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Il grande errore della teologia della liberazione

di Francesco Lamendola - 18/04/2016

Fonte: Il Corriere delle regioni


 

 


 

Non vogliamo fare qui tutta la storia della teologia della liberazione, delle sue origini, delle sue formulazioni, delle sue prese di posizione nel corso degli ultimi decenni; ci vorrebbero parecchi volumi. Vogliamo solo andare al nocciolo della questione, non senza aver ricordato, qualora ce ne fosse bisogno, che la teologia della liberazione è una dottrina non cattolica e non riconosciuta come tale dal Magistero ecclesiastico, il quale per due volte, con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI, si è pronunciato su di essa in forma solenne, e l’ha irrevocabilmente condannata. Perciò i cattolici progressisti e i preti e modernisti e pauperisti si mettano il cuore in pace: se si parla della teologia della liberazione, non è per vedere se sia o no compatibile, sia o no accettabile, se sia o no auspicabile, all’interno della Chiesa acattolica; perché, all’interno della Chiesa cattolica, non c’è posto per essa, punto e fine. Semmai, quel che interessa è capire dove stia esattamente l’errore, dove si nasconda il pungiglione velenoso, per trarre un insegnamento da tale esperienza e stare in guardia affinché simili deviazioni non abbiano a ripetersi.

E allora diciamolo subito: il problema non è, o non è principalmente, nel fatto della “opzione preferenziale dei poveri”, ma nel fatto dello slittamento della dottrina e della prassi cattolica dal piano religioso a quello politico-sociale; e, come se ciò non bastasse – e già sarebbe una eresia gravissima - l’adozione sistematica di categorie e chiavi di lettura desunte di sana pianta dall’ideologia marxista-leninista, con tanto di lotta di classe, rivoluzione e soppressione fisica degli avversari. Uno dei suoi massimi esponenti, il sacerdote colombiano Camilo Torres Restrep, ne ha dato personalmente l’esempio, andando a combattere in montagna,  armi alla mano, contro il governo “ingiusto” e “oppressivo”, rimanendo  ucciso quasi subito, nel 1966, durante una operazione militare (cfr. il nostro precedente articolo: «Se Gesù Cristo va alla guerra, mitra in spalla», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 18/05/2015). Una scelta legittima in quanto marxisti o in quanto rivoluzionari; non in quanto cristiani, e tanto meno in quanto preti. Che c’entra il mitra col Vangelo? Oh, sappiamo bene quel che dicono, arrivati a questo punto, i fautori della teologia della liberazione: “Voi cattolici conservatori siete solidali con i poveri solo a parole; ma, quando si passa all’atto pratico, siete contrari a qualunque azione politica mirante alla giustizia, e dunque, obiettivamente, siete dalla parte dei ricchi oppressori: siete dalla parte del ricco Epulone contro il povero Lazzaro”.

Risposta: i cattolici non sono né conservatori, né rivoluzionari, per il semplice fatto che il cattolicesimo non è una ideologia politica. Se ha, talvolta, dei riflessi politici, segue la prassi pacifica e democratica, e tenta di modificare le situazioni di ingiustizia in maniera non violenta. Ha, inoltre, una sua dottrina sociale, che è ben diversa da quella del marxismo e di tutte le altre ideologie di sinistra, rivoluzionarie, atee e materialiste: perché si fonda sull’idea e sulla prassi della collaborazione armoniosa fra le classi e non sull’idea della loro contrapposizione implacabile e permanente, che trasformerebbe la società in un perenne campo di battaglia. La lotta violenta non è mai legittima dal punto di vista cristiano: Gesù Cristo si è lasciato mettere in croce, e a Pilato che lo interrogava, ha risposto che, se il suo regno fosse stato di questo mondo, i suoi servi avrebbero lottato per difenderlo. Egli ha anche ammonito che non c’è servo superiore al padrone; perciò, se Gesù Cristo ha dato il supremo esempio della non violenza e del perdono (“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”), non si capisce con quale diritto e con quale legittimità coloro i quali si proclamano suoi seguaci, si sentano autorizzati ad agire diversamente da lui, a impugnare le armi e a uccidere i loro nemici, e sia pure per far trionfare la “buona causa”. Per il cristiano, infatti, nessuna causa è buona, se passa attraverso il sangue del proprio fratello. Solo la legittima difesa è ammessa dalla dottrina cristiana, ma la teologia della liberazione dilata in maniera abnorme tale concetto, trasformando, di fatto, la difesa in offesa, e giustificando ogni sorta di violenza, purché parta dai “poveri” e sia diretta contro i “ricchi”. Il che, appunto, equivale a trasformare il cristianesimo, religione di pace e di amore, in un una dottrina politica fondata sull’odio e sulla violenza.

Come se ciò non bastasse, qui c’è un grave fraintendimento riguardo al concetto evangelico dei “poveri”: che non sono, o non sono principalmente, i poveri in senso puramente economico, ma sono, innanzitutto, i “poveri in spirito”, cioè i semplici, i miti, i fanciulli e coloro che somigliano ai fanciulli per la loro mansuetudine e per la loro disponibilità ad accogliere fiduciosamente la Buona Novella. Ma anche di questo abbiamo già parlato, per cui non vi insisteremo oltre (cfr. il nostro articolo: «Beati i poveri. Il Vangelo è annunciato specialmente ai poveri. Ma chi sono i poveri?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 06/05/2015).

Alla base della teologia della liberazione, inoltre, c’è un errore di prospettiva storica: l’assolutizzazione della dimensione socio-economico-politica e, più ancora, l’assolutizzazione delle situazioni storicamente date, negli anni centrali del XX secolo, in America Latina. I fondatori della teologia della liberazione erano quasi tutti vescovi e preti del Brasile e dei Paesi di lingua spagnola del Centro e Sud America, ossia nazioni dominate, per la più parte, da regimi militari, e caratterizzate da forti sperequazioni sociali. Da tale contesto specifico, quei vescovi e quei preti hanno estrapolato una dottrina di carattere generale, che, pertanto non è “cattolica”, in quanto non è universale. Non è ammissibile che ciascun continente abbia la sua particolare dottrina cattolica: il cattolicesimo è uno, il Magistero è uno, il Lieto Annunzio è uno, la Chiesa è una. Certo, si possono capire, e autorizzare, forme specifiche di liturgia e di pastorale, adeguate ai differenti contesti: ma sempre fino a un certo punto, e sempre nel rispetto dell’unità fondamentale dei cattolici. I cattolici dell’America Latina non sono cattolici “speciali”. Forse che in altre parti del mondo, sia allora, che oggi, non esistevano e non esistono situazioni di povertà, oppressione e ingiustizia? Però solo quei vescovi e quei preti ne ricavarono la conclusione che il cattolicesimo, in presenza di tali condizioni, deve schierasi a fianco dei poveri nelle forme della lotta di classe, e, se necessario, della rivoluzione e della lotta armata. Ma che cosa credono, i vescovi e i preti seguaci della teologia della liberazione: che nella Giudea del I secolo, al tempo di Gesù, non vi fossero l’ingiustizia, l’oppressione e la povertà? Eppure, Gesù non ha voluto mettersi alla testa di un movimento politico rivoluzionario: la tentazione della politica è stata una delle tre tentazioni che ha affrontato e vinto nel deserto, quando il Diavolo ha cerato di trascinarlo fuori dal solco della sua autentica missione religiosa.

E ora veniamo al nocciolo teologico della questione. La teologia della liberazione è un errore perché equivale ad una abdicazione della teologia, ad un suicidio e ad una auto-demolizione della teologia, a favore di altre categoria del pensiero e della vita, e ciò per un illogico e incomprensibile senso di colpa nei confronti dei “poveri”: come se il teologo dovesse vergognarsi, davanti allo spettacolo della povertà, del proprio sapere. Quel suo voler abbandonare i libri per mettersi al servizio dei poveri sembra un grande, ammirevole slancio di generosità, e invece è la cosa più stupida, intellettualmente e moralmente parlando, che egli possa fare. Quando mai la persona dotta deve vergognarsi del suo sapere, o la persona intelligente della sua intelligenza, per un malinteso senso di solidarietà con gli ignoranti o con i semplici di mente? Forse che una persona sana deve vergognarsi della sua salute, quando va a visitare un malato? O una persona onesta deve vergognarsi della sua libertà, quando va a trovare carcerato? Via, questo è assurdo. Al contrario: chi ha ricevuto dei doni da Dio, deve metterli a frutto, a vantaggio dei suoi fratelli. Il teologo deve mettere il suo sapere a vantaggio degli uomini (di tutti gli uomini, e non solo di alcune classi sociali), e non rinunciare ad esso, non gettarlo via come qualcosa di “aristocratico”. Così facendo, egli tradisce la sua missione e deruba il suo prossimo della propria competenza, cioè, nel caso della teologia, della propria guida spirituale. Sarebbe come se il comandante di una nave, in mezzo alla tempesta, gettasse fuori bordo gli strumenti di navigazione, smettesse di dare ordini agli ufficiali, e si unisse ai passeggeri sballottati e impauriti dai marosi, rinunciando a fare ciò che saprebbe e potrebbe fare per la salvezza comune, nella sciocca idea che, unendosi agli “ultimi”, adempirà in modo migliore alla propria missione. E questo non è certo  un peccato da poco.

Per i teologi della liberazione, al contrario, il vero peccato è la povertà: peccato non dei poveri, ovviamente, ma dei ricchi; un peccato sociale, che contraddice il disegno divino. Per non essere corresponsabili di tale peccato, per non sporcarsene le mani, i preti e i vescovi latino-americani proclamano di voler stare dalla parte dei deboli e degli sfruttati e di rompere i ponti con i ricchi e i potenti. Visto che essi amano richiamarsi a una indefinito “cristianesimo delle origini”, che sarebbe stato colmo di tutte le benedizioni, mentre il cristianesimo odierno è ricco, secondo loro, solamente di vizi e di meschinità, giova ricordare, ancora una volta, che i primi cristiani, nell’Impero Romano del I, II e III secolo, non pensavano e non agivano come loro; e che non mutarono opinione o linea di condotta nemmeno a partire dal IV, allorché, dopo Costantino, e soprattutto dopo Teodosio, presero il sopravvento all’interno dello Stato romano. O meglio, alcuni lo fecero, come i Circumcellioni in Nord Africa, ma vennero condannati e scomunicati: non era così che si doveva attuare il Vangelo; e nemmeno come, parecchi secoli più tardi, fecero Fra Dolcino e altri capi di movimenti pauperisti e rivoluzionari medievali d’ispirazione cristiana. Dante Alighieri pone Fra Dolcino all’Inferno, fra gli eretici; ed è lì che meritano di stare tutti quei pastori che, tradendo radicalmente il Vangelo, si fanno assertori di una “giustizia” esclusivamente mondana e sanguinaria, e la spacciano per dottrina cristiana.

Ma ecco come il teologo francescano Leonardo Boff, brasiliano, uno degli uomini di punta della teologia della liberazione, descrive la stupefacente scoperta che tutta la sua teologia non valeva niente (cit. nella rivista Presenza Cristiana dei Padri Dehoniani, , n. 27 del 1984, Andria, p. 34):

 

… noi siamo abituati al linguaggio della teologia.  Come parlare a gente semianalfabeta, che ha una propria esperienza di vita ma mana assolutamente di basi teoriche? Com’è difficile essere semplici! Nelle discussioni con la gente si scopre di essere culturalmente sradicati. Il nostro linguaggio risente dei condizionamenti di classe e soltanto quelli che sono andati a scuola o all’università riescono a comprenderlo. Noi riteniamo che il nostro modo di parlare sia scientifico ed universalmente valido, ma dopo un’ora trascorsa con questa gente ci rendiamo conto che il linguaggio della nostra teologia è tutt’altro che universale. È il linguaggio di un gruppo privilegiato della Chiesa e della società. D’improvviso mi accorgevo che tutta la mia teologia nella sua forma linguistica non valeva niente, perciò ha passato le notti a cambiare per me e per la gente la valuta della teologia e dell’etica in valuta locale.

 

E queste sarebbero le sagge riflessioni di un teologo? Che grosso, banale fraintendimento vi è alla base del complesso di colpa che porta un teologo cattolico a gettar via la sua teologia per farsi vicino ai poveri! Chi gli avrebbe impedito di stare vicino ai raccoglitori di caucciù dell’Amazzonia (mentre è rimasto pochissimo tempo con loro), lontano dalla odiata “sovrastruttura” (è il suo linguaggio, ed è un linguaggio tipicamente marxista) e accanto alle “radici della vita” (ossia nel mito del buon selvaggio), se lo avesse voluto, ma restando teologo? Qui c’è una totale confusione di piani: un teologo può farsi prete fra i poveri; ma è ovvio che, fra di essi, non farà il teologo: farà il prete. Il teologo è un pensatore che cerca la fede, che la rischiara alla luce della ragione naturale e delle Scritture, fin dove possibile: e chi mai gli potrebbe chiedere di rinunciare al suo sapere, per il fatto che ama i poveri e vuole star loro vicino? Se, poi, Leonardo Boff non è stato capace di rendere i concetti della teologia accessibili a un pubblico di persone semplici, quello è stato un suo limite personale. Ma la teologia è una scienza: la si può spiegare ai non specialisti fino a un certo punto; poi, per eccesso di semplificazione, si rischia di stravolgerla. Ed è quello che hanno fatto i teologi della liberazione: hanno stravolto e distrutto la teologia, inseguendo la chimera di renderla accessibile ai poveri e agli analfabeti. Il teologo non studia, direttamente, per gli analfabeti: studia soprattutto per formare dei sacerdoti, i quali, a loro volta, hanno bisogno di una guida intellettuale, per poter svolgere bene la loro missione in mezzo ai fedeli, poveri compresi. E così il capitano della nave non ha studiato navigazione per spiegarla ai passeggeri ignoranti, ma per guidare la nave con competenza, e rendere sicuro il viaggio di coloro che trasporta. Questo si chiede a un teologo, e non altro. Forse che Gesù aveva a che fare con una folla di dotti? Eppure, sapeva farsi capire da tutti….