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Chi respira muore

di Alessandro Iacuelli - 21/09/2006

 

 

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Basta leggere i giornali, spesso senza bisogno di andare all’indietro nel tempo, per leggere degli illeciti riguardanti i rifiuti in Campania. E non sempre si parla di Rifiuti Solidi Urbani (RSU). La continua emergenza nel settore dei rifiuti, che tiene stretta la Campania nella morsa di un dannoso commissariato straordinario da 13 anni, ci ha fatto in qualche modo abituare ai rifiuti per strada, a non far caso ai cumuli di scorie abbandonati lungo le provinciali, lungo l’asse mediano, nelle campagne appena al di fuori della città.
Tanti i casi “famosi”, dalla discarica di Pianura, alla discarica Tre Ponti di Giugliano, dal ritrovamento di una mega discarica (abusiva) nel nolano, piena di rifiuti altamente tossici, ai 120 fusti aperti pieni di materiale chimico a Santa Maria La Fossa (Ce), l’etichetta sui fusti era scritta in tedesco. Questo per citare solo i casi più eclatanti.
Oggi, secondo quanto emerge dalle numerose indagini delle Procure di Nola, Napoli e Santa Maria Capua Vetere, venire a smaltire in Campania è conveniente.

Conveniente perché costa di meno. Tanto per fare qualche esempio, smaltire morchie di verniciature e solventi costa normalmente dalle 600 alle 800 lire al chilo, mentre certi clan criminali campani lo fanno per 280 lire al chilo. Normalmente, un’industria ha bisogno di smaltire molte tonnellate all’anno di simili rifiuti.
Del resto che si tratti di una vera emergenza criminalità lo dimostrano anche le cifre rese note nel “Dossier Rifiuti” di Legambiente: otto clan che gestiscono gli affari, 1088 reati accertati, 509 sequestri effettuati per un valore di oltre 18 milioni di euro negli ultimi cinque anni. Ed è solo la punta d’iceberg. Solo quel che è stato scoperto. Difficile stimare l’entità di quanto è ancora sommerso. Sempre in Campania sono, secondo l’ultimo censimento dell’Anpa, ben 814 i siti da bonificare, occupati da circa 3 milioni di metri cubi di rifiuti. Numeri che alimentano gli appetititi della criminalità organizzata.
Ancora oggi, le istituzioni mettono in primo piano due aspetti del problema: quello politico dell’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, e quello giudiziario nel settore degli sversamenti abusivi. A nostro avviso, viene trascurato l’aspetto che dovrebbe essere quello principale: l’aspetto delle conseguenze sulla salute pubblica.

I rifiuti della camorra
L’introduzione, avvenuta solo nel 2001, del delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti sta incominciando a dare frutti importanti, anche se in ritardo, in un’Italia che ancora una volta si è attardata dal punto di vista legislativo. In tutte le province campane sono stati realizzati significativi sequestri di siti di scarico abusivi, ove sono state reperite notevoli quintali di rifiuti tossico nocivi. La situazione è divenuta allarmante proprio con il prolungarsi dell’emergenza derivante dalla saturazione delle aree territoriali da destinare allo scarico di rifiuti, le cosiddette “discariche legali”. In tale occasione la camorra ha cercato di dirottare lo smaltimento verso siti privati propri, generando gravi situazioni per la salute e la sicurezza pubblica.
Particolarmente attivo in tale settore è il clan dei Casalesi che opera quasi in regime di monopolio in tutte le attività a questo connesse.
Il clan, guidato dal noto boss Francesco Schiavone detto “Sandokan” di Casal di Principe, ora in arresto dopo anni di latitanza, ha progressivamente esteso il controllo a tutte le diverse fasi del ciclo dei rifiuti: raccolta, trasporto, occultamento e distruzione, ricorrendo a complesse metodologie operative che prevedono la costituzione di una fitta rete di intermediari e di società in apparenza pulite.
Da ormai 15 anni, la Campania è il crocevia dello smaltimento dei rifiuti provenienti da ogni regione, affare che ha fruttato, e frutta, enormi guadagni alla camorra ma anche alle altre organizzazioni criminali e ad altri individui, ci si riferisce ai cosiddetti criminali dal colletto bianco: amministratori, chimici analisti, impiegati. Per anni hanno escogitato un trucco molto semplice, chiamato in gergo “giro bolla”, che consiste nel falsificare il modulo di identificazione dei rifiuti, il Mud; formalmente loro sversano in discariche lecite, ma in realtà gettano i rifiuti in cave, fiumi e laghi. Solo nel casertano sono state sequestrate qualcosa come 1.000 discariche abusive. Ma c’è anche chi, in modo illegale e criminale, si è sbarazzato di autentiche bombe gettandole nelle discariche autorizzate per lo stoccaggio dei rifiuti solidi urbani.
Fin dai primi anni novanta una vera e propria holding composta da imprenditori, clan criminali, soggetti affiliati a logge massoniche e politici corrotti, ha gestito il trasporto, dal centro-nord verso il Mezzogiorno, di rifiuti industriali e urbani. Da Lombardia, Piemonte ma anche Toscana verso la Campania ma con propaggini significative nel Lazio, in Calabria, Basilicata e Puglia, TIR carichi di rifiuti finivano il loro tragitto presso discariche non autorizzate a riceverli e, soprattutto cave abusive, terreni scavati per l’occasione, riempiti di immondizia e ricoperti, aree dell’entroterra disabitate.

Inquinamento e salute
Oltre al danno economico per lo Stato, e per tutti noi, derivante dalla forte evasione fiscale (non viene pagata la cosiddetta “eco-tassa”), ci sono anche altri danni.
Nell’estate 2004, il dottor Alfredo Mazza, ricercatore in Fisiologia Clinica del CNR a Pisa, ha pubblicato sulla prestigiosa rivista medica “The Lancet Oncology” un suo agghiacciante studio sull’incidenza tumorale in Campania. I risultati degli studi e delle analisi effettuate dal ricercatore furono anche pubblicate su quasi tutti i quotidiani italiani. Nello studio, ci si riferisce ad un’area di 12 comuni, compresi tra Acerra, Pomigliano d’Arco, Nola e le falde settentrionali del Monte Somma, facente parte del Parco Nazionale del Vesuvio. In quest’area vivono oggi circa un milione di persone. Statistiche alla mano, Mazza mostra come l’indice di mortalità per tumore al fegato ogni 100.000 abitanti sfiora il 35.9 per gli uomini e il 20.5 per le donne rispetto a una media nazionale che è di 14 casi. Questo in un quadro generale che assegna alla zona un indice di mortalità mediamente più elevato anche per altre forme di cancro.
Ricordiamo che l’area in questione, anche se caratterizzata da alcune presenze industriali anche grandi, mantiene comunque fortemente la sua vocazione agricola: in pratica non siamo di fronte ad una grande area industrializzata come se ne trovano nel nord Italia.
Il più grave dei pericoli derivanti dalla presenza di discariche abusive è in effetti quello dell’inquinamento del suolo e quello delle acque. L’inquinamento del suolo è determinato dal fatto che per la legge italiana non si può costruire su zone adibite a discarica legale.
Molto spesso, i materiali di risulta degli scavi di fondamenta di edifici o quelli di smaltimento dei rifiuti vengono invece utilizzati come compattamento per le strutture fondiarie, o comunque per le fondamenta di altre strutture edilizie abusive. Il che significa che molte delle strutture abusive vengono costruite su ex discariche abusive. Perché? Perché con questo materiale si cementa tutto e ciò non consente di verificare in un secondo momento la presenza della discarica e questo, a distanza di tempo, si concretizza in danni per la salute dei cittadini. Per non parlare dell’inquinamento sia delle falde acquifere che delle acque superficiali. Il più celebre caso di questo tipo è nel casertano: 80.000 metri quadrati di discarica abusiva a cielo aperto che riversava grossi fusti tossici nel fiume Volturno, inquinato ed ormai ecologicamente quasi irrecuperabile.
Le modalità tipiche dello scarico sono le seguenti:

I camion carichi di rifiuti giungono, nelle ore notturne, in corrispondenza di buche, spesso ex cave a loro volta abusive di sabbia e materiali per l’edilizia; Le buche vengono riempite di rifiuti e poi vengono immediatamente coperte. Quando non è possibile coprirle, il materiale sversato viene invece dato alle fiamme. Inutile precisare che questo tipo di scarico comporta gravi infiltrazioni indirette di sostanze tossiche sia nelle falde acquifere sia nel terreno.
I fanghi di depurazione e i rifiuti industriali liquidi, formalmente destinati a impianti di depurazione e riciclaggio, sono versati direttamente nel terreno, con conseguenze gravissime. Recenti analisi chimiche dei terreni hanno evidenziato alte concentrazioni di diossina, mercurio, arsenico, amianto. Migliaia di persone sono esposte a sostanze tossiche per decenni. Tutto è contaminato: gli agenti inquinanti nell’aria, nell’acqua e nei prodotti della terra sono ben al di sopra dei livelli consentiti.

Nell’agosto 2004, il comprensorio di Acerra (Napoli) sale alla ribalta della scena mediatica italiana a causa delle proteste popolari contro la costruzione di un inceneritore. Durante quelle proteste, per la prima volta, è venuto allo scoperto il problema dell’avvelenamento del terreno e delle acque.
Alcuni pastori della zona, portarono nelle vicinanze del cantiere sette pecore agonizzanti per dimostrare la fondatezza dell’allarme-diossina registrato in un’area vicina al cantiere. Gli animali furono lanciati a terra, a pochi passi dal cordone di agenti di polizia che presidiavano la strada d’accesso alla zona dei lavori.
In realtà, la presenza di diossina nei “Regi Lagni”, canali di scolo delle acque reflue e piovane di età borbonica ancora esistenti sul territorio, era già stata rilevata tempo addietro, prima dell’apertura del cantiere per la costruzione dell’inceneritore.
In particolare, la località “Pantano”, dove dovrebbe sorgere l’impianto di incenerimento era già considerata “insalubre” e ad alto rischio incidenti per la vicina presenza dello stabilimento chimico Montefibre, specializzata nella produzione di acrilici. Infatti, a partire dal 1999, un’ordinanza comunale dell’Amministrazione di Acerra vietò l’uso dell’area per insediamenti industriali. La Montefibre, dal canto suo, aveva già previsto nel piano di riconversione industriale un progetto di potenziamento dell’esistente centrale termoelettrica (interna alla fabbrica) di circa 400 megawatt. Per il comune di Acerra questa eventualità alimenterebbe il rischio di incidenti nell’area adiacente allo stabilimento.
La Montefibre annunciò anche di predisporre un’ordinanza sindacale per vietare l’utilizzo di quell’area in applicazione del decreto legislativo 334 del `99, relativo al rischio di incidenti causati da sostanze pericolose, ordinanza che sarebbe solo temporanea, nell’attesa che una nuova variante urbanistica organizzi definitivamente gli insediamenti industriali dell’area.
Chi ne fa le spese, di tutto questo? Ne fa le spese, ad esempio, la famiglia Cannavacciuolo, famiglia che vive in quella zona occupandosi di allevamento di ovini. Insieme a loro, altri allevatori della zona vedono ridursi il loro bestiame a causa dell’avvelenamento.
Gli allevatori sostengono che fin dal 2002 (quindi da un periodo precedente al progetto dell’inceneritore) i capi di bestiame si sono decimati a causa della elevata presenza di diossina nel territorio non urbano del comune di Acerra.
Vincenzo Cannavacciuolo aggiunge: “L’assessorato regionale alla sanità ci aveva promesso prima un aiuto economico, poi una zona alternativa per il pascolo, ma ad oggi noi non abbiamo ricevuto nulla.”
Forzati a far pascolare là le loro pecore, in attesa di un diverso piano urbanistico che faccia destinare all’allevamento altri terreni più salubri, gli allevatori si trovano in una stretta morsa, tra la moria del bestiame, e le salate multe se si va a pascolare altrove.
Anche sul fronte delle falde acquifere le cose non sono diverse: 79 pozzi artesiani chiusi tra il 2002 ed il 2004 per inquinamento, con danni sia per l’agricoltura sia - ancora una volta - per gli allevatori.
Col passare del tempo, la situazione non è migliorata. Circa un mese fa, il 5 febbraio per la precisione, altri capi di bestiame sono stati ritrovati morti avvelenati. Le autopsie effettuate sugli animali indicano nella presenza di diossina nel cibo e nell’acqua la causa della morte.
Stavolta Cannavacciuolo, il più attivo tra gli allevatori che protestano, ha portato 20 pecore morte davanti alla sede del comune di Acerra. Gli allevatori hanno chiesto un incontro con il sostituto procuratore Maria Cristina Ribera, che ha condotto l’indagine sul giro di affari legato allo smaltimento di rifiuti industriali e nocivi usati come fertilizzante nelle campagne di Acerra, che ha portato all’arresto di 14 persone, tra cui i dirigenti della ditta Pellini ed alcuni sottoufficiali collusi dell’Arma dei Carabinieri.
“Tutti quei rifiuti tossici”, spiega Cannavacciuolo “hanno inquinato il nostro territorio ed hanno portato alla morte le nostre pecore. I nostri allevamenti sono stati decimati dalla diossina, il tutto per il traffico di rifiuti avvenuto sul territorio acerrano”.
Se questo è l’effetto sugli ovini, vengono ovviamente dubbi sui potenziali effetti sull’uomo di questo tipo di inquinamento.
Al momento, l’unico studio esistente è la relazione tecnica che il comune di Acerra ha commissionato ai professori Marco Caldiroli e Francesco Francisci, risalente però ai primi di luglio del 2003.
Dalla relazione si evince che il livello di diossina sul territorio è di ben 53 picogrammi per metro quadrato, un valore “quattro volte superiore” al limite consentito. Ed è grave che le agenzie di analisi del commissariato di governo ritengono il livello di diossina di Acerra non preoccupante. In base a quali esami?
Le analisi effettuate dalla SOGIN e dall’Istituto Mario Negri di Milano, mostrano invece una elevata concentrazione di diossine nel latte ovino.

L’azione della magistratura
Non abbiamo in questa sede lo spazio per elencare tutte le azioni di contrasto avvenute ad oggi, a partire dal lontano 1991, anno dell’Operazione “Adelphi”, ma è doveroso citare quelle principali, per dare un’idea della distribuzione geografica nel territorio, nonché le più recenti, per indicare come il problema non sia affatto superato. Le indagini dell’Operazione “Adelphi” misero a nudo una situazione allarmante: la Campania è diventata ormai da anni la pattumiera d’Italia. Centinaia di discariche abusive furono scoperte sugli appezzamenti agricoli, nel ventre do montagne “scomparse” a causa delle attività estrattive illegali, dietro l’attività di improbabili cantieri edili. Sei imprenditori vennero condannati dalla Settima Sezione del Tribunale di Napoli per reati che vanno dall’abuso di ufficio alla corruzione, vengono assolti, invece, dal reato di associazione mafiosa.
L’operazione “Eco” colpisce il regno del clan dei Casalesi, che grazie al capillare controllo del territorio non hanno difficoltà a trovare luoghi dove scavare buche in cui nascondere i rifiuti o addirittura sversarli a cielo aperto. In poco meno di due anni, dal giugno ‘94 al marzo ‘96, i Casalesi movimentano centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti speciali provenienti dal Piemonte e dalla Lombardia. Le industrie produttrici di rifiuti sono legate alla lavorazione dei metalli pesanti.
Devono farsi carico di costi elevati per lo smaltimento del materiale di scarto prodotto all’interno del processo produttivo: polveri di macinazione delle schiumature di alluminio e polveri di abbattimento dei fumi, che sarebbe svantaggioso riciclare o reinserire nella lavorazione rispetto all’esigua quantità di alluminio che se ne ricava in cambio. Inoltre sono poche le discariche attrezzate e autorizzate allo smaltimento di questa tipologia di rifiuti.
L’organizzazione criminale si inserisce perfettamente a tamponare i deficit di sistema e offre un efficiente servizio di smaltimento, illegale ovviamente, che garantisce continuità e permette alle aziende di abbattere i costi. I rifiuti vengono acquistati attraverso una rete di intermediari che contattano direttamente le imprese produttrici offrendo prezzi estremamente vantaggiosi.
Attraverso la falsificazione dei documenti i rifiuti arrivavano come “residui riutilizzabili” in centri di stoccaggio in Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo per essere poi dirottati in aziende e discariche abusive soprattutto della provincia di Caserta, e poi Benevento e Salerno.

Nell’aprile del 2001, la Procura di Milano, dopo un anno di lavoro, ha scoperto un colossale traffico di materiale ad altissimo rischio tra Brescia, Napoli e Caserta. Oltre 18.000 tonnellate di rifiuti venivano trasportate dalla Lombardia alla Campania per essere smaltite in discariche abusive e, in gran parte, anche in quella autorizzata di Tufino.
L’operazione denominata “Falso Cdr” vede indagate, presso la Procura di Milano, 31 persone tra cui ex pubblici amministratori. “L’attività illecita - hanno spiegato i dirigenti del Nucleo di Brescia del Cfs - si concretizzava nello smaltimento illegale di rifiuti che, ufficialmente destinati a diventare materiale combustibile, erano invece smaltiti in discariche abusive. Società di comodo, camionisti compiacenti, capannoni fantasma, agricoltori pronti a trasformare terreni fertili in bombe ecologiche.” Il giro d’affari ammonterebbe a circa 6,5 milioni di euro.
Risale al luglio 2001, invece, la notizia della prima istruttoria in Italia per la quale vengono contestati reati associativi finalizzati all’inquinamento dell’ambiente. E’ l’operazione Cassiopea, che riguarda proprio una parte della Campania trasformata in pattumiera d’Italia. Le zone più colpite sono tutte in provincia di Caserta: Casal di Principe, Santa Maria La Fossa, Castelvolturno, Villa Literno, Lago Patria. La procura di Santa Maria Capua Vetere accusa un gruppo di colletti bianchi di aver smaltito nella sola provincia di Caserta circa un milione di tonnellate di rifiuti negli ultimi quattro anni, quasi 100 viaggi alla settimana. Rifiuti di ogni tipo: speciali, pericolosi, urbani.
Secondo gli inquirenti sono stati sversati o seppelliti anche cadmio, zinco, fanghi di depuratori, scarti da vernici, arsenico, piombo. Trasportati dai Tir dal Nord Italia. Novantotto le persone indagate. Imprenditori settentrionali, faccendieri, mediatori; accusati di associazione a delinquere, disastro ambientale, avvelenamento delle acque. Nell’inchiesta finiscono anche atti delle Procure di Torino, Firenze, Palermo, Sassari, Spoleto. Per circa tre anni il pm di Santa Maria Capua Vetere, Donato Ceglie, ed in Nucleo Operativo Ecologico dei carabinieri hanno indagato sul traffico di rifiuti con intercettazioni telefoniche, pedinamenti, foto e filmati.
Il giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere boccia, però, le 98 richieste di custodia cautelare. Pur riconoscendo la validità dell’impianto accusatorio, il giudice ritiene che ci siano problemi di competenza territoriale e che l’istruttoria non spetti alla Procura di Santa Maria.
L’operazione Cassiopea ha aperto comunque la strada ad altre inchieste. Infatti il 13 febbraio proprio la Procura della Repubblica di Spoleto, nell’ambito dell’indagine denominata “Greenland”, per la prima volta viene arrestata un persona per violazione all’art.53 bis del Decreto Ronchi, attività organizzate di traffico illecito di rifiuti, individuando una struttura organizzata dedita al traffico illecito di milioni di tonnellate di rifiuti speciali.

Nella notte del 9 Giugno del 2004, scatta l’Operazione “Terra Mia”, condotta dal Corpo Forestale dello Stato coordinato dalla Procura di Nola, che ha avuto l’indubbio merito di far scoprire per la prima volta che il triangolo tra Acerra, Nola e Marigliano è un triangolo di veleni. Prima, nessuno poteva immaginarlo.
Sedici persone arrestate, 18 denunciate a piede libero, venne scoperta un’organizzazione che smaltiva illegalmente i rifiuti derivanti dalla lavorazione dei metalli, generando un inquinamento tale da configurare, per la prima volta in assoluto in Italia, l’ipotesi di reato di disastro ambientale.
Nel corso delle indagini, durate due anni, furono sequestrati 26 siti di sversamento illegali, ai confini di campi coltivati o di zone sottoposte a bonifica quali i Regi Lagni.
Nella conferenza stampa che ne seguì, il comandante provinciale del Corpo forestale napoletano, Vincenzo Stabile, dichiarò: “Il danno è irreparabile, dato che l’inquinamento da metalli pesanti ha interessato anche le falde acquifere”.
Almeno 120 ettari di terreno nel triangolo dei veleni Nola, Acerra, Marigliano, secondo gli accertamenti degli inquirenti, sono pesantemente inquinati da polveri di abbattimento dei fumi degli altoforni (fonti principali di diossine), dalle scorie saline, dalle schiumature di alluminio e dai car-fluff (frazioni di rifiuti derivanti dalla rottamazione dei veicoli dopo aver eliminato le parti metalliche).
L’operazione consentì anche di tracciare una mappa precisa delle discariche illegali nella zona, terreni nei quali si sversava “alla luce del sole”, come sottolinea Ciro Luongo, responsabile del nucleo investigativo della Forestale che affiancò nelle indagini il Pubblico Ministero della Procura di Nola, Federico Bisceglia.
Proprio il Pm di Nola volle anche puntualizzare che in questo caso la camorra non c’entrava nulla o quasi, dichiarando che: “si tratta di imprenditori che operano semplicemente in questi termini di illegalità”. Tutti gli arrestati non erano legati ad alcun clan criminale. Erano semplicemente imprenditori, addirittura “puliti”, che consideravano quel modo di fare perfettamente normale, se non legale. Questo la dice lunga su quanto il problema sia d’origine culturale, prima ancora che politica, in Campania.

Il problema delle bonifiche
Nel corso delle indagini che portarono all’operazione “Terra Mia”, la Procura di Nola ha sequestrato le aree contaminate, indirizzando agli enti locali competenti l’avviso che avrebbe dovuto portare alla messa in sicurezza e alla bonifica prevista dalla legge Ronchi. Sono passati quasi due anni da quel giorno.
Due anni dopo, in alcuni comuni dell’area, non c’è stata alcuna bonifica di quei siti. I rifiuti sequestrati non sono mai stati messi in sicurezza.
Le aree sono state recintate, ma spesso in modo debole: sono stati apposti cartelli ad indicare che vi sono rifiuti tossici, e poi abbandonate. Spesso a cielo aperto.
Con il passare dei mesi, spesso i cartelli sono finiti come souvenir in casa di qualche adolescente appassionato di segnaletica stradale; con il passare delle piogge spesso nelle recinzioni si sono formate delle falle. Due anni dopo, non è raro trovare bambini spesso ignari che giocano nelle ex discariche.
Già nel 2002 lo stesso Corpo Forestale dello Stato aveva lanciato l’allarme, nel Terzo Censimento delle discariche abusive: solo il 21% dei siti sequestrati e non più attivi risulta bonificato o messo in sicurezza.
A norma della legislazione vigente (Decreto Ronchi), la bonifica delle discariche spetta sempre e comunque al responsabile (e/o proprietario) dell’area. Vi sono casi di esclusioni di responsabilità, nel caso in cui il proprietario dimostri di non avere colpa e dolo nella gestione e/o realizzazione della discarica.
In ogni modo il Comune deve provvedere in 30 giorni dalla segnalazione all’emissione dell’ordinanza di sgombero e conferimento dei rifiuti; in mancanza in detto termine deve provvedere a sue spese con successiva richiesta di rimborso.
Qualora invece i rifiuti siano abbandonati su suolo pubblico, il Comune provvede direttamente alla rimozione in trenta giorni.
Quindi un tempo massimo di trenta giorni, a fronte di due anni di età dei suoli sequestrati dalla Procura di Nola.
Una volta sequestrato il sito, la competenza dell’eliminazione delle scorie non è più dei tribunali, ma viene trasferita agli Enti Locali. Che restano immobili.

Eppure, a sfogliare certi numeri della Gazzetta Ufficiale, si scopre che sono stati anche emessi, e più di una volta, finanziamenti a pioggia ai comuni per la messa in sicurezza.
Ci si chiede quindi come mai occorra ancora assistere allo spettacolo delle discariche a cielo aperto, con tutte le conseguenze sulla salute della popolazione.
Non è cosa nuova, in Italia, che quando arrivano i finanziamenti su opere pubbliche, il rischio di infiltrazione negli appalti da parte del crimine organizzato è sempre alto. E in effetti i finanziamenti pubblici per le bonifiche sono arrivanti davvero. Il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio, con il decreto del 18 settembre 2001 sul Programma Nazionale di Bonifica, ha individuato 40 siti di interesse nazionale da bonificare, per i quali sono stati stanziati oltre 547 milioni di Euro, pari a circa 1.060 miliardi di lire, trasferiti già alle Regioni. A questi finanziamenti vanno poi aggiunti quelli dovuti dai responsabili della contaminazione, quando accertati.
Oltre 174 milioni di Euro sono destinati alle quattro regioni meridionali a tradizionale presenza mafiosa. Risorse che, come denunciano gli stessi addetti ai lavori, sono a rischio di infiltrazione mafiosa.
Se, dopo i disastri ambientali provocati dalla criminalità, i soldi pubblici dovessero finire in quelle stesse tasche, al danno farebbe seguito anche la beffa. Quel che è certo, e che è sotto gli occhi della popolazione della Campania, è che nonostante un Programma Nazionale di Bonifica, di bonificato non c’è praticamente nulla.

I giorni nostri
La mattina dell’8 maggio scorso è scattata l’operazione “Madre Terra 2″, che ha portato all’arresto di 5 imprenditori, soci della “R.F.G. Srl Impianto di Compostaggio” di Trentola Ducenta (CE). Per loro sono scattate le misure cautelari, 3 in carcere due agli arresti domiciliari, con reati contestati molto pesanti: disastro ambientale e associazione per delinquere per traffico illecito di rifiuti speciali e pericolosi. Sequestrato anche lo stabilimento R.F.G. Stando alle dichiarazioni in conferenza stampa del pm Donato Ceglie della Procura di Santa Maria Capua Vetere, la R.F.G. si è resa colpevole dello smaltimento illegale di 38.000 tonnellate di rifiuti pericolosi, con un giro di affari di circa 3 milioni di euro. L’operazione scaturisce da una precedente ed analoga indagine (denominata “Madre terra”) che nel mese di novembre 2005 portò all’arresto di nove persone; l’indagine, è durata sei mesi ed ha consentito di disarticolare una vera e propria organizzazione criminale ben radicata sul territorio.
Gli indagati, avrebbero movimentato nel solo periodo da novembre 2002 a maggio 2003 circa quarantamila tonnellate di rifiuti, con un giro d’affari di oltre tre milioni di euro.
In nota presentata poche ore dopo l’esecuzione degli arresti, l’assessorato all’Ambiente della Regione Campania, rende noto che il 24 marzo scorso si era provveduto a revocare, con apposito decreto, l’autorizzazione all’esercizio dell’impianto di compostaggio di Trentola Ducenta (Caserta). Con lo stesso atto la ditta Rfg (responsabile della trasformazione di rifiuti organici e inorganici) è stata diffidata dall’esercitare l’attività di compostaggio e qualsiasi altra attività ad essa collegabile, e intimata a provvedere all’immediata messa in sicurezza ed al ripristino ambientale dell’area. Il provvedimento era scaturito in seguito all’invio di una informativa antimafia interdittiva da parte della Prefettura di Caserta.
L’amministrazione comunale di Villa Literno, il comune maggiormente colpito dalle discariche abusive della R.F.G., esprime soddisfazione per l’operazione del gruppo tutela ambiente che ha portato al sequestro di numerosi terreni nell’area liternese.
Anche questo comune, dopo varie segnalazioni dell’Arpac circa terreni contaminati da fanghi tossici, ha emesso ordinanze di diffida ai proprietari dell’area ed alla società che distribuiva il compost tossico, intimando la messa in sicurezza e sollecitando la bonifica dei terreni. “Purtroppo le ordinanze sono state disattese”, spiega il responsabile dell’ufficio Ecologia e Ambiente del Comune, Mario Ucciero, “e del resto il Comune non ha i mezzi tecnici né i fondi economici per sostituirsi a chi di dovere per la bonifica dei terreni”.

La particolarità dell’operazione “Madre Terra 2″ sta nel fatto che agli avvisi di custodia cautelare ha fatto finalmente seguito una reazione da parte della società civile che, seppure in gravissimo ritardo, mostra di iniziare a comprendere la gravità del problema.
Reagisce Confagricoltura, la quale fa rilevare che “alla meritoria azione di repressione portata avanti dalla magistratura e dalle forze dell’ordine va affiancata una più decisa ed incisiva azione di prevenzione, senza dimenticare gli interventi di bonifica dei siti inquinati. I disastri ambientali ed il degrado del territorio rappresentano il problema dei problemi della Campania: se non si pone in essere una strategia di lungo periodo per superare questa indubbia criticità del sistema, si rischia di vanificare gli sforzi per la promozione delle produzioni di eccellenza della nostra regione”.
Reagiscono Legambiente ed il Consorzio Mozzarella di Bufala, che annunciano di costituirsi parte civile al processo contro i 5 imprenditori.

Passano appena tre giorni, e giovedì 11 maggio è scattata l’operazione “Dry Cleaner”, che ha impegnato il Nucleo Tutela Ambientale dei Carabinieri. Sono state eseguite 23 ordinanze di custodia cautelare, 13 sono finiti in carcere e 10 agli arresti domiciliari, più tre ordinanze di obbligo di dimora, tutte nei confronti di persone dedite al traffico illecito nel campo dei rifiuti. Le ordinanze sono state emesse dal gip del tribunale di Benevento. L’indagine ha accertato la responsabilità di operatori e liberi professionisti del settore dello smaltimento dei rifiuti, ritenuti dagli inquirenti responsabili di “associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti speciali e pericolosi e disastro ambientale”. Il reato di disastro ambientale è relativamente giovane in Italia, essendo stato inserito nel testo del provvedimento citato con l’articolo 22 della Legge 23 marzo 2001, n. 93, dal titolo “Disposizioni in campo ambientale”. Un reato che esiste solo dal 2001, in seguito al decreto Ronchi, e che viene contestato oggi abbastanza raramente.
L’operazione ha portato anche al sequestro di quattro siti utilizzati per l’illecito sversamento di rifiuti, ritenuti pericolosi per la salute pubblica. In circa otto anni sono stati smaltite illecitamente circa 50.000 tonnellate di rifiuti pericolosi provenienti dalla Campania ma anche dalla provincia di Foggia, confinante con quella di Benevento. L’organizzazione, formata da un cartello di aziende perfettamente legali, dotate di una “buona reputazione” sul territorio e presso gli enti pubblici, nonché presso il Commissariato Straordinario per i Rifiuti della Campania, provviste di regolare certificazione antimafia ed operanti, anche con appalti pubblici presso gli enti locali, nel settore dei rifiuti urbani ed industriali, avrebbe dovuto smaltire gli ingenti quantitativi di rifiuti speciali, sia pericolosi sia non pericolosi che le venivano conferiti, ma in realtà sversava direttamente su siti non autorizzati ubicati nelle campagne del beneventano circostanti, Pesco sannita e Benevento, Altavilla Irpina, Bonito nell’Avellinese e in corsi d’acqua superficiali, senza effettuare alcun trattamento sui rifiuti stessi. Evitando quindi completamente ogni spesa per il trattamento di messa in sicurezza e per lo stoccaggio definitivo dei materiali, ottenendo in questo modo un “guadagno extra” ancora da accertare con precisione, ma stimato in diverse decine di milioni di euro. E’ stata individuata un’elevata quantità di rifiuti di tutti i tipi: scarti agroalimentari, oli minerali esausti, fanghi di fosse settiche, rifiuti di bonifica provenienti dallo smantellamento di aree di servizio, morchie da serbatoi contenenti idrocarburi e, soprattutto, un’elevatissima quantità di fanghi di lavanderie a secco, da cui il nome dell’operazione.
Secondo gli inquirenti, lo smaltimento illecito andava avanti dal 1998. In tutto sono coinvolte a vario titolo una dozzina di imprese del ramo, ma la principale è una nota azienda di Bonito, che veniva utilizzata sia come sito terminale di smaltimento illegale che come copertura per i propri trasporti per i quali il responsabile del gruppo rilasciava falsi attestati di smaltimento. Infatti, ufficialmente i rifiuti risultavano stoccati e la documentazione indicava anche i luoghi di smaltimento; luoghi che poi si sono rivelati essere uffici, garage, civili abitazioni, discariche inesistenti. A questo si aggiunge che parte dei rifiuti provenivano anche dalla raccolta differenziata effettuata da alcuni comuni che, ignari, hanno continuato a pagare per il loro corretto smaltimento. Rifiuti differenziati che poi venivano illecitamente rimiscelati ed abbandonati sul territorio, vanificando ogni sforzo dei comuni e della società civile fatto negli anni scorsi per promuovere la cultura della raccolta differenziata.
Tra le persone coinvolte anche un chimico che presso il suo laboratorio forniva certificati di analisi falsi per il trasporto dei rifiuti, permettendo di declassificare a rifiuti urbani quelli che in realtà erano rifiuti industriali pericolosi. Il chimico inoltre suggeriva le operazioni più opportune per sviare le attività di indagine.
Abbandonando sul territorio senza alcuna forma di impermeabilizzazione e di copertura i rifiuti, tutta la fase liquida degli stessi, nell’arco di tempo dal 1998 ad oggi, si è infiltrata nel terreno, fino a contaminare le falde acquifere. Proprio l’infiltrazione nel terreno e nelle acque delle sostanze inquinanti contenute in questi rifiuti, ha certamente determinato la nocività dei prodotti agricoli, con conseguente pericolo per la salute dei consumatori. Per questo, l’autorità giudiziaria ha potuto configurare e contestare il reato di “disastro ambientale”. Anche in questo caso si è trattato di un’azione contro la cosiddetta ecomafia dei colletti bianchi, cioè quell’imprenditoria svincolata dai veri e propri clan di camorra ma che, semplicemente per abbattere i costi e massimizzare i profitti, assume comportamenti criminali.
E siamo in attesa delle prossime operazioni giudiziarie, che di sicuro non terminano qui.

Cosa può fare il normale cittadino?
Indignarsi, questo è certo. Indignarsi per una cattiva gestione, spesso collusa o quanto meno compiacente, da parte di tutti gli enti locali, ad ogni livello, e da parte del commissariato straordinario. Indignarsi per una privatizzazione selvaggia in un settore dove il controllo pubblico è necessario, prima che scoppi l’emergenza sanitaria.
Sì, ma nella pratica?
Non è certo necessario che tutti si mettano a praticare l’appostamento notturno in campagna, in attesa del furgone che scarica i bidoni, ma certamente qualcosa in piccolo si può fare.
Tanto per cominciare, come si è visto oggi il livello di guardia da parte della magistratura è molto elevato rispetto a 10 anni fa. Di conseguenza, si è anche modificata la strategia di sversamento da parte della criminalità campana. Oggi si preferisce evitare di mandare in campagna il grosso TIR con centinaia di fusti, facile da individuare e da tenere d’occhio. Si preferisce invece scaricare il TIR presso un magazzino, e traslocarne il contenuto tossico su piccoli furgoni, a volte su degli Ape, in grado di trasportare piccoli quantitativi e di fare più viaggi nell’arco di una notte. Il piccolo furgone va sul luogo dove sversare, scarica le scorie e, quando non sono metalli o inerti prodotti dall’edilizia, si aggiunge qualche copertone d’auto, si versa una tanica di benzina e si da fuoco al tutto.
Il processo di combustione di molti scarti industriali, si tratta spesso di solventi o idrocarburi, rilascia nell’atmosfera sostanze pericolosissime, come le diossine o il Pentaclorobenzene (PCB).
La pratica è talmente diffusa che tutta l’area a nord di Napoli, in particolare quella tra Giugliano, Qualiano e Villaricca, ma fino ad Aversa e con propaggini nell’agro nolano-vesuviano, viene spesso chiamata la “Terra dei Fuochi”, per le innumerevoli colonne di fumo nero e denso che di notte oltraggiano il territorio.
Quel che un cittadino comune può fare è, invece di voltarsi altrove, telefonare al 1515, centralino antincendio del Corpo Forestale dello Stato, e segnalare il luogo dove è stata avvistata la colonna di fumo. Non costa nulla farlo, e non solo perché la chiamata è gratuita,.
In pratica, quel che il cittadino può e deve fare è proprio il non stare zitto.

Alessandro Iacuelli è laureato in Fisica, giornalista free lance nel settore energia e ambiente, fa parte della redazione della testata on line “Altrenotizie, dove ha curato inchieste sull’emergenza gas dell’inverno 2005/2006, sul nucleare in Italia e sui rifiuti tossici e le ecomafie in Italia meridionale. Proprio su questo tema, si sta occupando a tempo pieno da molti mesi della particolare “emergenza” che vive la Campania da quasi 15 anni. Di origine napoletana, sta così tornando a seguire la “sua” terra, il commissariamento straordinario dei rifiuti, le attività ecomafiose legate alla presenza camorristica, e l’aspetto sanitario che sta provocando un aumento dei casi di cancro nella regione.

Bibliografia, articoli

Libri

Commissione Bicamerale d’Inchiesta sul Ciclo dei Rifiuti e attività illecite ad esso connesse, XIII Legislatura:
Relazione sulla Campania
Relazioni sui rifiuti speciali sanitari
Documento sui traffici illeciti e le ecomafie
Documento sulle tecnologie relative allo smaltimento dei rifiuti ed alla bonifica dei siti contaminati
Commissione Bicamerale d’Inchiesta sul Ciclo dei Rifiuti e attività illecite ad esso connesse, XIV Legislatura:
Documento sui commissariamenti per l’emergenza rifiuti
Relazione territoriale sulla Campania

Tutti i documenti delle Commissioni parlamentari sono scaricabili da Internet, all’indirizzo:
http://www.camera.it/chiosco_parlamento.asp?content=/_bicamerali/rifiuti/home.htm

Legambiente, e Comando Nucleo Ecologico dell’Arma dei Carabinieri. “Rifiuti S.p.A. Radiografia dei traffici illeciti”. Roma, 25 gennaio 2005

Legambiente, “Dossier ambiente e legalità”, Succivo (CE), 12 luglio 2002

Articoli

Alfredo Mazza, “In Italia il ‘triangolo della morte’ è collegato alla crisi dei rifiuti”, in “The Lancet Oncology, vol.5, settembre 2004.
Alessandro Iacuelli, “I rifiuti della politica”, in “Altrenotizie”, 27 aprile 2006, http://www.altrenotizie.org/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=498
Cinzia Colombo, “La calda estate campana non è ancora finita”, in “E & P”, “La Nuova Ecologia”, novembre-dicembre 2004.
Tutti gli articoli citati nelle note.