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Il fanatismo del mio tempo

di Renato F. Rallo - 20/07/2016

Il fanatismo del mio tempo

Fonte: L'intellettuale dissidente

“Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. E’ tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente.”
Simone Weil, L’enracinement, 1949

Forse mi sbaglio, forse è giusto procedere ostinatamente e testardamente nella direzione che abbiamo intrapreso, “non un passo indietro” ma eventualmente due avanti. Forse è così, ma ad ogni attentato non riesco a non pensare che alla nostra visione dell’uomo – la famosa ideologia progressista – sta sfuggendo qualcosa di grosso, ad esempio la “follia” (virgolette) degli attentatori, e noi facciamo finta di nulla. Continuiamo ad avanzare verso lo scontro frontale di questa guerra di idee sapendo già in partenza di avere un’arma inefficace contro un già discreto numero di persone (il cui aumento grafico, congetturo, somiglia molto alla curva ribaltata della caduta tendenziale del saggio di profitto).

Su quanto questi attentati continueranno per anni è già stato detto tutto, e che non si possa fare sostanzialmente nulla di utile se non subire in religioso silenzio e giustamente, almeno finché non arriveremo, per dire un numero piccolo, ai 150mila morti dell’ultimo Iraq, morti per mano nostra o nostra indolenza, e che forse, oltre a pregarli in ginocchio di avere pietà, l’unica cosa da fare sarebbe confiscare tutti i beni dei vari Blair, Bush etc., torturarli fino a fargli confessare chi in quel momento li spingeva a quelle decisioni, e poi trascinarli non davanti all’inutilità dell’Aia ma a Raqqa vestiti di arancione, e tagliargli lentamente tutte le vene su un altare, e poi consegnare i sacchi di denaro e tornare sulle ginocchia a pregare di avere pietà.

Di questo, appunto, già se n’è parlato. E invece non parliamo mai, o comunque sempre in termini contemplativi e inesorabili, di questa nostra arma ideologica che brandiamo davanti al nemico e in cui ormai non crediamo più neanche noi. Il nostro mondo, le nostre prospettive, i nostri sogni, i “destini generali”.
Partiamo da un punto di vista puramente teorico, ed ammettiamo che la nostra idea di uomo sia esteticamente bella: quest’uomo iperdinamico, iperproduttivo, impolitico, privato, sovrano sciolto da ogni vincolo naturale e culturale, unico criterio ammissibile e ubi consistam di sé stesso. In qualche modo ci piace e riteniamo che sia ciò a cui tutti gli esseri umani vogliono adeguarsi. Ma siamo sicuri che un uomo in carne anima e ossa possa sopravvivere a questo modello senza “impazzire” (v. virgolette di sopra)? Secondo la topologia e la statica più intuitive, può un palazzo reggersi su sé stesso? Secondo la neuroscienza più elementare, può una macchina cerebrale girare costantemente in fuorigiri senza pensare di fondere?

Come se non bastasse, poi, c’è il piano reale, dove queste già traballanti premesse teoriche incontrano la termodinamica e l’entropia. E allora per ogni top manager in burn-out ci sono mille nordafricani ammassati nelle banlieu, diecimila profughi che dalle coste (dove prima della barbarie francese sorgeva la Libia) fanno a gara per annegare nel Mediterraneo, e centomila che provano a risalire la parete subsahariana. E questo rumore sistemico di fondo, crollate le camere di sedimentazione che ci tenevano al riparo, si sta diffondendo a velocità stupefacente, così come il verbo dello Stato Islamico. Verbo che per le orecchie di un apolide puro, un indebitato perenne, un individuo solo, risuona come musica pura, come il senso che mancava. Insomma, in questi momenti di dolore ci preoccupiamo sempre e solo di scacciare istericamente l’ideologia pericolosa, provando a fermare il vento con le manine insanguinate, ma senza mai interrompere la costante produzione di materia prima che alimenta il terrorismo: menti vuote e corpi disagiati che aspettano solo di farsi riempire da quell’ideologia, e in una settimana di corso accelerato su youtube sono pronti a esplodere, falsificando tutto il nostro giocattolino ermeneutico.

L’Occidente, il soggetto che più di tutti dovrebbe avere gli strumenti per comprendere l’alterità, e attraverso l’altro ripensare e affinare le sue prospettive, è invece in preda ad un autismo superbo e terrorizzato, e non sembra dare segni di reazione alle mutate circostanze del mondo. E forse è vero che la linea del tempo non ammette inversioni, ma almeno farsi due domande sulla funzione di quel pedale tra acceleratore e frizione, mentre sfrecciamo verso il muro della storia, chissà, anche solo come esercizio mentale, pour parler, forse potrebbe ancora servire a qualcosa.