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Nietzsche l'oltreuomo quotidiano: divieni ciò che sei

di Giuseppe Tortora - 05/09/2006

Fonte: il mattino


 

Nietzsche attrae sempre. I suoi grandi temi - la trasmutazione dei valori, il superuomo, l’eterno ritorno - fanno volare l’intelligenza e la fantasia. Ma questo presentato nel volume, Divieni ciò che sei (Marinotti, pagg. 194, euro 17) è il Nietzsche delle piccole cose. Non un Nietzsche raccontato, ma presentato attraverso le sue stesse parole. Il testo infatti è una raccolta mirata di passi tratti dalle sue opere. Interessante dunque, anche se la modalità antologica, scelta dai curatori - Mirella Carbone e Joachim Jung - è molto discutibile e peraltro pone questioni di metodo storiografico che non è il caso di affrontare qui. Nietzsche mette al bando le domande «decisive», i quesiti dei religiosi dei filosofici dogmatici. Preti, insegnanti, filosofi - idealisti, materialisti o realisti -: tutti pessimi maestri; ci hanno allontanato da noi stessi, dai nostri istinti. Dunque occorre recuperare un giusto egoismo. «Dobbiamo tornare a essere buoni vicini di ciò che ci circonda e smetterla di ignorare sprezzanti le piccole cose, elevando lo sguardo verso nuvole e mostri notturni». Corpo, anima e intelletto costituiscono un unico sistema. Sono interdipendenti e interagenti. Se il loro equilibrio - unico per ogni individuo - si sbilancia, insorgono il dolore e la malattia. Beninteso: la salute non è assenza di malattia. Non è uno stato, ma un processo di ricerca di armonia nella realizzazione di sé. Dunque è un compito e insieme un obiettivo a cui tendere continuamente con la sperimentazione. Il dolore caratterizza il mutamento e la crescita. Ogni processo generativo, come ben sanno le donne per i dolori del parto. La malattia dunque è benefica: è «un potente stimolo» che consente di riappropriarsi, di raggiungere un nuovo equilibrio. Un primo passo verso la «salute superiore». Essa, costringendo all’ozio, induce a riflettere sui propri stili di vita. O meglio: ad acquistare lucidità di verifica delle proprie inclinazioni, dei propri bisogni fisici e spirituali; a individuare le potenzialità e le vere risorse della propria personalità; nonché ad attivare la volontà e il coraggio per riorganizzare la propria esistenza. Che poi significa conferimento di nuovo senso e nuovo valore a cose ed eventi. Ma guai a separare il corpo dall’intelligenza: lo sapevano bene gli antichi quando pensavano che il saggio fosse «sapiens», colui che sa avvertire il sapore delle cose. Che sa sceglierle per provarle; e quindi farle proprie se rispondono ai suoi veri bisogni fisici e spirituali, o, in caso contrario, abbandonarle senza rimpianti. Un’impresa, in quest’epoca moderna. In cui non si riesce a cogliere l’aspetto positivo dell’ozio, del vuoto, della noia: le sole esperienze che aprono la porta alla autoriflessione. Epoca in cui non siamo capaci di «attaccare all’aratro» - di rendere produttivi - l’irrequietezza interiore, il disorientamento, la paura, il senso di vuoto. E operiamo rimozioni. Oppure ricorriamo a narcotici o eccitanti. O c’identifichiamo stupidamente con i modelli sociali dominanti, interiorizzando comportamenti considerati comunemente virtuosi. E ci lasciamo dominare dal dolore, dal malessere, rimandando sine die la riappropriazione creativa di noi stessi, l’individuazione dei nostri giusti ritmi, il recupero del nostro passo. Una vera requisitoria contro l’epoca moderna, quella di Nietzsche. Epoca in cui è difficile trovare un posto per l’attività filosofica. Il lavoro è tutto. Domina il modello dell’uomo freneticamente attivo, non di quello oziosamente meditativo, contemplativo e inventivo. E si dimenticano persino le più fondamentali istanze del proprio corpo. Eppure: «C’è più assennatezza nel tuo corpo che nella tua più assennata saggezza». Si viaggia, sì, ma non per prendere le distanze dalla quotidiana routine, dai doveri sociali e professionali. Non per aprirsi alle esperienze di vita altrui. Non per attivare la nostra mente alla considerazione dei modi di vita in vigore in altri paesi, in altre terre. In fondo siamo sordi alla voce interiore che comanda: «Via da qui! In marcia, viandante! Ci sono ancora molti mari e terre che ti aspettano: e chissà quanti incontri dovrai fare ancora».