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Non si puo’ correre il rischio che scoppi una rivoluzione

di Nicolò La Rocca - 13/09/2006

 

 

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Sciascia è stato forse l’intellettuale più osteggiato della nostra storia, con lui per qualche decennio il potere (sia quello cattolico, sia quello comunista) ha dimenticato quella sentenza per la quale se vuoi uccidere un libro basta che non ne parli, né bene né male, e questa distrazione il potere l’ha pagato a caro prezzo, perché questo intellettuale non l’ha lasciato in pace (cioè nel suo disordine controllato, la pace della nostra cinica e ipocrita società occidentale) mai, impegnandosi in ogni libro, giallo o pamphlet che fosse, nell’esibirlo al lettore, senza dare spettacolo, senza metterlo in mostra, senza sentimentalismi, ma sezionandolo con la competenza del medico legale e restituendo al lettore la fredda disamina di un mondo dove la ragione può solo morire.

More...  Sapeva che la sua visibilità pubblica doveva considerarla un privilegio, una concessione che soltanto pochi hanno, per rispetto all’eccezione della regola, o solo per caso (i successi editoriali seguono le regole del caso, non c’è mai alcuna spiegazione). Giuseppe Antonio Borgese, per esempio, aveva subito un ostracismo assoluto, per aver usato la ragione, per essere stato né cattolico né comunista, né fascista né partigiano, contro tutti. E allora Sciascia si era scatenato sobriamente, nel suo stile: contro le Brigate Rosse e contro lo Stato che ormai era da buttare; il prefetto Dalla Chiesa? Non ha capito niente, lo dice mentre gli altri si allineano alla facile e pericolosa (perché esclude o addirittura condanna chi non si adegua) retorica del morto ammazzato, lo dice mentre dirlo significa per tutti schierarsi con la mafia, lo dice mentre le signore impegnate e per bene si scandalizzano se ci si discosta di qualche virgola dall’agiografia su Dalla Chiesa che si sta montando in quei giorni. I professionisti dell’antimafia? La nuova porta della retorica. Lo dice rischiando di travolgere anche chi è immune da qualsiasi caduta nel precipizio della retorica, lo dice perché sa che è una verità, la sua, scomoda. E a lui piacciono le verità scomode, perché sa che le verità possono essere soltanto scomode. Le verità sono dei trofei per i quali bisogna lottare, sono oggetti che nascono dall’opposizione. Le verità seguono gli schemi della narratologia, se non c’è contrasto non c’è verità. Se tutti ti dicono bravo allora c’è qualcosa che non va. Lo sa bene, Sciascia. E il potere si era mosso scomposto, reagendo d’impulso alle polemiche di cui lui era un maestro. Sarebbe bastato il silenzio per annullarlo, questo piccolo uomo di Racalmuto, i democristiani lo sapevano bene. E invece no, la reazione fu virulenta, disperata: fioccarono le stroncature, di critici che oggi veneriamo come dei.  Tra l’altro, Sciascia era infastidito da una strana conversione all’antimafia dell’intera Italia culturale. Ma per questa conversione (alla moda) nessun altro, a parte i mafiosi (ma solo quelli con coppola e lupara), era da ritenersi responsabile di alcunché… Solo la mafia militare, dunque, come oggi… Così, Todo modo e Il Contesto furono due libri molto contrastati, liquidati come opere banali, presuntuose, esteriormente moraliste. Non rispettavano la vulgata della cultura dell’antimafia. Quei romanzi smontavano la rappresentazione del crimine voluta dalle classi dirigenti, mostrando, con la perentorietà di un atto notarile, che l’ethos criminale non dimora solo nei tinelli, nelle strade e nelle periferie, ma specialmente nelle classi dirigenti di questo occidente, nell’articolazione interna della politica.

Allora mi chiedo: che cosa scriverebbe oggi Sciascia dell’indulto per reati di voto di scambio mafioso, corruzione, per reati finanziari e fiscali nei confronti della Pubblica Amministrazione, falso in bilancio? Riuscirebbe a non farsi depistare, a non farsi distrarre dalle lusinghe di un impegno votato soltanto a narrare le periferie, l’apparato militare delle mafie, i morti ammazzati, gli spacciatori? No, si occuperebbe del contesto. E si attirerebbe una marea di stroncature. Non diventerebbe il Benigni della letteratura che tutti applaudono. Non lascerebbe i veri protagonisti del crimine fuori dalla rappresentazione. Come si fa a combattere le mafie senza colpire chi permette le connessioni politiche ed economiche? Hanno arrestato Provenzano, vogliono abbattere le Vele, hanno arrestato gli scippatori dell’americano brutalmente picchiato a Napoli, i ladri di auto che vivono allo Zen, gli spacciatori di tutte le periferie. E basta. Scriverebbe queste cose, Leonardo Sciascia? O ci segnalerebbe quella teoria del disordine controllato, che il giudice Roberto Scarpinato continua a ricordarci provando a liberarsi dei mille cuscini vellutati che, schiacciati delicatamente ma con fermezza sulla sua bocca, donano alla sua voce un tono ovattato, da convegno, da scarso resto? Questa teoria afferma che in certi quartieri (in certe città… in certe regioni…), dove i contrasti sociali sono più forti e apparentemente irrisolvibili, allo Stato fa comodo delegare l’uso della forza alle organizzazioni militari delle mafie. Nella società tardo feudale dell’Ottocento le mafie fornivano la loro mediazione, si innestavano tra i baroni e i bifolchi, garantivano il disordine controllato. Nel primo Novecento aiutavano il potere politico a contrastare le spinte del sindacalismo combattente. Negli anni Sessanta e Settanta fornivano il loro appoggio alle grandi speculazioni edilizie. E oggi? Le mafie militari non si vanno a incuneare forse tra la cultura populistica e catodica (di destra e di sinistra) degli armenti di elettori e quella di chi occupa le postazioni del potere? Non si occupano della difficile transumanza degli elettori, guidandoli agli uffici elettorali dei pascoli del sud con il voto certo nella matita copiativa?  Chi godrà dell’indulto per reati di scambio mafioso e corruzione, del resto, è insieme il prodotto e la causa di quella particolarissima matita copiativa. Non sono gli eletti con la matita copiativa siciliana (ma anche campana, calabrese e pugliese) che si occupano del potere legislativo?

Sciascia, ripeto, che farebbe? Capirebbe la lezione che danno certe sconfitte editoriali, come quella subita da Paolo Barnard quando col suo “Perché ci odiano” edito da BUR invece di allinearsi alla vulgata dell’impegno internazionale che vuole che si parli solo di Hezbollāh e Israele, allarga il suo sguardo sul neocolonialismo dell’occidente, arrivando al punto di non ricevere alcuna recensione – il disinteresse democristiano? Oppure scriverebbe dei bei paginoni polemici sulle attuali coordinate dell’impegno, accettando di veder reiterate le antiche stroncature alla sua opera, fatte di accuse di qualunquismo, moralismo da quattro soldi, giustizialismo, ecc. ecc.?

Ma Sciascia morì il 20 novembre 1989 e muore ogni giorno.