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Giovedì in un quartiere di...

di Massimo Fini - 04/09/2006

 
Giovedì in un quartiere di Baghdad est c'è stata una serie di attentati che hanno fatto, complessivamente, 64 morti e 250 feriti. Ho sfogliato i giornali italiani e non ne ho trovato notizia. Anche quella all'Iraq comincia ad essere una "guerra dimenticata", cosa che non dispiace troppo ai governi dei Paesi che hanno invaso e occupato quel Paese provocandone il collasso. Ma non è che siccome una cosa "non fa più notizia", sorpassata, e forse non a caso, dalla questione libanese e da quella del nucleare iraniano, per questo non esiste. I militari italiani se ne vanno. "Missione compiuta e completa" annuncia trionfalmente il ministro della Difesa Arturo Parisi. Per la verità benché non si sia mai capito bene che cosa siamo andati a fare in Iraq bisognerebbe parlare di "missione fallita" visto che ci lasciamo alle spalle un Paese in fiamme dove persino 64 morti e 250 feriti "non fanno più notizia" e sono entrati nella routine.
 
È vero che la provincia di Dhi Oar, dove erano posizionate le nostre truppe sotto guida britannica, è relativamente più tranquilla delle altre. Ma solo perché è una zona totalmente sciita controllata dalle milizie di Moqtada al Sadr a sua volta controllato dai servizi segreti iraniani con i quali, dopo la strage di Nassiriya, abbiamo stretto, sottobanco, un accordo: noi facevamo solo finta di controllare e loro ci lasciavano in pace, (è per questo che l'allora ministro degli Esteri italiano, Gianfranco Fini, rinunciò, all'ultimo momento, a partecipare a una manifestazione contro le dichiarazioni anti-Israele di Ahmadinejad, dicendo, in modo sibillino, che la sua presenza avrebbe potuto "mettere in pericolo le nostre truppe in Iraq").

Gli italiani se ne vanno: e fanno bene. Non solo perché, ad onta di tutta la retorica patriottarda, servivano a poco o a nulla, ma perché è proprio la presenza delle truppe occidentali che ha infiammato l'Iraq dove oggi si combinano, in un sinistro melange, tre elementi di violenza: gli insorti che combattono gli occupanti, la strisciante guerra civile fra sunniti e sciiti, il terrorismo internazionale che pesca nel torbido e che in un Paese disgregato trova amplissimi spazi di manovra, armi, complicità in parte della popolazione, bersagli facili (per cui la missione occidentale è fallita anche dal punto di vista della realpolitik, perché invece di ridimensionare il terrorismo lo ha grandemente rinforzato).

Ecco perché oltre agli italiani anche i 140 mila soldati americani (punta massima della presenza Usa in Iraq) e britannici se ne devono andare al più presto. Non solo per una questione di "exit strategy", di disimpegnarsi, dopo aver provocato il disastro, da una situazione ormai ingovernabile, ma per permettere agli iracheni di trovare da sè un nuovo equilibrio nel dopo-Saddam. Dice: se le truppe occidentali se ne vanno si scatenerà la guerra civile. Ma la guerra civile fra sunniti e sciiti c'è già, solo che finché ci saranno gli occupanti non potrà trovare uno sbocco, un vincitore e un vinto, e il sangue continuerà a scorrere del tutto inutilmente. Se invece si consente agli iracheni di regolare da sè i propri conti, anche col sangue, alla fine qualcuno prevarrà e ci sarà un potere vero, un potere forte a differenza del ridicolo governo attuale di Nuri Al Maliki, un governo-fantoccio, un governo-Qusling, come quello di Karzai in Afghanistan, che si sostiene sulle truppe straniere e che non resterebbe in piedi una settimana senza di esse (solo chi non conosce l'Iraq, questo guazzabuglio di sunniti, di sciiti e di curdi messo insieme arbitrariamente come Stato degli inglesi nel 1930, può pensare che possa essere governato da un potere non dispotico). E un governo forte, avrà probabilmente tutto l'interesse a liberarsi dei terroristi internazionali, esattamente come Saddam Hussein non permetteva a Bin Laden e ai suoi di scorrazzare impunemente per il paese.

Se invece le truppe occidentali non faranno il favore di andarsene, la guerra e la guerriglia continueranno per anni, in una situazione di stallo, e sempre più spesso stragi come quella di giovedì troveranno spazio, come notiziole minori, in qualche trafiletto delle pagine interne dei nostri giornali.