel momento, nei suoi rapporti, di pulizia etnica. Vi sono evidentemente degli eccidi, commessi dall'una e dall'altra parte, non però la «pulizia etnica» che serve a motivare l'intervento armato degli Stati Uniti e dei loro alleati.
La guerra, denominata «Operazione forza alleata», inizia il 24 marzo 1999. Mentre gli aerei di Stati Uniti e altri paesi della Nato sganciano le prime bombe sulla Serbia e il Kosovo, il presidente democratico Clinton annuncia: «Alla fine del XX secolo, dopo due guerre mondiali e una guerra fredda, noi e i nostri alleati abbiamo la possibilità di lasciare ai nostri figli un'Europa libera, pacifica e stabile». Determinante, nella guerra, è il ruolo dell'Italia: il governo D'Alema mette il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e altri paesi, per attuare quello che il presidente del consiglio definisce «il diritto d'ingerenza umanitaria».
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane, 1.100 aerei effettuano 38mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili. Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle bombe e dei missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è anche la rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence (C3I) attraverso cui vengono condotte le operazioni: «Dei 2.000 obiettivi colpiti in Serbia dagli aerei della Nato - documenta successivamente il Pentagono - 1.999 vengono scelti dall'intelligence statunitense e solo uno dagli europei».
Sistematicamente, i bombardamenti smantellano le strutture e infrastrutture della Serbia e del Kosovo, provocando vittime soprattutto tra i civili. I danni che ne derivano per la salute e l'ambiente sono inquantificabili. Solo dalla raffineria di Pancevo fuoriescono, a causa dei bombardamenti, migliaia di tonnellate di sostanze chimiche altamente tossiche (compresi diossina e mercurio). Altri danni vengono provocati dal massiccio impiego da parte della Nato di proiettili a uranio impoverito, già usati nella guerra del Golfo.
Ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che compiono 1.378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. ... L'Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell'impegno dimostrato in questa guerra», dichiara il presidente del consiglio D'Alema durante la visita compiuta il 10 giugno 1999 alla base di Amendola, sottolineando che, per i piloti che vi hanno partecipato, è stata «una grande esperienza umana e professionale».
Il 10 giugno 1999, le truppe della Federazione iugoslava cominciano a ritirarsi dal Kosovo e la Nato mette fine ai bombardamenti. La risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che assume i contenuti della pace firmata a Kumanovo in Macedonia, «autorizza stati membri e rilevanti organizzazioni internazionali a stabilire la presenza internazionale di sicurezza in Kosovo, come disposto nell'annesso 2.4». L'annesso 2.4 dispone che la presenza internazionale deve avere una «sostanziale partecipazione della Nato» ed essere dispiegata «sotto controllo e comando unificati». A chi spetti il comando lo ha già chiarito il giorno prima il presidente Clinton, sottolineando che l'accordo sul Kosovo prevede «lo spiegamento di una forza internazionale di sicurezza con la Nato come nucleo, il che significa una catena di comando unificata della Nato». «Oggi la Nato affronta la sua nuova missione: quella di governare», commenta The Washington Post.
Finita la guerra, vengono inviati in Kosovo dal «Tribunale per i crimini nella ex Iugoslavia» oltre 60 agenti dell'Fbi statunitense, ma non vengono trovate tracce di eccidi tali da giustificare l'accusa di «pulizia etnica». Il Kosovo, divenuto una sorta di protettorato della Nato, viene di fatto distaccato dalla Federazione Iugoslava. Gli Usa, in aperto disprezzo degli accordi di Kumanovo, costruiscono presso Urosevac, Camp Bondsteel, la più grande base militare statunitense di tutta l'area, destinata a rimanervi per sempre. Contemporaneamente, sotto la copertura della «Forza di pace», l'ex Uck terrorizza ed espelle dal Kosovo oltre 260mila serbi, rom, albanesi «collaborazionisti» ed ebrei.
Il superamento dell'articolo 5 e la conferma della leadership Usa
Mentre è in corso la guerra contro la Iugoslavia, viene convocato a Washington, il 23-25 aprile 1999, il vertice della Nato che ufficializza il «nuovo concetto strategico»: nasce «una nuova Alleanza più grande, più capace e più flessibile, impegnata nella difesa collettiva e capace di intraprendere nuove missioni, tra cui l'attivo impegno nella gestione delle crisi, incluse le operazioni di risposta alle crisi». Da alleanza che, in base all'articolo 5 del trattato del 4 aprile 1949, impegna i paesi membri ad assistere anche con la forza armata il paese membro che sia attaccato nell'area nord-atlantica, essa viene trasformata in alleanza che, in base al nuovo «concetto strategico», impegna i paesi membri anche a «condurre operazioni di risposta alle crisi non previste dall'articolo 5, al di fuori del territorio dell'Alleanza».
A scanso di equivoci, il presidente democratico Clinton chiarisce che gli alleati nord-atlantici «riaffermano la loro prontezza ad affrontare, in appropriate circostanze, conflitti regionali al di là del territorio dei membri della Nato». Alla domanda di quale sia l'area geografica in cui la Nato è pronta a intervenire, «il Presidente si rifiuta di specificare a quale distanza la Nato intende proiettare la propria forza, dicendo che non è questione di geografia». In altre parole, la Nato intende proiettare la propria forza militare al di fuori dei propri confini non solo in Europa, ma anche in altre regioni.
Ciò che non cambia, nella mutazione genetica della Nato, è la gerarchia all'interno dell'Alleanza. La Casa Bianca dice a chiare lettere che «la Nato, come garante della sicurezza europea, deve svolgere un ruolo dirigente nel promuovere un'Europa più integrata e sicura» e che «noi manterremo in Europa circa 100 mila militari per contribuire alla stabilità regionale, sostenere i nostri vitali legami transatlantici e conservare la leadership degli Stati uniti nella Nato». Dunque, un'Europa stabile sotto la Nato e una Nato stabilmente sotto gli Stati Uniti.
La Nato alla conquista dell'Est
Inizia contemporaneamente l'espansione della Nato nel territorio dell'ex Patto di Varsavia e dell'ex Unione Sovietica. Nel 1999 essa ingloba i primi tre paesi dell'ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell'Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Repubblica iugoslava). Al vertice di Bucarest, nell'aprile 2008, viene deciso l'ingresso di Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e Croazia (già parte della Repubblica iugoslava). Viene inoltre preparato l'ingresso nell'Alleanza dell'ex repubblica iugoslava di Macedonia e di Ucraina e Georgia, già parte dell'Urss. Si afferma infine che continuerà la «politica della porta aperta» per permettere ad altri paesi ancora di entrare un giorno nella Nato.
Gli Stati Uniti riescono così nel loro intento: sovrapporre a un'Europa basata sull'allargamento della Ue un'Europa basata sull'allargamento della Nato. Entrando nella Nato, i paesi dell'Europa orientale, comprese alcune repubbliche dell'ex Urss, vengono a essere più direttamente sotto il controllo degli Stati Uniti che mantengono nell'Alleanza una posizione predominante. Basti pensare che il Comandante supremo alleato in Europa è, per una sorta di diritto ereditario, un generale statunitense nominato dal presidente, e che tutti gli altri comandi chiave sono controllati direttamente dal Pentagono.
Per di più, i nuovi paesi membri devono riconvertire gli armamenti e le infrastrutture militari secondo gli standard Nato: ciò avvantaggia l'industria bellica statunitense, dato che l'acquisto di armi statunitensi viene posto da Washington quale condizione per l'ammissione alla Nato. In tal modo gli Stati uniti si assicurano una serie di strumenti militari ed economici, e quindi politici, per tenere questi paesi in posizione gregaria all'interno della Nato alle dirette dipendenze di Washington. Non solo: poiché Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania e Bulgaria entrano nella Ue tra il 2004 e il 2007, Washington si assicura notevoli strumenti di pressione all'interno della stessa Unione europea per orientare le sue scelte politiche e strategiche.
La Nato in Afghanistan
La costituzione dell'Isaf (Forza internazionale di assistenza alla sicurezza) viene autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu con la risoluzione 1386 del 20 dicembre 2001. Suo compito è quello di assistere l'autorità ad interim afghana a Kabul e dintorni. Secondo l'art. VII della Carta delle Nazioni unite, l'impiego delle forze armate messe a disposizione da membri dell'Onu per tali missioni deve essere stabilito dal Consiglio di sicurezza coadiuvato dal Comitato di stato maggiore, composto dai capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Anche se tale comitato non esiste, l'Isaf resta fino all'agosto 2003 una missione Onu, la cui direzione viene affidata in successione a Gran Bretagna, Turchia, Germania e Olanda.
Ma improvvisamente, l'11 agosto 2003, la Nato annuncia di aver «assunto il ruolo di leadership dell'Isaf, forza con mandato Onu». E' un vero e proprio colpo di mano: nessuna risoluzione del Consiglio di sicurezza autorizza la Nato ad assumere la leadership, ossia il comando, dell'Isaf. Solo a cose fatte, nella risoluzione 1659 del 15 febbraio 2006, il Consiglio di sicurezza «riconosce il continuo impegno della Nato nel dirigere l'Isaf».
A guidare la missione, dall'11 agosto 2003, non è più l'Onu ma la Nato: il quartier generale Isaf viene infatti inserito nella catena di comando della Nato, che sceglie di volta in volta i generali da mettere a capo dell'Isaf. Come sottolinea un comunicato del giugno 2006, «la Nato ha assunto il comando e il coordinamento dell'Isaf nell'agosto 2003: questa è la prima missione al di fuori dell'area euro-atlantica nella storia della Nato». E poiché il «comandante supremo alleato» è sempre un generale statunitense, la missione Isaf viene di fatto inserita nella catena di comando del Pentagono. Nella stessa catena di comando sono inseriti i militari italiani assegnati all'Isaf, insieme a elicotteri e aerei, compresi i Tornado.
Il «disegno di ordine e pace» della Nato in Afghanistan ha ben altri scopi di quelli dichiarati: non la liberazione dell'Afghanistan dai talebani, che erano stati addestrati e armati in Pakistan in una operazione concordata con la Cia per conquistare il potere a Kabul, ma l'occupazione dell'Afghanistan, area di primaria importanza strategica per gli Stati Uniti. Lo dimostrano le basi permanenti che hanno qui installato, tra cui quelle aeree di Bagram, Kandahar e Shindand. A queste basi se ne aggiungeranno probabilmente altre nove.
Per capire il perché basta guardare la carta geografica: l'Afghanistan è al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale. In quest'area (nel Golfo e nel Caspio) si trovano le maggiori riserve petrolifere del mondo. Si trovano tre grandi potenze - Cina, Russia e India - la cui forza complessiva sta crescendo e influendo sugli assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del 30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse». Da qui la necessità di «pacificare» l'Afghanistan per disporre senza problemi del suo territorio. Ma, impegnati su troppi fronti, gli Usa non ce la fanno. Ecco quindi il coinvolgimento degli alleati Nato sotto paravento Onu, sempre agli ordini di un generale statunitense.
Il sostegno Nato a Israele
Nell'aprile 2001 Israele firma al quartier generale della Nato a Bruxelles l'«accordo di sicurezza», impegnandosi a proteggere le «informazioni classificate» che riceverà nel quadro della cooperazione militare.
Nel luglio 2001 il Pentagono dà il nullaosta per la fornitura a Israele dei primi 1000 kit Jdam, realizzati dalla Boeing in collaborazione con la joint-venture italo-inglese Alenia Marconi Systems: questo nuovo sistema di guida rende «intelligenti» le bombe aeree «stupide» permettendo agli F-16 israeliani di colpire simultaneamente più obiettivi a oltre 50 km di distanza.
Nel giugno 2003 il governo italiano stipula con quello israeliano un memorandum d'intesa per la cooperazione nel settore militare e della difesa, che prevede tra l'altro lo sviluppo congiunto di un nuovo sistema di guerra elettronica.
Nel gennaio 2004 un aereo radar Awacs della Nato atterra per la prima volta a Tel Aviv e il personale israeliano viene addestrato all'uso delle sue tecnologie.
Nel dicembre 2004 viene data notizia che la Germania fornirà a Israele altri due sottomarini Dolphin, che si aggiungeranno ai tre (di cui due regalati) consegnati negli anni '90. Israele può così potenziare la sua flotta di sottomarini da attacco nucleare, tenuti costantemente in navigazione nel Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico.
Nel febbraio 2005 il segretario generale della Nato compie la prima visita ufficiale a Tel Aviv, dove incontra le massime autorità militari israeliane per «espandere la cooperazione militare».
Nel marzo 2005 si svolge nel Mar Rosso la prima esercitazione navale congiunta Israele-Nato: il comando del gruppo navale della «Forza di risposta della Nato» è affidato alla marina italiana che vi partecipa con la fregata Bersagliere.
Nel maggio 2005, dopo essere stato ratificato al senato e alla camera, il memorandum d'intesa italo-israeliano diviene legge: viene così istituzionalizzata la cooperazione tra i ministeri della difesa e le forze armate dei due paesi riguardo l'«importazione, esportazione e transito di materiali militari», l'«organizzazione delle forze armate», la «formazione/addestramento».
Nel maggio 2005 Israele viene ammesso quale membro dell'Assemblea parlamentare della Nato.
Nel giugno 2005 la marina israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Golfo di Taranto.
Nel luglio 2005 truppe israeliane partecipano per la prima volta a una esercitazione Nato «anti-terrorismo», che si svolge in Ucraina.
Nel giugno 2006 una nave da guerra israeliana partecipa a una esercitazione Nato nel Mar Nero allo scopo di «creare una migliore interoperabilità tra la marina israeliana e le forze navali Nato».
Nell'ottobre 2006, Nato e Israele concludono un accordo che stabilisce una più stretta cooperazione israeliana al programma Nato «Dialogo mediterraneo», il cui scopo è «contribuire alla sicurezza e stabilità della regione». In tale quadro, «Nato e Israele si accordano sulle modalità del contributo israeliano all'operazione marittima della Nato Active Endeavour» (Nato/Israel Cooperation, 16 ottobre 2006). Israele viene così premiato dalla Nato per l'attacco e l'invasione del Libano. Le forze navali israeliane, che insieme a quelle aeree e terrestri hanno appena martellato il Libano con migliaia di tonnellate di bombe facendo strage di civili, vengono integrate nella operazione Nato che dovrebbe «combattere il terrorismo nel Mediterraneo». Le stesse forze navali che, bombardando la centrale elettrica di Jiyyeh sulle coste libanesi, hanno provocato una enorme marea nera diffusasi nel Mediterraneo (la cui bonifica verrà a costare centinaia di milioni di dollari), collaborano ora con la Nato per «contribuire alla sicurezza della regione».
Il 2 dicembre 2008, circa tre settimane prima dell'attacco israeliano a Gaza, la Nato ratifica il «Programma di cooperazione individuale» con Israele. Esso comprende una vasta gamma di campi in cui «Nato e Israele coopereranno pienamente»: controterrorismo, tra cui scambio di informazioni tra i servizi di intelligence; connessione di Israele al sistema elettronico Nato; cooperazione nel settore degli armamenti; aumento delle esercitazioni militari congiunte Nato-Israele; allargamento della cooperazione nella lotta contro la proliferazione nucleare (ignorando che Israele, unica potenza nucleare della regione, ha rifiutato di firmare il Trattato di non-proliferazione).
La Nato «a caccia di pirati» nell'Oceano Indiano
Nell'ottobre 2008, un gruppo navale della Nato, lo Standing Nato Maritime Group 2 (Snmg2) attraversa il Canale di Suez, entrando nell'Oceano Indiano. Ne fanno parte navi da guerra di Italia, Stati uniti, Germania, Gran Bretagna, Grecia e Turchia. Lo Snmg2 è il successore della Standing Naval Force Mediterranean (Stanavformed), la forza navale permanente del Mediterraneo, costituita nel 1992 dalla Nato in base al «nuovo concetto strategico». Questo gruppo navale (il cui comando è assunto a rotazione dai paesi membri) fa parte di una delle tre componenti dello Allied Joint Force Command Naples, il cui comando è permanentemente attribuito a un ammiraglio statunitense, lo stesso che comanda le Forze navali Usa in Europa. L'area in cui opera lo Snmg2 non ha ormai più confini, in quanto esso costituisce una delle unità della «Forza di risposta della Nato», pronta a essere proiettata «per qualsiasi missione in qualsiasi parte del mondo».
Scopo ufficiale della missione dello Snmg2 nell'Oceano Indiano è condurre «operazioni anti-pirateria» lungo le coste della Somalia, scortando i mercantili che trasportano gli aiuti alimentari del World Food Program delle Nazioni Unite. In questo «sforzo umanitario», la Nato «continua a coordinare la sua assistenza con l'operazione Enduring Freedom a guida Usa». Sorge quindi il dubbio c