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Le vie spirituali dei briganti

di Roberto Beretta - 23/09/2006


Dal Buon Ladrone all’amico di Robin Hood Frate Tuck: uno studio singolare indaga la spiritualità dei «banditi»

Ma il brigante va in paradiso?

Figure più o meno leggendarie rivisitate nel loro rapporto con le tradizioni religiose.

Sarà contento Frate Tuck: vedere il suo Robin Hood aureolato di santità, magari sul piedestallo di qualche sagrato... Non era forse, l'arciere «che rubava ai ricchi per dare ai poveri», un accanito devoto della Madonna e secondo alcune antiche leggende non avrebbe sognato di concludere la carriera come eremita? Senza contare che robin in inglese è il pettirosso, simbolo medievale addirittura di Cristo...
Beh, siano gli strumenti di un imperscrutabile (e in certo senso «divino») sistema per riequilibrare la ricchezza ingiustamente distribuita, oppure le figure del rischio e della precarietà vicine alla condizione del vero «uomo spirituale», o chissà che altro: sta di fatto che i ladri godono d'ambivalente valutazione in molte tradizioni religiose, non esclusa la cattolica. Sono moralmente deprecati, ma anche indicati all'emulazione per coraggio e carattere; definiti peccatori dal pulpito, però nello stesso tempo assimilati ai quei «violenti» che - secondo il Vangelo - soli sarebbero capaci di impadronirsi del Regno dei cieli.
Il primo santo cristiano difatti, giunto in Paradiso addirittura prima dei Patriarchi biblici, è il Buon Ladrone; uno che - cercò di giustificare sant'Ambrogio, pur sempre uomo di Stato e quindi di legge - «rubò il Paradiso». Del resto, a ben guardarlo, il Nuovo Testamento non si faceva tanti scrupoli: ammette le bustarelle («Procuratevi amici con la disonesta ricchezza»), esalta la destrezza («I figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce»), paragona persino Cristo a un furfante («Ecco, io vengo come un ladro...») ed a mo' e in compagnia di questi gli fa finire la vita. Solo paradossi? Si è un po' meno disposti a crederlo dopo aver scorso Le vie spirituali dei briganti, miscellanea interreligiosa raccolta dalla Fondazione Giorgio Cini e stampata da Medusa, in cui vari esperti ripercorrono le grandi tradizioni spirituali del mondo e della storia accompagnati dall'insolito filo rosso del latrocinio.
Comin ciando dal cattolicesimo. Di farabutti o briganti vari, anzitutto, sono zeppe la patristica e le agiografie fino ai nostri giorni; e finché si tratta di pentiti e convertiti (Carlo Donà illustra come un finis optimus di vitae pessimae sia una costante della letteratura devota medievale), passi; ma qualche problema morale sorge allorché l'esaltazione teologica riguarda gli Arsenio Lupin ancora in attività (qui Franco Cardini ci erudisce sul caso di Rinaldo di Chatillon, feroce e spregiudicato re-pirata del XII secolo, passato però ai posteri come "martire" del Saladino)...
Eppure un'ascesi della ruberia esiste, almeno secondo la novellistica medievale dove il brigante trova più d'una parentela con l'eremita, e non solo. Attilio Andreini espone il caso del Bandito Zhi, figura molto nota dell'universo mitologico e cultuale del taoismo: un delinquente forse contemporaneo di Confucio (V-VI secolo a.C.), capobanda temutissimo, che dopo la morte viene "canonizzato": non solo, infatti, anche lui ha sacrificato la vita - benché per il delitto - come i santi più virtuosi; non solo la sua vita da fuorilegge rappresenta il rifiuto dell'ipocrisia; ma egli professa una «via etica» ben precisa: «Intuire dove i beni sono occultati, è indice di saggezza. Chi prima entra nel luogo del saccheggio è coraggioso. Chi sa cogliere il momento opportuno è sagace. Chi spartisce equamente il bottino ha buon cuore. E chi non soddisfa questi requisiti non riuscirà mai a diventare un grande bandito».
Similmente la tradizione islamica - scrive Angelo Iacovella - conosce i movimenti degli «ayyarùn» (ladruncoli capaci all'occorrenza di difendere i deboli e combattere gli eretici) e della «futuwwa», una sorta di ordine cavalleresco islamico. Né di meno Alessandro Grossato reperisce nell'induismo, dove addirittura l'arte del furto viene annoverata tra le 64 complementari del Veda, il libro sacro, ed esiste il dio dei ladri Skanda (i romani del resto avevano Ermes). Lo scasso v i assume persino forme rituali, con un significato simbolico per la forma del buco praticato e determinati mantra da recitare durante la sottrazione. Fino al caso dei thag (che Salgari ci ha abituato a scrivere thug), setta shivaita di banditi ed assassini, strangolatori per ragioni teologiche.
Delitto e santità. Virtù e depravazione. È nel gioco pericoloso dei rovesciamenti che molte tradizioni religiose intravedono una possibilità esoterica di accedere al divino, quasi per contrasto. Così la sanguinaria Yakuza, la mafia giapponese (ne parla Giorgio Arduini), si configura come una «via dell'eccesso» all'interno dello shintoismo, con tanto di riti e tatuaggi sacri - non troppo diversamente, forse, dalle tante Bibbie e dalle immaginette ostentate nei loro covi dai «padrini» nostrani. E il capovolgimento è talmente profondo che, alla fine, il membro della yakuza viene a definirsi un «male necessario» (se non ci fosse lui, con un certo codice etico, sorgerebbero certo ben altri delinquenti), quindi in un certo senso una «vittima» che sacrifica la sua esistenza all'altare del destino, cioè al volere degli dei. Più «santo» di così...



Aa.Vv.
Le vie spirituali
dei briganti
Medusa. Pagine 176. Euro 30