Brexit: una Europa in pezzi alla ricerca di un alibi
di Luigi Tedeschi - 20/07/2016
Fonte: Italicum
L'incubo Brexit è diventato realtà?
L'incubo Brexit è diventato realtà? No, l'effetto Brexit è stato quello prevedibile: un ritorno dell'Europa alla sua realtà. Dopo il sabotaggio e la criminalizzazione mediatica di un voto popolare favorevole alla Brexit, l'uscita della Gran Bretagna dalla UE viene oggi presentata come una scelta sciagurata, su cui il popolo britannico deve esprimere senso di colpa e pentimento collettivo. Tra i politici e la popolazione, nella rappresentazione mediatica non compare mai un solo cittadino che rivendichi le ragioni della sua scelta a favore della Brexit, che è stata maggioritaria nel referendum.
La Brexit ha rappresentato un incubo per la UE, in quanto le oligarchie europee non volevano che la fuoriuscita della Gran Bretagna costituisse un pericoloso precedente, che avesse poi dato luogo a successive secessioni. L'Europa dei 28 è oggi dei 27. E' iniziato il conto alla rovescia per l'Europa?
Le reazioni della UE alla Brexit non si sono fatte attendere. Si è invocata una fuoriuscita immediata della Gran Bretagna, si è fatto appello ad improbabili ritorsioni, al boicottaggio, al ricorso a misure eccezionali. Tali reazioni dimostrano solo la grettezza della classe dirigente europea: si vuole punire la Gran Bretagna con ritorsioni finanziarie allo scopo di impedire che il contagio della Brexit coinvolga altri paesi europei, in cui l'euroscetticismo è assai diffuso. Ma l'assurdità delle reazioni della classe dirigente di Bruxelles deriva dal considerare la Brexit alla stregua della crisi del debito greco. La Gran Bretagna dispone della City, una delle più importanti piazze finanziarie del mondo, di una rete commerciale a livello mondiale quale è il Commonwealth, è membro della Nato. Essa non è davvero da paragonarsi alla Grecia e non è mai stata afflitta da crisi del debito.
C'è dunque da chiedersi se eventuali nuove fuoriuscite di altri paesi possano realizzarsi sull'esempio britannico. C'è da dubitarne. Infatti, i paesi afflitti dalla crisi del debito possono essere facilmente piegati mediante il ricatto e la repressione finanziaria da parte dell'Europa tedesca. L'Europa può essere quindi tenuta assieme mediante la camicia di forza del debito cui gli stati più deboli sono soggetti.
Un'Europa soggetta alla ricompattazione atlantica?
Il terrorismo mediatico è stato diffuso a piene mani. Il crollo immediato delle borse (peraltro prevedibile), futuribili cali vorticosi del Pil inglese con nuove politiche di austerity, svalutazioni record della sterlina, (che comunque si sarebbero realizzati), abbandono della Gran Bretagna da parte di holding finanziarie e multinazionali ecc... Tuttavia il crollo della borsa di Londra è stato assai più contenuto e quasi riassorbito in pochi giorni, rispetto alle piazze europee, che evidenziano una instabilità crescente e accentuate tensioni speculative. La Gran Bretagna è uno stato che ha mantenuto la propria sovranità monetaria, che, attraverso la sua banca centrale può sostenere il proprio sistema bancario quale prestatore in ultima istanza. Invece l'euro non è sostenuto da uno stato e le assicurazioni di Draghi di sostegno all'euro non si dimostrano sufficienti. La tenuta dell'euro è tuttora dubbia. I problemi strutturali di Eurolandia dopo la crisi del 2008 sono rimasti inalterati e si ripresentano, con la deflazione, la crisi bancaria, la ripresa debole, in tutta la loro drammatica realtà.
La Gran Bretagna del dopo Brexit potrà stipulare nuovi trattati con la UE, potrà cioè essere un paese integrato nello spazio economico europeo, alla stregua della Norvegia e della Svizzera. I tempi della Brexit si dilateranno per anni. Data l'interdipendenza economica britannica con l'Europa e il suo ruolo rilevante nella Nato, l'isolamento della Gran Bretagna dall'Europa è impossibile. Anzi, i nuovi trattati potrebbero in futuro vanificare gli effetti della Brexit attraverso un reinserimento di fatto della Gran Bretagna nella UE. Potrebbe verificarsi la paradossale situazione in cui la Gran Bretagna usufruisca nei fatti dei vantaggi dell'integrazione europea senza sostenerne gli oneri.
Dal punto di vista politico la Brexit contribuisce alla frantumazione dell'Europa, ma non dell'Occidente. L'appartenenza alla Nato della Gran Bretagna è fuori discussione, anzi il suo ruolo militare sembra accentuarsi, dato il suo rilevante contributo al rafforzamento delle basi Nato nell'est europeo in funzione antirussa, deciso al recente vertice di Varsavia.
I fattori della destabilizzazione europea sono evidenti: la crisi migratoria, il pericolo terrorista, la conflittualità tra gli stati, la crisi bancaria, la crisi del debito mai risolta, un'economia fragile soggetta a crisi repentine. La destabilizzazione europea accentua il dominio economico e geopolitico americano. Un'Europa debole ed instabile potrebbe essere più facilmente coinvolta in posizione subalterna nella adesione al Trattato Transatlantico (TTIP). Un'Europa frammentata e conflittuale potrebbe essere poi ricompattata nell'ambito di una integrazione politica ed economica con gli USA nel Trattato Transatlantico. Si realizzerebbe cioè una integrazione geopolitica tra l'Europa e gli Stati Uniti in posizione dominante, con la conseguente ulteriore perdita di sovranità da parte dell'Europa stessa. La Brexit quindi potrebbe contribuire ad un decisivo rafforzamento dell'Occidente ai danni dell'Europa.
Ma la Brexit è davvero una sciagura per l'Europa? La Gran Bretagna ha goduto di uno status privilegiato nella UE senza mai del tutto integrarsi, né si è mai storicamente riconosciuta come parte integrante dell'Europa. L'ingresso nella UE della Gran Bretagna non ha certo contribuito alla indipendenza politica dell'Europa dall'Occidente. Anzi, ne ha accentuato la subalternità. La Gran Bretagna, in virtù di un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, ha sempre partecipato alle guerre imperialistiche americane (vedi Iraq e Afghanistan), e ha intrapreso, con il coinvolgimento europeo, sciagurate avventure militari in Nord Africa e Medio Oriente, a seguito delle primavere arabe. Ha inoltre appoggiato le rivoluzioni colorate filo americane, ha contribuito in misura rilevante alla destabilizzazione dell'Ucraina in funzione antirussa. La Gran Bretagna si è infine dichiarata favorevole all'integrazione della Cina nel libero scambio con l'Occidente, posizione avversata dall'Europa. La Gran Bretagna è stata nei fatti, come previsto da De Gaulle, la quinta colonna degli USA in Europa, ma la Brexit non determinerà mutamenti nella politica estera europea.
La crisi bancaria europea non è un effetto della Brexit
Il dopo Brexit accentuerà tuttavia la supremazia tedesca in Europa. La fuoriuscita di un membro concorrente, che ha goduto di una posizione di privilegio nella UE, non farà che consolidare il dominio tedesco sull'Europa. L'accentuarsi della rigidità e dell'arroganza tedesca nel dopo Brexit è evidente. Il netto rifiuto tedesca a qualsiasi istanza di modifica delle normative europee nelle presenti situazioni emergenziali ne è la conferma.
La Brexit ha rivelato in tutta la sua drammaticità la disunione europea, la sua mancanza di leadership, le crepe evidenti di un sistema bancario che non ha mai risolto i problemi generati dalla crisi del 2008. La Brexit è diventata il pretesto palese cui imputare le carenze genetiche di un'Europa costruita su parametri finanziari e su istituzioni tecnocratiche oligarchiche che ne hanno impedito lo sviluppo economico e l'integrazione politica. La Brexit non è uno shock, non è un fatto traumatico all'origine della attuale crisi europea, ma semmai rappresenta un evento imprevisto che ha messo a nudo la realtà di una crisi sistemica europea perdurante.
Si è rivelata palesemente l'insufficienza delle misure di immissione di liquidità della BCE. I bassi tassi di interesse hanno dirottato gli investimenti verso impieghi a rischio più elevato e i ripetuti ribassi della borse europee verificatisi da inizio anno ne sono la prova evidente.
I bassi tassi di interesse dovuti al QE di Draghi, hanno contribuito ad aggravare la crisi del sistema bancario europeo. I margini delle banche negli impieghi della liquidità si sono ridotti e pertanto l'erogazione del credito alle imprese si è rarefatta. Il QE non è riuscito a trasmettere alla economia reale, e quindi a contribuire alla ripresa della produzione e dei consumi.
Il sistema bancario italiano, con rilevanti crolli in borsa, ha evidenziato tutta la sua fragilità. Nei bilanci delle banche italiane figurano crediti deteriorati per 360 miliardi, per effetto della crisi economica e della mala gestione. Occorrerebbero nuove ricapitalizzazioni, oltre che le garanzie statali concesse per 150 miliardi, il cui effetto in borsa è stato irrilevante. Le ricapitalizzazioni possono essere effettuate solo mediante interventi dello stato che la normativa europea espressamente vieta. Anzi, nel contesto della perdurante crisi bancaria europea, è stata introdotta dal 2016 la normativa del bail – in, che prevede che siano azionisti, obbligazionisti, obbligazionisti subordinati e correntisti oltre i 100mila euro a rispondere di eventuali default bancari, vietando ogni intervento pubblico a sostegno delle banche. Tale normativa ha moltiplicato i rischi e incrementato la fragilità già evidente del sistema bancario europeo.
Oggi si invoca da ogni parte (perfino dal FMI), l'intervento dello stato al fine di ricapitalizzare le banche. La logica è però sempre la stessa, quella di un sistema capitalista che vuole estromettere lo stato dall'economia e abrogare ogni normativa regolamentatrice del libero mercato, salvo poi invocare l'intervento dello stato per risanare l'economia dalle crisi finanziarie prodotte dl mercato stesso. Opportuno si è dimostrato l'intervento del presidente dell'ABI Patuelli, che ha dichiarato espressamente l'incostituzionalità della normativa europea del bail – in. Infatti, secondo l'articolo 47 della costituzione “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito”. Ci si chiede allora come sia possibile la tutela del risparmio e la disciplina del credito, quando lo stato sia stato privato dall'Europa della propria sovranità economica e sia stato estromesso dal controllo del sistema bancario. Solamente il controllo dello stato potrebbe invece fine alla perenne instabilità e ai rischi congeniti di un libero mercato senza controllo. E' questo un esempio lampante di come la recezione delle normative europee possa abrogare di fatto la costituzione di uno stato.
Ma si reso da tempo evidente che i problemi pur gravi del sistema bancario italiano sono assai ridotti rispetto a quelli emersi nel sistema bancario tedesco. Infatti, nei bilanci della sola Deutsche Bank figurano derivati per un importo pari a 15 volte il Pil tedesco. La Deutsche Bank si è resa responsabile di scandali finanziari che hanno comportato multe e sanzioni tali da determinare un passivo di bilancio per il 2015 di 6,8 miliardi. Crisi di derivati in cui sono coinvolte molte Landesbank (banche regionali) tedesche. E' di questi giorni la notizia di un possibile default della Landesbank Bremen.
La crisi bancaria è dunque europea e riguarda in primo luogo la Germania, paese guida della UE, la cui classe dirigente se ne è resa responsabile. Eppure è il dissesto bancario italiano a suscitare clamore in sede europea e a determinare giudizi di condanna biblica nella stampa inglese e tedesca. I rischi legati alla tenuta delle banche tedesche vengono ignorati. Esiste a livello UE un accanimento verso l'Italia che potrebbe anche produrre nuove ondate speculative così come avvenne nel 2011. Secondo l'economista Giulio Sapelli nell'articolo "La trappola tedesca per l'Italia" (fonte: http://www.ilsussidiario.net), la soluzione elaborata in sede europea per la ricapitalizzazione del Monte dei Paschi di Siena, consiste in una "ricapitalizzazione preliminare", da effettuarsi dopo l'esecuzione degli "stress test" da parte dell'Agenzia bancaria europea. Tale misura, comporterebbe che i correntisti sarebbero risparmiati, gli obbligazionisti rimborsati e solamente gli investitori istituzionali dovrebbero rispondere delle perdite. In tal caso si verificherebbe la fuga degli investitori stranieri dall'Italia, con conseguente crisi finanziaria incontrollabile. La strategia della Germania è sempre la stessa: così come avvenne nella crisi del debito del 2011, essa vuole attrarre investimenti in fuga dagli stati a rischio.
La burocrazia di Bruxelles si dimostra rigida ed ottusa dinanzi alle dimensioni europee della crisi bancaria attuale, ed è palesemente sorda ad ogni istanza di possibile mutamento strutturale della politica economica europea. Che l'emergenza possa condurre ad una rifondazione dell'Europa su altre basi, è pura illusione retorica.
La disgregazione delle piccole patrie europee
Un'ondata di disgregazione attraversa l'Europa così come la Gran Bretagna. Infatti, sia la Scozia che l'Irlanda del Nord, sulla base di un voto a larga maggioranza favorevole al Remain, hanno rivendicato il loro indipendentismo dal Regno Unito. Un referendum in tal senso si era già tenuto nella Scozia nel settembre 2014, che ha visto prevalere il voto favorevole alla permanenza della Scozia nel Regno Unito.
Per quanto concerne l'Irlanda del Nord una eventuale secessione comporterebbe la sua unione con l'Eire. L'Irlanda del Nord fu teatro di un conflitto interno politico – religioso tra protestanti e cattolici che insanguinò il paese per oltre 20 anni. Conflitto conclusosi nel 1998 con l'accordo del Venerdì Santo. Sarebbe tuttavia oggi impensabile l'accettazione da parte della maggioranza protestante filo inglese alla unificazione con l'Eire. Una eventuale secessione potrebbe condurre ad una nuova guerra civile.
Tuttavia tale secessionismo si colloca in un contesto europeo in cui si sono affermati vari movimenti indipendentisti di regioni quali la Catalogna, le Fiandre, la Corsica, i Paesi Baschi, la Padania ed altri ancora. L’affermarsi di tante piccole patrie conduce allo smembramento degli stati nazionali. La rivendicazione delle identità comporta infatti l’aspirazione all’indipendenza delle piccole patrie regionali, che si affermano sulla base di interessi economici regionali propugnati dalle ambizioni delle classi politiche locali emergenti. La secessione dalla madrepatria avviene dunque in virtù di egoismi localistici, il cui fine è quello di far convergere entrate fiscali e risorse materiali sul proprio territorio. Nel caso della Scozia, l’indipendentismo è favorito dalla prospettiva della spartizione delle riserve di greggio situate nelle coste settentrionali del Mare del Nord. Le piccole patrie europee non sorgono quindi quali fenomeni di reazione al processo di globalizzazione economica del mondo, ma ne costituiscono un elemento localizzato, funzionale alla globalizzazione stessa, poiché costituiscono un fattore importante nel processo di dissoluzione degli stati nazionali.
L’indipendenza della Scozia e dell'Irlanda del Nord comporterebbe la loro adesione alla UE e l’adozione della moneta unica. Non verrebbe realizzata una secessione dalla Gran Bretagna per divenire parte di una patria più grande, quale l’Europa. Quest’ultima non è una patria, ma una unione economico – monetaria fondata ed eterodiretta da una oligarchia finanziaria che fa capo alla Germania e alla BCE. Assisteremmo allora al paradosso di una sovranità nazionale scozzese e nord irlandese che verrebbe meno nel momento stesso in cui fosse proclamata, poiché l’adesione alla UE e all’euro sancirebbe ipso facto la devoluzione all’Europa della propria sovranità economica e parte della sovranità politica.
L’Europa non ha mai imparato le lezioni impartite dalla storia. Nel 1918 si realizzò infatti il suicidio dell’Europa stessa, con la frammentazione degli imperi centrali in tanti piccoli stati non autosufficienti e soggetti alla influenza delle grandi potenze coloniali capitaliste.
L'Europa si è costruita mediante la disgregazione degli stati nazionali. Sostenere gli indipendentismi regionali significa dar luogo ad una progressiva frantumazione degli stati, con prevedibili nuovi conflitti etnici locali. Le vicende sanguinose della dissoluzione jugoslava ne sono la prova evidente.
I popoli tornano ad essere gli artefici della storia?
Nel dopo Brexit si è manifestata l'identità ideologica oggi prevalente nelle classi dominanti europee. Non a caso l'europeismo è diffuso nelle classi elevate, mentre nelle classi meno abbienti, su cui è gravato il costo sociale delle riforme europee, prevale l'euroscetticismo.
Pertanto, nell'ottica di una deriva oligarchica nella UE, i cui organi direttivi sono costituiti da una tecnocrazia non elettiva, non è ammissibile un voto popolare su questioni istituzionali che, per la loro “complessità”, dovrebbero essere sottratte alla volontà popolare. Sotto accusa è la democrazia stessa, che sarebbe legittima solo nel caso in cui vi fosse perfetta corrispondenza tra decisionismo oligarchico e volontà popolare. In caso contrario, come quello della Brexit, è il popolo che deve essere condannato ad un senso di colpa collettivo, in quanto tale popolo necessita di una severa rieducazione in senso globalista. Una democrazia quindi concepita come una forma di acclamazione popolare, alla pari dei regimi totalitari. A tal riguardo, Martin Schultz, presidente del Parlamento Ue, dice chiaramente: "Non è concepibile all’interno della filosofia dell’unione europea, che il popolo possa decidere del suo destino”.
E' allora evidente l'esito totalitario di tale deriva oligarchica. Ma questo totalitarismo strisciante, ma non troppo, è perfettamente coerente con l'ideologia della globalizzazione e quindi, con il pensiero unico post moderno, con il declino degli stati e la scomparsa delle culture identitarie. La globalizzazione infatti rappresenta il corso ineluttabile della storia, nel contesto di un processo evolutivo della ideologia del progresso infinito. La democrazia e la volontà popolare non sarebbero compatibili quindi con il corso necessario della storia, quali relitti antistorici dei secoli precedenti, che non possono arrestare la destinalità globalista.
Al contrario, è proprio il voto inglese a favore della Brexit, a rappresentare il primo indizio di possibili futuri mutamenti epocali, dato che questo, potrebbe essere il primo segnale di un ritorno dei popoli nel ruolo di protagonisti della storia. Di quella storia di cui i popoli sono gli artefici, mentre il capitale ne rappresenta la fine e la dissoluzione.