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Goffredo Parise. Unica patria, il Veneto

di Stenio Solinas - 04/09/2006

 

Capacità sensuale di rendere i piaceri della vita fatti di contemplazione e di possesso,
abbandono e ricordo, carnalità e delicatezza.

Poco prima che
Goffredo
Parise morisse,
Alberto
Moravia andò
a trovarlo nella
sua casa di
Ponte di Piave, vicino a Treviso.
Nato a Vicenza nel 1929, un esordio
critico sfolgorante con Il ragazzo
morto e le comete, a poco più di
vent’anni, il primo best-seller, Il
prete bello, a venticinque, il Veneto
di Parise era a lungo consistito in
una rielaborazione della memoria
fatta da un giovane scrittore che
aveva scelto Roma, capitale del
cinema, e Milano, capitale
dell’editoria, come città
d’adozione. Poi, negli
anni Sessanta e Settanta,
era venuta la grande stagione
del Parise viaggiatore,
i reportage dalla
Cina e dal Giappone, le
corrispondenze dal Vietnam,
e la provincia della
sua infanzia e della sua
giovinezza era sembrata
dovesse annegare nel
grande mare dell’Altrove,
in una sete di avventura
dove il diverso e l’insolito,
l’altro da sé e lo sconosciuto,
la babele delle
lingue, dei cibi e dei
costumi concorrevano a
disegnare un orizzonte
geografico e fantastico
sterminato e ancora tutto
da esplorare.
Era stato intorno
ai cinquant’anni
che il Veneto era
riapparso, o,
meglio, era tornato
in superficie,
perché sul fondo e
nel fondo non se
n’era mai andato,
e Parise aveva fatto
di Salgareda,
sulla riva del Piave,
il suo buen
retiro. «Avvolto in
un ampio verde
disordinato, tra
viti nane e alberi
da frutto, alti
pioppi e salici
c’era un relitto di
casa, una sorta di
fienile quasi invisibile,
coperto da un grosso gelso
storto che gli stava di
fronte. Decisi che avrei
comprato quel fienile.
Così passarono giorni e
anni. Ero un uomo solo
che viveva solo, felice e
infelice come sempre capita.
Stavo a Roma, ma sempre
più spesso in quel luogo
incantato dove l’ozio
era popolato di compagnia
animale, giorno e
notte».
Poi nella vita di Parise
apparve, improvvisa e
brutale, la malattia, e lo
scrittore la prese quasi
come un affronto personale:
se c’era uno assetato di
fisicità questi era lui e ora,
subdola e senza ritegno, ecco che
quella gli avvelenava il sangue, gli
toglieva le forze, gli negava la
gioia, l’ansia e la fierezza del non
dover dipendere da nessuno, dello
star da solo, del nutrirsi della propria
solitudine. Da rifugio Salgareda
si trasformò di colpo in trappola,
troppo isolata, priva di comodità e
di sicurezza, ma, come si fa sempre
quando si è caparbi e non la si vuole
dare vinta, Parise non la lasciò
completamente e si fece un’altra
Salgareda poco lontano, a Ponte di
Piave, appunto, più domestica e
meno selvatica, egualmente spartana
e tuttavia cittadina, immersa nella
natura, ma a contatto con la
modernità.
È qui che in un giorno del 1986
Moravia suona alla porta: non si
vedono da molto tempo, l’autore
degli Indifferenti ha quasi ottant’anni
e si è risposato da poco, si stimano
e si vogliono bene in quel modo
rustico e burbero, razionale, ma
anche sentimentale, che è proprio
dei loro caratteri. Si chiacchiera, si
fuma, anzi, è Parise, che pure non
dovrebbe, a fumare «continuamente,
seduto di sbieco in una poltroncina
». A un certo punto Moravia
dice qualcosa della casa, che è bella,
rossa, un giardino all’inglese che
la circonda, la riproduzione di una
statua di Brancusi, Mademoiselle
Pogany, in mezzo all’erba. L’altro
allora si alza, «con passo lento e
affaticato mi viene vicino e mi dice
in tono di scontento oggettivo e
polemico, come se non parlasse di
se stesso ma della casa: “Sì, ho una
bella casa, ma sto per diventare cieco”».
In quella frase, in quel tono, nel distacco
che li accompagna c’è il
Veneto di Parise, un Veneto grifagno
e terragno, naturale e non raffinato,
barbarico e vitale, pudico e
segreto. «Mi chiedevo quale cultura
potesse legare la solenne bellezza
delle colonne palladiane, dei portici
padovani, dei ponti veronesi, della
scintillante Venezia con il suo ricciolo
di ferro sulla punta delle gondole
gondole
e i suoi pittori alla enorme
quantità di piccole e grandi fabbriche
del Veneto e non ne trovavo
nessuna, salvo una e una sola. La
forza barbarica della terra, che ha
prodotto lavoro di campi fino a ieri
e ora produce lavoro nelle fabbriche.
Ma era forza barbarica, cui la
mia stessa arte si nutriva, e non cultura
latina e mediterranea. In fondo
il Veneto ha avuto il suo riscatto, e
la sua cultura popolare, dal mondo
moderno, il mondo della produzione
e del consumo. Altro che Veneto
bianco, cattolico, bigotto, eccetera,
i luoghi comuni della politica! E il
Veneto era ed è forte, barbaro, e
dunque produttivo e dunque
industriale».
Adesso che nella casa di
Ponte di Piave, divenuta
per volontà del suo proprietario
fondazione culturale,
è esposta, in occasione
del ventennale della
morte, la mostra Il Veneto
di Goffredo Parise, una
raccolta di immagini fotografiche
di Lorenzo Cappellini
accompagnata da
testi scelti dello scrittore
(fino al 20 ottobre), quel
senso di appartenenza così
particolare e così unico si
chiarisce ulteriormente e
assume anche una diversa
profondità. «Fuori del
Veneto per me è terra straniera
e forse ostile. Non ho
mai combattuto come altri
possono aver fatto questo
sentimento perché è
veramente il più
forte, né amo particolarmente
i veneti
e il solo fatto di
essere veneti. Ci
sono i buoni e i cattivi,
per lo più sono
piuttosto ignoranti,
non mi sono particolarmente
simpatici,
ho pochissimi
amici veneti. Ma il
Veneto resta la mia
Patria, perché vi
sono nato: semplicemente
». Nella
casa, i quadri di
Guarienti, De Pisis,
Klee e Schifano, le
poltrone in vimini e
i trumeaux in legno massiccio,
la scrivania, il letto
monacale e la macchina
per scrivere rimandano a
una scelta fotografica che
privilegia gli scorci e la
natura, i silenzi e le piste
innevate, gli animali e
l’imponente solitudine dei
paesaggi lagunari. L’orizzonte
veneto dello scrittore
è fra Cortina e Venezia,
Treviso e la campagna, la
laguna e le valli da pesca
ed è sempre e comunque
un orizzonte solido e
misterioso, isolato e
malinconico, panico.
Pochi hanno avuto come
lui questa capacità sensuale
di rendere i piaceri della
vita fatti di contemplazione
e di possesso, abbandono e
ricordo, carnalità e delicatezza. Si
sente sempre nella sua prosa una
sorta di bramosia fisica e di senso
estetico, un assaporare fino all’ultimo
istante, un lasciarsi andare per
meglio annullarsi e in qualche
modo risorgere. E tanto è squillante
il possesso, tanto è lacerante il
ricordo: «L’uomo partì da Venezia,
passarono non molti anni da quel
giorno di settembre e un altro giorno
di febbre, in una clinica, era
molto triste. Per consolarsi cantò
con un filo di voce, ciò che venne
fuori fu: La biondina in gondoleta,
e l’uomo pianse perché riconobbe
l’orchestra del Florian, la laguna
ondolante e la dolcezza della vita».