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I dogmi deleteri della politica Usa

di Scott Ritter - 20/09/2006

 

Se gli Usa non sono in grado di trovare un'alternativa per gestire le proprie controverse vicende elettorali, se non riescono a trovare un modo per finanziare pubblicamente le elezioni, non rimane alcuna speranza per i cittadini americani di tornare ad un’esistenza più prosperosa e pacifica. Oggi le decisioni negli Usa vengono prese in base a dogmi, non fatti. Eppure, se la guerra in Iraq ci ha insegnato qualcosa, è che i fatti contano, eccome

Alla fine di agosto, ho avuto il piacere di condividere un podio con un uomo tra i più straordinari, Jonathan Tasini. I più ignoreranno il suo nome, il che è un peccato, perché quest’uomo rappresenta l’unico sfidante democratico al ruolo autocratico della senatrice junior di New York – e prima ancora possibile candidata alla presidenza Usa del 2008 – Hillary Rodham Clinton. In effetti, al di fuori di New York City e dintorni, Jonathan Tasini è pressoché un completo sconosciuto. Questo eloquente personaggio, che ha predisposto un solido piano "via dall’Iraq" (e ha altresì appoggiato una valida strategia "non invadete l’Iran") non è in grado di far valere la propria candidatura nell’ambito della corrente elettorale mainstream newyorchese non perché sia uno "stravagante" o un politico di nicchia, quanto per una ragione tra le più inquietanti: non riesce a raccogliere sufficiente denaro. Alla fine, a New York – e altrove in America, oserei dire – l’unico standard che conta davvero sembra essere il sistema aureo (il “Gold Standard”). Basta mettere sul tavolo un piatto ricco ed ecco fatto, una candidatura diventa subito credibile.

Provate a confrontare l’offerta senatoriale di Jonathan Tasini con quella del compagno democratico Ned Lamont, del vicino Connecticut. Come Tasini, Lamont era un perfetto sconosciuto ai cittadini del Connecticut. All’inizio di questo mese, Ned Lamont è prevalso sul senatore democratico Joe Lieberman, impedendo la riconferma di quest’ultimo, in carica da tre legislature (nonché ex candidato alla vice presidenza), per un mandato democratico di quattro anni (Lieberman può, comunque, presentarsi come indipendente contro Lamont). Numerosi osservatori considerano l’attuale crescente tendenza di avversione alla guerra – dilagante negli Usa, compresi New York e Connecticut – e la capacità di Ned Lamont di farvi presa con successo come le ragioni principali per la sorprendente vittoria di quest’ultimo. Altri punteranno il dito contro il sostegno di Joe Lieberman non solo alla guerra in Iraq, ma anche alle politiche di sicurezza nazionale ed estera dell’amministrazione repubblicana di Bush in un periodo in cui gli Usa si ritrovano incredibilmente divisi lungo linee partigiane. Tutti questi fattori hanno contribuito alla vittoria di Ned Lamont rispetto a Lieberman. Tuttavia, se non fosse stato per la sua offerta elettorale da quattro milioni di dollari, Lamont non ce l’avrebbe fatta.

Similarmente al caso di Jonathan Tasini, Ned Lamont, per via del suo status di perfetto sconosciuto, si è trovato virtualmente impossibilitato a raccogliere dalle donazioni fondi sufficienti per sostenere una candidatura vincente a livello statale. Come Tasini, Lamont si è trovato a concorrere con un potente senatore che aveva ricevuto un notevole favore dall’establishment del partito democratico. Diversamente da Joe Lieberman, che crede fermamente (se non erroneamente) nel merito della propria posizione, Hillary Clinton sulla questione irachena ha assunto un atteggiamento camaleontico, intriso di nessuna convinta opinione in merito allalla permanenza Usa in Iraq; piuttosto, l’ex first lady si è concentrata su come avrebbe potuto ben collocarsi tra i meandri delle politiche elettorali.

Pertanto, se Joe Lieberman può essersi macchiato le mani del sangue di oltre 2.600 soldati americani (e di quello di decine di migliaia di iracheni) per il proprio sostegno a una guerra ingiustificabile, Hillary Clinton – per aver posto le proprie personali aspirazioni politiche al di sopra di quelle degli uomini e delle donne che, al servizio di questo grande bluff che chiamiamo politica americana, così abilmente servono gli Usa nelle forze armate – non sta facendo di meglio.

Anzi, dal punto di vista della posizione sulla guerra, la Clinton è persino più vulnerabile di Lieberman. Ed è curioso che Jonathan Tasini, nonostante le sue diverse e argute linee di condotta su Iraq, Iran e sulla questione delle complicate relazioni degli Stati Uniti con il resto del mondo – linee guida che in termini di coerenza, capacità di discernimento e base morale non si paragonano a quelle di Ned Lamont e della stessa Hillary Clinton – non riuscirà mai a prevalere a livello statale sulla Clinton. La ragione di questa parodia? Jonathan Tasini non si può permettere di comprare un posto nel senato Usa come Ned Lamont poteva fare – e ha fatto.

Sembra che nel grande gioco della politica a stelle e striscie il denaro abbia sempre la meglio sulle idee. Non esiste alcun modo per cui il partito democratico possa giustificare il proprio fedele appoggio a Joe Lieberman durante le primarie. L’uomo in questione aveva preso le distanze dai democratici su importanti questioni, che chiamavano in causa lo stesso sistema di valori alla base della società americana. Lieberman e i suoi hanno fatto notare come il successo elettorale sia stato ottenuto sulle questioni sociali interne; ma non si può parlare di servire gli interessi interni dell’America quando, nell’appoggiare la guerra in Iraq, la cosiddetta "Guerra globale al terrore" e l’imminente guerra all’Iran, si devia dal principio di legalità così com’è messo in evidenza nella Costituzione degli Stati Uniti – un principio che si rifà, sia nel contenuto sia nello spirito, alla legge internazionale stabilita dalla Carta della Nazioni Unite e dalla Convenzione di Ginevra.

Lieberman ha fatto a pezzi i principi di queste leggi quando ha appoggiato l’invasione dell’Iraq. Lieberman ha sostenuto la tortura e l’incarcerazione illegale, e quindi la violazione dei diritti costituzionali Usa accettando impassibilmente le intercettazioni telefoniche condotte senza espressa autorizzazione. Lieberman è un candidato che il partito democratico statunitense avrebbe dovuto respingere – eppure lo stesso partito ha mobilitato i suoi “pezzi grossi”, compreso l’ex presidente Bill Clinton, a sostenerlo. Hillary Clinton non è da meno, se non peggio, di Joe Lieberman sulla questione dell’Iraq, sulla guerra al terrore, sull’Iran e sulla tutela delle libertà civili americane come garantite dalla costituzione. Ma come avvenuto con Lieberman, i democratici continueranno a sostenere sentitamente l’ex first lady come senatrice di New York e come (probabile) candidata per le presidenziali del 2008. Non perché rappresenti qualcosa di particolarmente apprezzabile, bensì perché è in grado di generare quello che Jonathan Tasini non può: il denaro, e in gran quantità. Il suo bottino di guerra è attualmente pari a circa 44 milioni di dollari; ma potrebbero presto moltiplicarsi, ed essere destinati non solo alla propria candidatura, ma all’intero partito democratico.

Si tratta di una tendenza che si è fatta di nuovo viva lo scorso giugno, quando il partito democratico ha fatto il tifo per la delegata della California Jane Harman, che poco prima si era vantata di essere "la democratica più repubblicana del momento". L’alternativa a Jane Harman era Marcie Winograd. Tuttavia, come Jonathan Tasini, Marcie non poteva competere finanziariamente con l’apparato elettorale della Harman. Il partito democratico ha fatto in modo che i propri rappresentanti non approvassero la candidatura della Winograd: non perché Jane Harman fosse chissà quale leale sostenitrice dei valori democratici, piuttosto perché la Winograd non poteva generare quei milioni di dollari necessari a rimpinguare i forzieri del partito per le elezioni del 2006. Jane Harman ha vinto le primarie, e l’America e i democratici si trovano ora in una situazione ancor peggiore.

Il punto è che il denaro di Ned Lamont non ha “sovvenzionato” alcun movimento contro la guerra in Iraq, quanto piuttosto una diffusa tendenza di rigetto del conflitto, che ha più a che vedere con un’America intrappolata nella palude irachena rispetto a qualsiasi istinto morale che giudica l'avventura tra i due fiumi insensata in partenza. Le cifre, che i movimenti contro la guerra citano come prova che esiste un seguito alle loro proteste, non hanno in realtà una gran rilevanza. Certo, più del 60% dei cittadini statunitensi oggi esprime negativamente rispetto alla campagna in Iraq. Ma circa il 50% di questi stessi americani continua a credere che l’Iraq avesse (e continui ad avere) armi di distruzione di massa. Analogamente, la maggior parte degli americani dà per buone tesi improbabili in merito al programma nucleare dell’Iran e alla minaccia posta da questo paese, e anche ad altre complesse questioni come il conflitto israelo-palestinese e la recente crisi in Libano. Per una nazione che in teoria oggi dovrebbe essere così avversa alla guerra, trovo strano che, fatta eccezione per l’Iraq (e in misura minore l’Afghanistan), molti americani, a fronte di un potenziale interesse per il proprio paese, non vedano poi di così cattivo occhio ulteriori imprese belliche persino più pericolose.

L’ho detto e lo ribadisco. Gli americani non sono così tanto avversi alla guerra come lo sono alla sconfitta: nel lasso di tempo successivo agli eventi dell’11 settembre, si sono a trovati a riflettere collettivamente su ciò che è accaduto quel giorno, perché è accaduto, e come poter evitare che succedesse di nuovo. Anziché definire ed esprimere una valutazione basata sui fatti, formulare un approccio razionale sul come affrontare la questione, gli Stati Uniti si sono buttati a capofitto in un’offensiva in Afghanistan corrispondente più alla necessità di vendetta che a una ragionata linea di condotta. Ne abbiamo la prova ogni giorno: l’Afghanistan continua a degenerare, i talebani si sono riassestati, Osama bin Laden e i suoi compari sono ancora in libertà, continuando a cospirare contro il paese. Gli americani nulla hanno fatto per andare al cuore del cancro che ha scatenato l’11/9, e, nell’impeto della rivalsa a tutti i costi hanno finito per dare nuova linfa alla macchina infernale che ha seminato morte e terrore cinque anni fa.

Gli Usa hanno prolungato l’abbaglio afghano in una più ampia e improbabile politica di trasformazione regionale del Medio Oriente (vale a dire, un generale cambio di regime), facendo un tutt’uno dell’Iraq di Saddam e di al-Qaeda. Gli Usa hanno spacciato per buona l’irrazionalità di questo legame per coltivare l’insipienza delle ingenue masse americane all’oscuro di tutto (come sempre). Gli Usa hanno creato armi di distruzione di massa laddove non esistevano, e ne hanno affidato la paternità alla fantomatica alleanza Hussein-Bin Laden. Gli Usa sono andati in guerra contro l’Iraq, non solo violando la legge internazionale e tutto ciò a cui il popolo americano dichiara di ispirarsi, ma anche avvallando di essi ogni rappresentazione diabolica che i suoi nemici hanno diffuso in questi anni. Risultato: più terroristi, più terrore.

Ci si può sedere con Jonathan Tasini e discutere a lungo di queste ed altre questioni. Tasini è una persona estremamente franca, e mostra una profonda conoscenza non solo dei fatti, ma, in particolare, dell’opinione e della trattazione che ne hanno dato negli Usa i democratici. L’uomo è un autentico patriota, la cui posizione contro la guerra si basa sulla constatazione che la campagna in Iraq è stata un madornale errore a prescindere. Tasini non crede che gli Usa non debbano tutelare i propri interessi, anzi. Piuttosto, riconosce che ciò non si debba realizzare con lo dispiegamento di forze Usa all’estero, ma abbracciando principi di base di moralità e di legalità. La sua posizione è estranea alla prospettiva cosiddetta "avversa alla guerra" di Ned Lamont – il quale altro non ha fatto se non far leva sul mero spirito di rivalsa degli americani, continuando al contempo a promuovere irresponsabili avventure militari di Israele in Libano e degli stessi Usa in Iran.

Tuttavia, non bisogna crocifiggere Ned Lamont per questo. In fondo, ha fatto quello che doveva. È lo stato del Connecticut che semmai deve essere rimproverato, nonché l’America intera, che continua a vivere nel proprio mondo, ignorando ciò che realmente significa essere americani. Chiedo a chi mi legge di entrare in un qualsiasi bar o ristorante, di andare ad una partita di baseball, ad una gara NASCAR ('National Association for Stock Car Auto Racing', NdT), in una qualsiasi scuola superiore o università, e condurre un sondaggio su quanti hanno davvero letto e compreso la Costituzione degli Stati Uniti per ciò che rappresenta e significa. Si vedrà quanto i risultati si riveleranno deprimenti.

L’unico modo in cui l’America può ovviare al suo attuale decadimento è far sì che gli uomini e le donne responsabili si destino e si rendano partecipativi. Solo attraverso il dibattito e il dialogo gli americani potranno sfidare le percezioni erronee e darsi pieni poteri per dedicarsi ad un’analisi basata sui fatti piuttosto che su credenze infondate.

Tuttavia, la situazione di cui dicevamo non è incline a esporsi a tutto ciò. Hillary Rodham Clinton si rifiuta di dibattere seriamente con Jonathan Tasini. Le azioni della Clinton sono definite come ragionevoli dai media, poiché Tasini non vi può competere finanziariamente. Vi dico che qualsiasi confronto tra Tasini e Hillary Clinton non solo mostrerebbe l’ex first lady in tutta la sua pochezza – non solo per quanto riguarda l’Iraq – ma rivelerebbe agli elettori di New York che, quando saranno chiamati a decidere chi meglio li dovrà rappresentare, avranno la possibilità di scegliere tra più alternative. È un peccato che Jonathan Tasini non possieda i mezzi economici necessari a “comprarsi” un dibattito con Hillary Clinton. Preferisco sempre la realtà da classe media di Tasini al lussuoso privilegio di Lamont e e della Clinton.

Oggi molti cittadini americani lamentano il problema delle “elezioni rubate”, chiamando in causa l’avvento del voto elettronico e la scomparsa delle schede elettorali di carta – verificabili. Ma l’atto del voto, così palesemente minato dalla mancanza di responsabilità e verifica caratteristici della votazione elettronica, non ha valore se, alla fine, è il sistema elettorale nel suo complesso a essere corrotto. Negli Stati Uniti, nelle vicende elettorali sia repubblicane che democratiche, esistono centinaia se non migliaia di Jonathan Tasini e Marcie Winograds, persone che cercano di svolgere al meglio il proprio dovere civico. Ci sono candidati di altri partiti che hanno acume, punti di vista ed opinioni da cui gli elettori potrebbero essere arricchiti, o confortati. Eppure, questi potenziali rappresentanti di Noi, popolo degli Stati Uniti ("We The people") vengono annientati da un sistema elettorale conformato alla conservazione di interessi e privilegi piuttosto che alla tutela dei diritti civili e delle libertà.

Se l’America non é in grado di trovare un'alternativa per gestire le proprie vicende elettorali, non rimane alcuna speranza per i suoi cittadini di tornare ad un’esistenza più prosperosa e pacifica, libera dalle “discussioni” di coloro che cercano di conservare il potere e da un sistema mediatico controllato dalle corporazioni che allo stesso potere sono asservite. Così, le decisioni verranno prese in base a dogmi, non fatti.

Se la guerra in Iraq ci ha insegnato qualcosa, è che i fatti contano, eccome. Ma, sempre più, le sole persone interessate ai fatti sono i Jonathan Tasini, e, in generale, tutti quelli che operano al di fuori del sistema di avidità, potere e corruzione che definisce l’attuale politica americana. In breve, se gli americani non riescono a trovare un modo per finanziare pubblicamente le elezioni, la speranza e la promessa di una democrazia rappresentativa in America si trasformeranno in una chimera su cui gli storici mediteranno; quel sogno iniziato nel 1776 morirà così non realizzato, perchè le voci di cittadini come Jonathan Tasini sono state crocifisse su una “Croce aurea” elettorale.

 

Scott Ritter è stato ispettore Onu per gli armamenti in Iraq tra il 1991 e il 1998. Prima di lavorare per le Nazioni Unite è stato ufficiale dei marines e consigliere del generale Schwarzkopf nella prima guerra del Golfo. Attualmente è opinionista di FoxNews. Ritter è autore di Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU (prefazione di Seymour Hersh, prefazione all'edizione italiana di Gino Strada).

 

Fonte: AlterNet
Traduzione a cura di Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media