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Ecco perché la Gran Bretagna non si sente un pezzo d’Europa

di Francesco Perfetti - 26/05/2016

Ecco perché la Gran Bretagna non si sente un pezzo d’Europa

Fonte: Il Giornale

A breve un referendum potrebbe segnare l'uscita del Regno Unito dalla Ue. Un saggio spiega come su questa scelta pesi la nostalgia dell'antica potenza
  

Nel prossimo mese di giugno si svolgerà nel Regno Unito il referendum che deciderà della permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Si tratta di un appuntamento importante che potrebbe avere ripercussioni di lunga durata.

Se, come sembrano indicare alcuni sondaggi, la Gran Bretagna scegliesse di non far più parte dell’Europa unita potrebbe innescarsi un meccanismo che, in una prospettiva di medio o lungo termine, la riporterebbe verso il recupero di quella «politica insulare», tipica della storia inglese, in virtù della quale essa aveva sempre cercato di disinteressarsi di quanto accadeva nel continente europeo fino a quando una qualche potenza non avesse espresso troppo forti mire egemoniche. Questa «insularità» era stata, da sempre, il tratto caratterizzante della politica estera del Regno Unito ed era stata anche alla base della formazione del grande impero britannico che, proprio all’indomani della prima guerra mondiale, mentre alcune grandi e antiche monarchie scomparivano dalla scena europea, vedeva la corona più salda che mai. La Grande guerra, anzi, aveva consentito l’acquisizione di nuovi territori e Giorgio V si era trovato a capo di una grande unità politica che era arrivata a comprendere un quarto delle terre emerse.

Poi, con il trascorrere dei decenni, questa realtà geopolitica, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale e dietro la spinta del processo di decolonizzazione, era andata sfaldandosi. Alla storia della sua decadenza è dedicato un bel saggio dal titolo La caduta dell’impero britannico (Odoya, pagg. 400, Euro 22) nel quale l’autore, Colin Cross, giornalista e saggista inglese assai noto, ricostruisce i momenti più gloriosi di quella che era diventa la più grande potenza mondiale e ne analizza i motivi del declino. Nel secondo dopoguerra molti fattori erano intervenuti a minare le fondamenta dell’edificio imperiale, dalla struttura bipolare delle relazioni internazionali dominate dalle due superpotenze americana e sovietica sostanzialmente antimperialistiche, allo svilupparsi di sollecitazioni nazionalistiche nei territori coloniali. E così, poco alla volta, il grande impero britannico, che aveva dominato su una cinquantina di territori, dalla piccola isola di Sant’Elena fino al subcontinente indiano, si sfaldò o si annacquo nel Commonwealth.

Per gli inglesi, già a partire dalla seconda metà del XIX secolo, l’idea imperiale si identificava con il proprio Paese. La Gran Bretagna non aveva mai conosciuto, a differenza di gran parte del continente europeo, e forse proprio per la sua «insularità» oltre che per la sua storia, il fenomeno del nazionalismo. Lì non si erano sviluppate né forze politiche né teorizzazioni nazionalistiche. Il destino della Gran Bretagna era, insomma, nell’opinione dei più, un orgoglioso destino imperiale che si fondava sulla convinzione della superiorità morale della civiltà inglese e, più in generale, dell’uomo bianco sulle popolazioni non europee e si alimentava di una profonda vena di messianismo. La celebre poesia di Rudyard Kipling, intitolata Il fardello dell’uomo bianco e pubblicata nel 1899, è in un certo senso il manifesto dell’imperialismo inteso, alla maniera del darwinismo sociale di Spencer, come strumento di civilizzazione prima ancora che come strumento di potere politico ed economico. Forse non è un caso che Kipling, il celebre autore di Kim e di Il libro della giungla, fosse nato da un ufficiale dell’esercito britannico proprio in India, un territorio considerato, come si diceva, «la perla dell’impero britannico». Ma, al tempo stesso, un territorio dove le autorità britanniche favorirono la nascita di una élite politico-culturale anglo-indiana. La concessione della piena indipendenza avvenne nel 1947, sull’onda delle pressioni anticoloniali, e comportò la nascita di due Stati, l’Unione Indiana, a maggioranza induista, e la Repubblica del Pakistan, a maggioranza islamica. Si trattò del momento più significato del crollo del grande impero britannico. Ma non del solo perché come illustra bene Cross nella sua minuziosa analisi estesa a tutti i territori imperiali della Gran Bretagna la caduta dell’impero britannico fu un lungo processo di trasformazione conclusosi agli albori degli anni settanta.

La lettura della storia del grande impero, e della sua fine, è utile anche per riflettere sulla tradizionale diffidenza di una Gran Bretagna, «insulare» e da sempre proiettata verso orizzonti non continentali, nei confronti del progetto, non solo e non tanto economico ma anche politico, di una Europa unita. Essa aiuta a capire, insomma, le pulsioni antieuropee che saranno messe alla prova nel referendum del prossimo giugno. Il senso orgoglioso dell’impero, o forse la sua nostalgia, è tutta in questa parole dette da David Cameron a Vladimir Putin: «La Gran Bretagna non è un’isoletta cui nessuno dà ascolto, ma un ex impero dalla storia gloriosa come nessun altro Paese può vantare».