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Dall'11/9 a oggi, l'opinione che il mondo ha degli Usa

di Norman Solomon - 13/09/2006


Cos'ha imparato questa America dall'11 settembre a oggi? Se si chiede al di fuori dei suoi confini, non molto. E l'isolamento mediatico che negli stessi Usa ancora vige rispetto alla “guerra al terrore” non contribuisce a migliorare le cose

I mass media negli Usa non fanno altro che riportare come gli americani giudicano la “guerra al terrore”. Raramente, invece, si parla di cosa ne pensa il resto del mondo.

Cinque anni dopo l’11 settembre, il gap tra le diverse percezioni è enorme. Innumerevoli sondaggi lo confermano. Giorno dopo giorno, i messaggi mediatici che negli Stati Uniti ci circondano senza tregua semplicemente riciclano interpretazioni americane per spettatori, ascoltatori e lettori americani.

Tuttavia, qualche eccezione esiste. Ad esempio è il caso di “PRI’s The World”, una recente coproduzione di Public Radio International, di WGBH di Boston e di BBC World Service. “Abbiamo deciso di intervistare persone in tutto il mondo, per riportare le loro opinioni sulla ‘guerra al terrore’ della Casa Bianca”, ha detto il conduttore durante una trasmissione del 5 settembre. Per i successivi sei minuti, il pubblico statunitense ha assistito a un sonante rimprovero – da quattro speaker che semplicemente riportavano osservazioni altrui. Significativamente, stavano riassumendo i pareri dominanti in lungo e in largo per il globo.

Il punto di vista più, per così dire, solidale verso “la guerra al terrorismo” degli Stati Uniti è giunto da un manager di Ernst & Young Security and Integrity Services, con sede in Olanda, che ha commentato: “Gli europei non hanno ancora ben chiaro il concetto alla base di questa guerra. Vedono da parte degli Usa una scarsa lucidità nel definire quelli che ne sono gli obiettivi, la strategia, le regole d’ingaggio, e gli strumenti di autocontrollo nella conduzione del conflitto stesso”.

Secondo gli standard dei media Usa, si tratta del limite che possono raggiungere le critiche ufficiali alla “guerra al terrorismo”. Ma, se si guarda al di fuori degli Stati Uniti, si capisce come esse costituiscano il disappunto più mite.

Consideriamo il giudizio espresso nel corso del programma radiofonico da Rohan Gunaratna, autore del noto libro "Inside al Qaeda: Global Network of Terror". Residente a Singapore, Gunaratna è stato il principale investigatore per l’antiterrorismo delle Nazioni Unite.

In Asia, sostiene Gunaratna, “la stragrande maggioranza dei musulmani crede che la campagna di Bush contro il terrorismo abbia nei fatti incrementato la minaccia terroristica, e l’estremismo in generale, dopo l’11 settembre. In merito all’Iraq, arrivano notizie secondo cui i terroristi starebbero reclutando sempre più nuovi adepti, radicalizzando intere comunità e recuperando fondi da enti musulmani. Il tutto per proiettare l’invasione statunitense nell’ottica della tesi dell’attacco generale contro l’Islam e contro i musulmani”.

C’è poi la posizione del Dottor Frank Njenga, psichiatra di Nairobi, presidente dell’Associazione africana degli psichiatri. “La guerra della Casa Bianca al terrorismo qui in Kenya è generalmente vista come un futile esercizio che sta diffondendo insicurezza in tutto il mondo”, commenta Njenga. “L’idea generale è che le principali cause originarie del terrorismo siano le iniquità – economiche, sociali e politiche – che colpiscono alcune aree del pianeta. Coloro che ne vengono calpestati continueranno a seguire la logica del terrore”.

Il Dottor Njenga ha aggiunto: “Ciò che si percepisce è che sono proprio gli Stati Uniti a giocare un ruolo cruciale in queste disuguaglianze. Si pensa che l’americano medio nulla sappia e nulla voglia sapere di quello che accade al di fuori del suo paese – e da qui la totale discrepanza tra la ‘guerra al terrore’ e la realtà del mondo reale”.

E riguardo al punto di vista predominante in Medio Oriente? Rami G. Khouri è il direttore dell’Issam Fares Institute all’università americana di Beirut e direttore del quotidiano Daily Star, pubblicato in tutta la regione. Intervendo alla trasmissione radiofonica, ha dichiarato: “La guerra al terrore statunitense viene considerata in Libano e nel resto del Medio Oriente – ma credo in tutto il mondo – come una dimostrazione della combinazione di arroganza e confusione oggi alla base della politica Usa”.

Le tesi di Khouri sembrano proprio quelle che i “sapientoni a stelle e striscie” si rifiutano di ascoltare: "Se da un lato si concorda sul fatto che il terrorismo sia un male da combattere – noi in Medio Oriente lo abbiamo sofferto molto più degli Stati Uniti – d’altra parte si ritiene che gli Usa abbiano mal diagnosticato la natura del problema, enfatizzando eccessivamente la sua minaccia e confondendo le organizzazioni del terrore con i gruppi che legittimamente resistono alle occupazioni".

In un’espressione, si è cercata una nuova formula che potesse rimpiazzare le logiche della guerra fredda”. Da qui nasce l’equivoco, aggiunge Khouri: “Gli Stati Uniti chiamano ‘terrorista’ chiunque a loro non piaccia o non piaccia agli israeliani. Hezbollah e Hamas stanno in effetti combattendo una guerra di liberazione contro Israele e vengono etichettati come ‘terroristi’. Nel mondo essi vengono visti per lo più come resistenti che lottano comunque per una giusta causa”.

Opinioni di questo tipo vengono espresse più o meno ovunque. Ma, negli Stati Uniti, il nostro isolamento mediatico rispetto alla “guerra al terrore” è davvero estremo – e autoingannevole.

 

L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo “MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq, le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra”. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy.
Norman Solomon è inoltre autore dell'
introduzione a 'Censura 2006 – Le 25 notizie più censurate'.

Fonte: AlterNet
Traduzione a cura di Nuovi Mondi Media