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L'altro 11 settembre

di Pepe Escobar - 16/09/2006

 
Dietro al ricostruito palazzo de “La Moneda”, a Santiago del Cile, di fronte all’edificio del ministero della giustizia, si trova una statua di Salvador Allende. In basso, queste parole: “Credo nel Cile, e credo nel suo destino”. Queste furono le sue ultime parole prima di suicidarsi, piuttosto che diventare un ostaggio dell’11 settembre sudamericano

SANTIAGO, Cile – Non c’è bisogno di un Osama bin Laden per un 11 settembre. Dimenticate i Boeing che si trasformano in missili e che si schiantano contro le torri gemelle. Sintonizzatevi per un momento su quattro aerei militari che bombardano un palazzo presidenziale ed ecco un altro film sull’11 settembre, i cui protagonisti sono Dick ed Henry. “Dick” è l’ex presidente Usa Richard Nixon, “Henry” è Henry Kissinger, il suo consigliere alla sicurezza nazionale. Questioni di alta politica estera, una trama notevole.

Scena 1: Washington, Ufficio Ovale, settembre 1970. Il Dottor Salvador Allende, un uomo di cultura, persona nobile e carismatico fondatore del Partito socialista cileno, ha appena vinto le elezioni presidenziali con il 36.22% dei voti. Nixon e Kissinger ricevono il direttore della Cia Richard Helms. Nixon, d’accordo con Kissinger, dice a Helms che vuole sapere “tutto ciò che è possibile per evitare l’ascesa al potere di Allende. Se esistesse anche solo una possibilità su dieci di sbarazzarsi di Allende, dovremmo tentarla”.

Scena 2: Santiago, palazzo “La Moneda”, ore 8 dell’11 settembre 1973. Allende, il presidente democraticamente eletto del Cile, è preoccupato per un generale di nome Augusto Pinochet. Le stazioni radio sono mute. La marina militare ha preso il controllo di Valparaiso, città natale del presidente. Ma Allende pensa al suo nuovo comandante, nominato meno di tre settimane prima: “Povero Pinochet, sarà stato arrestato…”.

Il generale Pinochet è lungi dall’essere arrestato: è alla guida di un colpo di Stato. Le truppe marciano su Santiago. Alle 8.30 una solenne dichiarazione militare rende il tradimento ufficiale. I carri armati avanzano verso il centro della città. A mezzogiorno, quattro aerei Stuka distruggono la residenza privata di Allende in via Tomas Moro e bombardano “La Moneda”. Il presidente oppone resistenza, combattendo i soldati che circondano il palazzo e rifiutando con sdegno la proposta per sé e per la famiglia di un aereo privato per lasciare il paese.

Quando la sua cattura si fa imminente, Allende preme il suo mento contro l’AK-47 che Fidel Castro gli ha dato, e apre il fuoco. Alle 2 del pomeriggio la giunta militare si insedia. Un attimo dopo iniziano gli arresti di massa, le torture, le esecuzioni.



In mezzo a queste due scene sta la storia di un golpe uscito dal suo guscio dopo tre anni di virtuale gestazione. Gli Stati Uniti erano ancora impantanati in Vietnam. La politica di Nixon per il Sudamerica assomigliava ad una ‘guerra al terrore’ in forma ridotta: “Per prevenire un’altra Cuba”. Semplicemente, Nixon non poteva sopportare “quel bastardo di Allende” (testuale). Il Cile era forte delle più vaste riserve di rame del mondo. Allende stava per nazionalizzarle, a spese dei profitti delle due corporation Usa Anaconda Copper Mining Co e Kennecott Copper Co, che avevano affamato il paese latino per decenni.

La strategia di destabilizzazione del Cile, supervisionata nei dettagli da Kissinger, si sviluppò in una serie di operazioni denominate Traccia 1 e Traccia 2. La Cia provò di realizzare un colpo di Stato anche prima dell’insediamento di Allende del 1970, inviando 50.000 dollari a un’occulta organizzazione neonazista per assassinare il generale Rene Schneider il 22 ottobre dello stesso anno e per corrompere altri generali e ammiragli. Non funzionò.

Allende voleva sviluppare “una pacifica via cilena al socialismo”. I suoi elettori erano operai, contadini, emarginati, appartenenti alle classi urbane medio-basse. I giovani istruiti delle città celebrarono il “socialismo del vino rosso e delle empanadas” (una sorta di pasta sfoglia). Washington volle però impedire nel paese ogni virata a sinistra, devastandone l’economia, praticando la corruzione di massa, lo spionaggio e il ricatto.

In effetti, Allende era un moderato rispetto ai movimenti popolari che in Cile occuparono fabbriche, terreni e proprietà (1.278 occupazioni solo nel 1971). Poi iniziarono a diffondersi gli scioperi (3.200 nel 1972). Gli industriali sabotarono le produzioni. Nessuno riuscì a spiegare come mai in quegli anni il credito cileno venne bloccato sui mercati internazionali. Le operazioni di prestito furono sospese.

La Cia, sabotaggi a parte, finanziò scioperi strategici – medici, banche, impiegati, un interminabile sciopero dei camionisti. La stampa conservatrice condusse una feroce campagna di disinformazione. Ci furono diversi tentativi di golpe. Al caos economico si aggiunse quello politico: i cristiano-democratici, il partito di centro, finì per unirsi alla destra, e assieme portarono avanti una velenosa battaglia contro Allende.

Nixon ottenne esattamente quello che voleva. L’11 settembre, le navi della marina statunitense monitorarono le basi militari cilene per avvertire i cospiratori in merito a eventuali manifestazioni pro-Allende. Pinochet prese così il potere, e fece il suo ingresso nella storia come il più crudele e definitivo dittatore sudamericano.

La dittatura in Cile coincise con l’ascesa del neoliberismo (che negli anni novanta è stato ribattezzato “globalizzazione”). I cileni con borse di studio iniziarono a vivere all’Università di Chicago. Lo statuto del neoliberismo – e il Santo Gral economico di Pinochet – vennero redatti da due di questi, Sergio de Castro e Arturo Fontane. Presto si realizzò la classica divisione del lavoro: le forze armate uccidevano, i “Chicago boys” applicavano le loro dottrine. La repressione militare, insomma, assicurava la “libertà” economica.

Altri dittatori vennero instaurati prima di Pinochet, altri ancora lo seguirono. Verso la metà degli anni settanta, alcune dittature sudamericane sostenute dagli Stati Uniti – Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Uruguay e Paraguay – si unirono segretamente sotto l’infame Operazione Condor, una guerra di terrore latina contro qualsiasi oppositore reale o potenziale.

Condor vantava due uomini chiave: Pinochet in Cile (che garantiva la gestione informatica dell’organizzazione), e Alfredo Stroessner in Paraguay (morto quest’anno in Brasile). Il regime di Pinochet mantenne attivo un laboratorio per la preparazione di alimenti tossici e gas nervino – che erano e rimangono armi di distruzione di massa. Il chimico responsabile fuggì in Uruguay e fu ucciso. Orlando Letelier, l’ambasciatore cileno a Washington sotto Allende nel periodo 1970-1972, venne assassinato dal Condor. Chi se ne curò? Il fascismo militarizzato di Washington allora era una quotidianità.

Pinochet e il Condor, in Cile, furono responsabili di un numero di vittime pari a quello causato dall’attacco alle Twin Towers: circa 3.000 persone, tra cui 1.198 “scomparsi”. In Argentina, si contarono ufficialmente 10.000 morti – per le organizzazioni dei diritti umani più di 30.000 tra assassinati e scomparsi. In Paraguay 2.000, in Bolivia almeno 350, in Brasile quasi 300, in Uruguay 200. Le famiglie delle vittime sono tuttora convinte che Kissinger sapesse ogni cosa. Porterà i suoi segreti nella tomba, proprio come Pinochet – che ancora si rifiuta di passare a miglior vita.

Dietro al ricostruito palazzo de “La Moneda”, a Santiago del Cile, di fronte all’edificio del ministero della giustizia, si trova una statua di Salvador Allende. In basso, queste parole: “Credo nel Cile, e credo nel suo destino”. Queste furono le sue ultime parole prima di suicidarsi, piuttosto che diventare un ostaggio dell’11 settembre sudamericano.


Pepe Escobar è un giornalista brasiliano che si occupa di questioni del Medio Oriente e dell’Asia meridionale. È stato in Afghanistan e ha intervistato il leader militare dell’Alleanza del Nord, Ahmad Shah Masoud, un paio di settimane prima che venisse assassinato. Due settimane prima dell’11 settembre 2001, era nelle aree tribali del Pakistan, ed è stato uno dei primi giornalisti a raggiungere Kabul dopo la ritirata dei talebani.
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Fonte: Asia Times
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media